martedì 16 giugno 2020

Back To Black - Amy Winehouse (2006)


Una cosa è certa: nessuno potrà mai contestare il fatto che Amy Winehouse, in quella triste classifica che misura il livello di dolore e rimpianto per le troppe morti premature nel rock (e non solo), occupi una delle primissime, non invidiabili posizioni. Da quel 23 luglio 2011, entrando a far parte dell'inquietante club dei 27 (quel terribile pantheon immaginario dei martiri dell'arte morti a 27 anni per abuso di alcol e droghe, fatti di sangue come omicidio o suicidio e incidenti legati ai mezzi di trasporto), la regina del soul inglese rimarrà per sempre cristallizzata e perpetuata come immensa artista e fulgida icona dell'intemperanza giovanile. Gli Dei del rock di quando in quando pretendono il loro tributo di giovani vite e quell'inquietante club (una mera suggestione giornalistica senza nessuna legittimazione statistica) è il loro tempio votivo. Al suo interno resta custodito un numero impressionante di reliquie: da Brian Jones a Jimi Hendrix, da Janis Joplin a Jim Morrison (membri involontari, questi 4, anche di un altro macabro club: quello delle 4 "J"), da Al Wilson dei Canned Heat a Ron "Pigpen" McKernan dei Grateful Dead, a Kurt Cobain, fino a risalire il corso della storia e arrivare al mitico Robert Johnson, bluesman della grande depressione che la leggenda vuole abbia addirittura fatto un patto col diavolo.
La stessa Amy Winehouse, tre anni prima della tragedia, aveva confessato i suoi timori di morire a quell'età, ben consapevole di come la sua vita era ormai diventata una scura parabola. Ma altrettanto esplicite erano state altre richieste di aiuto disseminate lungo il suo breve percorso musicale (e in questo il parallelo con Kurt Cobain dovrebbe indurre a più che una considerazione superficiale): valga per tutti l'esempio più che esplicito di Rehab, il suo singolo più conosciuto (e venduto), in cui dichiara apertamente il proprio rifiuto a sottoporsi a qualsivoglia cura disintossicante.  E' anche per questo che la sua fine prematura è stata tutt'altro che sorprendente, anzi, col senno del poi appare quasi come un segno del destino. Chissà, forse fatale. Era insomma una di quelle previsioni che uno può facilmente fare, ma non fa. Anche per questo la notizia della sua morte ha colto il mondo come un pugno in faccia, lasciando gli aficionados storditi più per il dolore che per la sorpresa, e con in fondo il dubbio atroce di esserselo meritato. 
Intendiamoci: non voglio qui rileggere la morte di Amy Winehouse come un gesto eroico, uno schiaffo all'umana indifferenza. Sarebbe solo scadente letteratura. Amy aveva un sacco di problemi e un quadro clinico disastroso: soffriva di bulimia, un disturbo alimentare che la faceva consumare un'enorme quantità di cibo in un brevissimo lasso di tempo per poi eliminarlo vomitando o assumendo lassativi e al contempo  si stava avviando a grandi passi verso l'anoressia; fumava crack, sniffava cocaina, ingeriva pastiglie di ecstasy come fossero mentine, i suoi polmoni funzionavano al 70%, aveva un battito cardiaco irregolare e ingollava superalcolici in maniera smodata. A tal proposito, il suo sfrenato amore per l'alcol la vede accomunata a Janis Joplin, con la differenza che se Janis dava sul palco il meglio di sé in stato di ubriachezza, le ultime performance di Amy l'hanno vista come un bufalo agonizzante sull'asfalto dello show-biz, uno spettacolo penoso che sanciva la sua assoluta incapacità persino a reggersi sulle gambe. Sconcertante in tal senso il suo ultimo concerto tenuto a Belgrado il 18 giugno 2011 (a poco più di un mese dalla propria morte quindi), dove davanti a ventimila persone che avevano sborsato 40 euro a cranio per sentirla cantare, la Winehouse, coperta da una sonora selva di fischi, ha messo in scena la rappresentazione del suo declino irreversibile: oltre a non riuscire a mettere in fila due parole di senso compiuto e a reggersi in piedi, non era nemmeno in grado di ricordare i nomi dei membri della sua stessa band. Quanto a cantare, era qualcosa di impensabile e assolutamente fuori dalla sua portata. Al momento della sua morte il medico legale ha rilevato che la concentrazione di alcol nel suo sangue era di oltre cinque volte il limite legale per essere dichiarata alcolista.
Al disagio fisico si aggiungeva quello emotivo, infatti non era meno problematico il quadro psicologico che la affliggeva: aveva problemi d'ansia, si lasciava andare ad inconsulti atti di autolesionismo e soffriva di disturbo bipolare della personalità. Quest'ultimo le faceva alternare momenti di profonda depressione ad altri in cui finiva preda di incontrollati e sconsiderati scatti d'ira che le procurarono un sacco di impicci con la legge. Nel 2006 ha preso a pugni in faccia un fan che aveva criticato il suo matrimonio, nel 2008 è stata ammonita dalla polizia per aver preso a schiaffi un uomo di 38 anni e nel 2009 è stata arrestata per aver aggredito una ballerina ad una festa di beneficenza.
Come se tutto questo non bastasse, va aggiunto che Amy era tutt'altro che accorta anche nella scelta delle persone cui accompagnarsi. A cominciare da Blake Fielder-Civil, un infame di marito che oltre ad averla iniziata al consumo di droghe, dopo la sua morte non si è fatto scrupolo alcuno di vendere alla stampa il racconto della loro storia, non mancando di condirlo con i più imbarazzanti particolari della loro vita di coppia. Un rapporto tossico tra due tossici. Tossico e violento: nell'agosto del 2007 i due sono stati fotografati, sanguinanti e pieni di lividi, per le strade di Londra, dopo quello che era apparso ai più come l'ennesimo violento confronto finito a botte e coltellate, nonostante il patetico tentativo di lei di far credere come le sue copiose ferite fossero state autoinflitte.
C'erano tutti gli ingredienti per suscitare l'interesse morboso dei tremendi tabloids inglesi che infatti le stavano appresso come un branco di cani affamati intorno a un osso rendendole la vita ancor più complicata di quello che già non era. Del resto non esisteva nulla di più succulento per la vampiresca industria del gossip: una ragazza che pareva uscita da un girl group dei primi anni '60, piena di tatuaggi che nemmeno un bucaniere della filibusta e con un "alveare" in testa da far invidia persino a Ronnie Spector che di quell'acconciatura era l'inventrice; un trucco pesantissimo che avrebbe fatto la gioia sia di Cleopatra che di ogni tenutaria di bordello della suburbia; un guardaroba da sciantosa da belle époque che le valse nel 2008 il titolo di performer peggio vestita, eguagliato solo dal secondo posto come donna peggio vestita dietro l'ex Spice Girl Victoria Beckham; uno stile di vita da cattiva ragazza che definire tumultuoso sarebbe un eufemismo e un talento smisurato che l'aveva fatta apprezzare urbi et orbi regalandole la vetta di tutte le classifiche discografiche. 
Già, il talento: l'unico aspetto di cui, arrivati a questo punto di un racconto in cui genio e sregolatezza copulano senza soluzione di continuità, non abbiamo ancora parlato. Eppure dovrebbe essere, il talento di Amy Winehouse, il principale motivo che giustifica queste righe. 
Provvediamo con immenso piacere. Amy cala i suoi primi assi sul tavolo della creatività fin dai tempi di Southgate, quartiere a nord di Londra dove era nata il 14 settembre 1983 da genitori ebrei. Beh, forse non proprio di assi si trattava, magari erano solo dei più modesti Jack. Comunque sia, dopo essere stata avviata all'amore per il jazz e Frank Sinatra dai genitori (soprattutto dal padre Mitch), appena adolescente mette su, assieme ad un'amica d'infanzia, un non proprio memorabile gruppetto rap, tali Sweet 'n' Sour che però reggono poco e si dissolveranno con la rapidità di prammatica in questi casi. 
L'ambiente familiare era però molto favorevole alla musica (zii musicisti professionisti e addirittura la nonna paterna che era una cantante legata sentimentalmente al celebre Ronnie Scott, sassofonista e fondatore dell'omonimo, celeberrimo jazz club), cosicché Amy viene incoraggiata a coltivare la sua passione assieme al fratello Alex con cui suonerà per un breve periodo. A 14 anni acquista la sua prima chitarra e tra una strimpellata e l'altra comincia a comporre. Poco dopo getta il primo seme di sé iniziando a cantare con un gruppo locale, la Bolsha Band, e nel 2000 riesce a mettere a frutto gli ascolti casalinghi di Sarah Vaughan e Dinah Washington diventando la cantante della National Youth Jazz Orchestra. 
A questo periodo risale la provvidenziale iniziativa della sua migliore amica, la cantante soul Tyler James, che fa pervenire un suo demo ad un talent scout dell'Island Records, il quale lo fa atterrare sulla scrivania di Simon Fuller della 19 Management. Fuller è un influente tycoon con le mani in pasta ovunque ci sia la possibilità di alzare denaro, sia nel mondo della musica che in quello dei semplici VIP. Sotto la sua egida erano passati pezzi grossi come Annie Lennox, Steven Tyler, Jennifer Lopez, Lisa Marie Presley e perfino i coniugi spice, la spice girl Victoria Adams e lo spice boy David Beckham. E' evidente che Fuller vede qualcosa in quella ragazza tormentata e dallo sguardo triste che guarda più a Billie Holiday e Frank Sinatra che a Britney Spears. Magari avrebbe potuto sfondare almeno in qualche classifica di genere. Fatto sta che la scrittura e le riconosce 250 sterline alla settimana come anticipo sui guadagni futuri. Sembra fatta ma nel mondo sfumato del music biz le cose non sono mai come sembrano e la faccenda inizia a farsi contorta: pur avendo in mano una scrittura al Cobden Club come cantante di standard jazz e pur essendo sotto contratto con il management di Fuller, il nome Amy Winehouse in breve conquista il non invidiabile status di segreto meglio custodito dell'industria discografica inglese. 
Ma come in ogni racconto che si rispetti la scintilla che fa detonare tutto è un incontro: il suo uomo del destino si chiama Darcus Beese che diventerà il suo elemento di raccordo con la Island. Beese sente parlare di Amy Winehouse in modo assolutamente casuale, allorquando il manager dei Lewinson Brothers gli fa ascoltare un nastro dei suoi protetti in cui Amy è in splendida evidenza con la sua voce illividita dai ganci della vita che già avevano iniziato a fiaccarla. Beese gli chiede chi sia la cantante ma il manager non può rispondere in quanto vincolato da un contratto che gli impone di non rivelarne il nome. Avendo deciso di volerla ad ogni costo, Beese impiega parecchi mesi per scoprire chi si celava dietro quella voce che tanto l'aveva affascinato. Ci riesce ma al momento di venire a capo della faccenda scopre anche che Amy ha già registrato parecchie canzoni e firmato un pre-contratto editoriale con la EMI. Come se ciò non bastasse ha anche in essere una collaborazione con il produttore americano Salaam Remi, l'uomo dietro la consolle nei dischi dei Fugees e di Nelly Furtado e con un debole per il reggae. Se Beese vuole accaparrarsi la ragazza non gli resta troppo tempo, tanto più che oltre alla EMI che vuole perfezionare l'accordo in essere, gli è giunto all'orecchio che anche la Virgin ha iniziato delle manovre di avvicinamento alla cantante. Così rompe ogni indugio e presenta Amy a "sua discografia" Nick Gatfield, il patron dell'Island. Gatfield condivide l'entusiasmo di Beese e la firma del contratto con l'Island è cosa fatta. Tempo di portare in studio Salaam Remi e saggiare il mercato con il singolo Stronger Than Me uscito il 6 ottobre 2003, ed il 20 ottobre 2003 Frank è una splendida realtà che fa bella mostra di sé in tutti i negozi di dischi. 
Amorevolmente dedicato a Frank Sinatra, evidente retaggio degli ascolti adolescenziali in compagnia del padre, il debutto adulto di Amy Winehouse è un fondamentale innesto di rigogliose fronde retrò in un tronco, il nu-jazz - ennesima definizione che asseconda la furia incasellatrice di certi critici mai sazi di nuovi neologismi - che giusto in quel momento stava portando le reminiscenze delle stilose atmosfere da club di cui era foriero all'attenzione di un pubblico sempre più vasto. Come dire, il disco giusto al momento giusto, se solo volgiamo lo sguardo al sempre più inarrestabile successo di illustri, raffinati contemporanei come Norah Jones, Macy Grey, Michael Bublé, Lauryn Hill, Erykah Badu.
Ciò detto, lungi da me il malsano desiderio di rimanere stoltamente invischiato nell'invero stucchevole querelle sull'essere Frank un capolavoro epocale o più semplicemente un buon disco d'esordio, magari ottimo. E nemmeno intendo farmi travolgere dalla smania rivalutativa post mortem. Quello che mi sento comunque di dire è che erano almeno una ventina d'anni che non era dato ascoltare un riassunto di stili dalle note blu - dal jazz da small band alla torch song, dal soul affilato all'R&B di irresistibile solarità - di tale portata e freschezza. Direi almeno dai tempi in cui l'Inghilterra veniva piacevolissimamente stimolata da quel mai abbastanza benedetto manipolo di neo tradizionalisti come Style Council, Carmel, Sade, Everything But The Girl che cercarono di opporsi al mefitico olezzo di un techno-pop imperante (chi non ha mai dato di stomaco all'ascolto di Duran Duran, Spandau Ballet, Gary Numan, A-Ha e similia?). Parallelamente c'era l'America (anche se in misura minore dell'Europa) che gratificava con adeguati riconoscimenti (più critici che commerciali, in verità) quel romantico pirata a stelle e strisce di nome Willy De Ville, con o senza  Mink. Che fine del mondo di coppia sarebbe stata papà Willy in duetto con la figlioccia Amy! E chissà che jam session stellare stanno organizzando ogni sera in quel jazz club tra le galassie con tutte le anime belle lì convenute!
Ad ogni buon conto, l'album che metterà tutti d'accordo, l'imprescindibile capolavoro unanimemente riconosciuto, che tra l'altro porta il nome di Amy Winehouse alla conoscenza delle grandi masse facendola arrivare con un triplo salto carpiato in testa alle hit parade di mezzo mondo, arriva nel 2006 e si chiama Back To Black
Il black del titolo, com'è noto, è il colore della black music più verace, una miscela fluida, melodica, aperta al futuro e allo stesso tempo indissolubilmente radicata al passato eroico del binomio Stax/Motown e dei deliziosi confetti à la Phil Spector che mettevano in mostra il lato più romantico e adolescenziale del rock 'n' roll. Un disco, insomma, che dissoda un terreno musicale molto fertile e nemmeno minimamente sfiorato e sfiorito dall'ingiuria del tempo, candidandosi prepotentemente al titolo di primo grande album del nuovo millennio.      


Non so voi, ma per quel che mi riguarda il primissimo gesto che sempre compio prima di "deflorare" un disco, un'abitudine che ha ormai assunto il significato di un iniziatico rito sciamanico, è quello dell'avida lettura delle note di copertina. Con Back To Black di Amy Winehouse non ho derogato nemmeno di un millimetro da questa mia inveterata consuetudine e quel che ho letto nei crediti, oltre a lasciarmi totalmente annichilito per l'immane elenco di presenze che hanno lavorato all'album, mi ha dato compiutamente il senso di ciò che s'intende generalmente con l'espressione "grossa produzione". 
50 musicisti coinvolti, 16 tra produttori e tecnici, 3 grafici, 5 studi di registrazione sparsi tra New York, Miami e Londra dove sono avvenute le diverse fasi di lavorazione dell'album e 3 diverse copertine a seconda dell'area geografica in cui il disco è stato pubblicato: questi gli impressionanti numeri di un'intrapresa che è il minimo definire colossale.
Poi ho fatto partire la musica e non mi ci sono voluti molti ascolti per capire appieno la portata dell'operazione. Tutta questa gente, la Winehouse ed i due produttori Mark Ronson e Salaam Remi in primis, si son "stretti a coorte" con un solo ed unico scopo: dar vita ad un disco epocale, un disco di meticolosa fattura che riuscisse ad incantare ed innalzare i cuori di una moltitudine che voleva bene alle proprie orecchie. Per farlo hanno messo in campo tutto, ma proprio tutto, ciò che era perfettamente funzionale - whatever it takes, per usare un'espressione che in questi giorni va per la maggiore - a centrare il difficile obiettivo. Già, perché l'operazione andava condotta in porto senza rinunciare ad un'oncia della stramaledetta qualità, pur consapevoli di quanto questo concetto fosse difficilmente compatibile con quello di moltitudine. Eppur ci son riusciti. Ché Back To Black è uno di quei capolavori che in un anno si contano sì e no sulle dita di una mano. E' semplicemente perfetto. Magistralmente strutturato ed ancor meglio suonato. Così entusiasmante da meritare una Deluxe Edition ad appena un anno dalla prima pubblicazione.
Mark Ronson (giovane, talentuoso produttore, titolare di una rada discografia solista che a tutt'oggi conta 5 album, che proprio dal lavoro fatto in Back To Black vedrà salire le proprie quotazioni in maniera esponenziale) e Salaam Remi, si sono divisi equamente le 11 tracce dell'album infondendo nei brani di loro competenza la loro personale visione e delineando prospettive diverse che si condensano e amalgamano attorno alla splendida performance vocale di Amy, una cantante che come pochi ha tentato in maniera così disarmante di toccare Dio nell'esercizio della propria arte. 
Mentre Ronson per le sue 7 canzoni si affida ai talentuosi Dap-Kings, band rispettosa di un certo cerimoniale soul, nonché gruppo di accompagnamento della cantante americana Sharon Jones, registrando in tre diversi studi di New York tra i quali quello della Daptone Records, in pratica la casa dei Dap-Kings e della Jones, per le sue 6 Remi registra tutto all'Instrument Zoo di Miami adottando un approccio intimista e curando di suonar dolce e persuasivo senza peraltro disdegnare il solletico alla pancia che in quei mesi s'imponeva: Amy alla chitarra, il multistrumentista Vincent Henry (sassofono, flauto e clarinetto) e lo stesso Remi che si divide tra chitarra, piano e basso. Per il tocco finale, altri musicisti sono stati coinvolti nel progetto sia da Remi che da Ronson a seconda della bisogna, mentre gli archi sono stati registrati ai Metropolis Studios di Londra, dove è avvenuto tutto il lavoro di post-produzione e missaggio. 
In analoghe circostanze, si è più volte polemizzato su come spesso le major discografiche abbiano letteralmente sperperato budget milionari nel tentativo di fare grande il rock, non sempre con risultati lusinghieri. Ora, ovviamente non mi è dato sapere quale sia il budget messo a disposizione per Back To Black; quel che è certo è che grande è stato lo sforzo profuso, ma la polemica di cui sopra non ha alcuna ragione d'essere in quanto nel caso in esame la montagna non ha partorito il proverbiale topolino. Viceversa, in un momento cruciale della sua personale vicenda artistica, mentre va mutando pelle e manda fischi a un nuovo pubblico, Amy Winehouse fa scrupoloso esame di quanto ascoltato in passato e lo usa per un'opera intensa ed estremamente coerente in cui vengono ordinati puntigliosamente gli appunti della vita giovanile e nella quale Amy si impegna coi temi e con gli arnesi che già furono di Phil Spector come di Otis Redding, Janis Joplin e di quanti altri soul bothers e soul sisters. Viene così squadernata una soul music a vele spiegate, carica di intensità e piena zeppa di omaggi e citazioni dei maestri (in parole e in musica) dallo struggente potere evocativo, disseminati qua e là lungo tutto il percorso del disco. Diventa così divertimento estremo trasformare l'ascolto in una sorta di caccia al tesoro alla ricerca di queste piccole gemme color ambra che maliziosamente vengono strategicamente posizionate con studiata nonchalance. 
Il gioco inizia fin dalla prima stazione, l'arcifamosa Rehab, R&B in bilico fra futuro e tradizione, nel cui testo si cela la menzione di Ray e Mr. Hathaway, riferimento ovviamente a Ray Charles e Donny Hathaway, quest'ultimo sfortunato e tormentato genio della soul music, morto suicida nel 1974. Così almeno pare, visto che nessuno ha mai saputo spiegare cosa ci facesse il suo corpo spiaccicato sul marciapiede sottostante la sua camera d'albergo.
Me And Mr. Jones, fascinosa ballad dalle morbide inflessioni jazzate, l'omaggio lo ingloba invece nell'intero titolo che riprende pari pari (ma dal punto di vista femminile: qui "Mr." lì "Mrs.") l'omonimo Me And Mrs. Jones del 1972 di Billy Paul, artista sottovalutato ma sofisticatissima ed elegantissima punta di diamante del Philly sound e fiore all'occhiello alla corte di Gamble & Huff assieme a O' Jays e Harold Melvin & The Blue Notes. 
Se qui finiscono le citazioni e gli omaggi in parole, ancor più emozionanti continuano quelli in musica. Da una parte troviamo gli omaggi propriamente detti che si traducono in assonanze e affinità melodiche e atmosferiche, da un'altra le vere e proprie citazioni dell'epoca andata, spesso dei fulminei interventi che ti lasciano lì a chiederti dove diavolo hai già sentito quel contagioso riff di basso o quell'accordo di chitarra che non ne vuol proprio sapere di abbandonare il tuo cervello. Tra i primi possono essere annoverati brani come You Know I'm No Good, affascinante e sofferta soul ballad che pare essere stata edificata con nella mente Smooth Operator di Sade, incantevole gemma tratta da quello scrigno pieno di gioielli di squisita fattura che fu Diamond Life ("Vita Di Diamante", appunto) del 1984; oppure Just Friend, dove invece Salaam Remi appende la melodia ad un ritmo in levare, dando così pieno sfogo alla sua nota passione per Bob Marley ed il reggae in genere.
Sul fronte delle citazioni esplicite troviamo in splendida evidenza Back To Black, sontuosa title track che rende sentito omaggio al wall of sound spectoriano, con quel break di batteria che ti fa trasalire per come ripete pressoché identico quello di Be My Baby delle Ronettes; stesso discorso può essere fatto per un pezzo superbo come Adicted, il cui pervicace sostegno ritmico è una voluta citazione dello splendido drumming a tensione trattenuta di Al Jackson, che ogni studioso del ramo sa essere stato il leggendario batterista di Booker T. & The M.G.s' (freddato con 5 colpi di revolver alla schiena da intrusi che si erano introdotti nella sua abitazione di Memphis per un furto), che quella stessa lingua usò in Try A Little Tenderness di Otis Redding. Anno 1966, album Dictionary Of Soul, imprescindibile capo d'opera sessantesco (e poi non mi si dica che sono avaro di segnalazioni e impliciti consigli).
Altrove bastano pochi accordi di chitarra, giusto qualche secondo, per inchiodarti e squarciarti il cuore con la forza evocativa della più struggente tra le citazioni: è quello che succede in He Can Only Hold Her, torch song intrisa di romantico mal d'amore, i cui primi secondi dell'incipit ti prendono di peso per scaricarti nel 1969, anno fatale in cui Janis Joplin gettava anima, cuore e tutta sé stessa in quel discorso inarticolato del cuore che risponde al nome di Maybe, forse la più bella ballata di sesso e tenerezza che voce umana abbia mai cantato.
Non meno evocativa Some Unholy War, grandissima soul song che rimescola il sangue, in cui la macchina del tempo è invece il basso, o meglio, il contrabbasso, con tutta la fascinazione del suono acustico. Il riff che la sostiene è una magistrale ristrutturazione di frase e cadenza di quello universalmente conosciuto di Stand By Me del soul man emerito Ben E. King, di cui costituisce una mutazione genetica. 
La più clamorosa delle citazioni è però Tears Dry On Their Own, che ripete pari pari (sembra un campionamento ma è un'interpolazione) la progressione di accordi che sostiene la hit del 1967 Ain't No Mountain High Enough che Marvin Gaye cantava in coppia con Tammy Terrell. Quanto alla questione morale che in casi analoghi s'impone, a chi scrive piace pensare che l'agire così scopertamente e alla luce del sole faccia capire come, piuttosto che di furbizia o, peggio, di plagio, si tratti di incondizionato atto d'amore.
Alla fine, dunque, le uniche due canzoni di Back To Black svincolate da qualsivoglia esplicita citazione, omaggio o interpolazione, ma gravide solo di culto e adorazione verso un certo tipo di suono cui la Winehouse resta intimamente legata, rimangono Love Is A Losing Game e Wake Up Alone. La prima è una disillusa considerazione sull'amore affidata ad una struggente melodia di malinconia sterminata, un capolavoro d'ombra sul cui filo la tensione e l'amarezza corrono senza incontrare ostacoli. La seconda è un terzinato di epica intensità suonato dagli angeli e cantato da una voce scolpita nella pietra, che anche se già ascoltato millanta volte non può fare a meno né di commuovere né di incantare.
Sul piano letterario, le canzoni di Back To Black sono come le stazioni di una via Crucis in cui Amy mette in scena attraverso la sua voce martoriata da ferite e lividi il dramma costantemente in cartellone dei suoi amori slabbrati e nerissimi e delle sue compulsioni autodistruttive. Una disamina di certi sentimenti e certe decisioni così cruda da richiedere parole che descrivono solchi indelebilmente scavati nel cuore e non più cicatrizzabili. Si pensi a Rehab, autobiografico grumo di vita in cui la nostra racconta di come abbia opposto un netto rifiuto a chi la spronava, incluso suo padre, a frequentare un centro di riabilitazione per disintossicarsi dall'alcol. Oppure a You Know I'm No Good, storia di contrizione in cui Amy si dichiara impotente di fronte alle proprie malsane pulsioni che la portano a gettare alle ortiche una relazione sana con un "brav'uomo che la ama". Oppure ancora a Just Friends che narra del senso di colpa di una donna che tenta di troncare una relazione clandestina: "Il senso di colpa ti ucciderà, se non lo farà prima lei"
Ma un po' in tutte le canzoni la Winehouse si macera in questo ricorrente leit motiv: una delle più significative in tal senso è la canzone che da il titolo all'album, quella Back To Black in cui Amy fa un crudo ed esplicito outing mettendo a nudo le proprie cicatrici causate dal "maritino" che l'aveva lasciata per correre dietro alla gonnella di una sua ex. E senza peli sulla lingua così canta: "Non mi ha lasciato il tempo per il rimpianto. Ha mantenuto il suo cazzo bagnato per la sua vecchia e sicura scommessa. Terrò la mia testa alta e le mie lacrime asciutte. Continuerò senza il mio ragazzo".
Un'altra tappa lungo "Rassegnazione Boulevard" è Love Is A Losing Game che fin dal titolo descrive l'amore come un gioco d'azzardo avvincente e distruttivo, mentre in un viale adiacente troviamo Tears Dry On Their Own (Le lacrime si asciugano da sole), che testimonia di quello straniante periodo dopo la rottura di una relazione, quando cerchi di tenerti occupato in terapeutiche distrazioni per non pensare alla scorza della dura realtà. Lungo la via della perdizione si colloca invece la sincera Addicted, ammissione molto franca sui primi approcci di Amy con la marijuana: "Fumavo molta erba - dichiarò in un intervista - Suppongo che se hai un personalità predisposta alla dipendenza, allora passi da un veleno all'altro".
Non v'è dubbio: come avrete capito, una giovane donna che non teme di mettersi a nudo senza troppi filtri e reticenze e una musicista d'altissimo lignaggio, nonché performer ricca di straordinaria energia. Tutto questo è piaciuto tanto ai clienti dell'autoradio e a quelli del jogging con le cuffiette, che vogliono la vita ridotta in pillole e di bell'aspetto, quanto a coloro che rifuggono la routine e alla musica chiedono sensazioni forti e pugni nello stomaco. Queste, molto semplicemente, sono le ragioni che fanno di Back To Black quel disco di variegate virtù che tutti han mostrato di gradire, al punto di premiarlo con la regal corona di incontestabile campione di vendite del nuovo millennio.
Gli anni che gli seguiranno vedranno il disco e la sua autrice raccogliere a piene mani una messe di Grammy e riconoscimenti vari come se piovesse, mentre sulla sua scia un nutrito plotone di buone "glossatrici" dello stesso linguaggio si industrierà a raccoglierne il testimone. Sarà così che le varie Adele, Duffy, Florence & The Machine, VV Brown si avvicenderanno con ferrea volontà e apprezzabile talento a perpetuarne la preziosa eredità. Nel contempo Amy, dopo essere stata incoronata regina incontrastata del nuovo genere, secondo il minuzioso piano elaborato dallo spirito autodistruttivo che albergava in lei, inizia la drammatica, inesorabile discesa dei gradini dell'esistenza che nel giro di soli cinque anni la porterà al cospetto del tristo mietitore.
Quel che ci resta di lei sono le eleganti combinazioni di stili diversi, le morbide, sofferte ballate che d'improvviso si chiudono nel gesto imperioso del soul e una trama fitta di emozioni in blue. Dall'alto della sua classe, talento, buon gusto ed eclettismo quanto basta per sintetizzare grandi musiche e facile ascolto, Amy Winehouse si proclama più viva che mai e da dovunque sia ora annuncia orgogliosamente la sua intenzione di durare ancora a lungo. Comunque soffino i venti della moda.         



One By One

Rehab

All'interno di quella sorta di palingenesi della black music che è stato il nu-jazz, Amy Winehouse occupa certamente un posto di assoluta preminenza e parimenti all'interno del portfolio dell'artista Rehab è sicuramente uno di quei brani che apporta linfa nuova e al contempo ricostruisce calligraficamente il vecchio suono di colore. Sbrigando infatti con linguaggio efficace le formalità della canzone R&B, Rehab arriva dritta all'attenzione degli ascoltatori più avvertiti lanciando nell'area del suono soul alcune idee che colpiscono la fantasia degli appassionati e che han respiro sufficiente per le ambizioni rinnovatrici dell'artista. Grande capacità comunicativa, forte pulsione ritmica, una costruzione inconsueta per ribadire l'autonomia di questa frangia neo tradizionalista del nuovo millennio lungo l'itinerario che da Janis Joplin e Van Morrison porta a Carmel e ai Dap-Kings (qui presenti al gran completo). Questi i punti di forza della canzone.
Senza l'intenzione di tediare il lettore ma con la necessità di tentare una qual analisi, vediamo di acconciare alcune righe per soddisfare il bisogno. Il primo nuovo appunto lo troviamo proprio in apertura, dove la voce della Winehouse irrompe sulla scena senza frapporre indugi, immediatamente seguita dal resto degli amici, che nel caso si traduce come assenza di qualsivoglia intro strumentale seppur breve o magari brevissima. Di solito è così che si fa nei salotti buoni della discografia: chessò, uno "sdleng" di chitarra, una "slappata" di basso, un trillo di pianoforte. E invece nulla: qui si piomba a piedi uniti direttamente nella strofa cassando senza troppi complimenti una rassicurante consuetudine che datava fin dai primi vagiti di "Genius" Ray. L'effetto è leggermente straniante, ma è il prezzo che l'originalità richiede. Chi volesse effettuar verifica, può far la conta di quanti siano i brani dall'incipit altrettanto sbrigativo a popolare il reame soul.
E' comunque un attacco originale e difficilmente dimenticabile, il che è caratteristica basilare nel cinico bazaar delle sette note. Caratteristica questa che attiene anche a quel puntiglioso "no, no, no" scleroticamente  ripetuto dalla protagonista della storia (la stessa Amy) in risposta a chi le consiglia di liberarsi dalla "scimmia" dell'alcol e partecipare ad un programma di riabilitazione.
Altri gradevoli "trucchi" sono il dettato della sezione ritmica e certe macchie di sax baritono con cui viene abbellita la canzone. Vengono così chiamati in causa Homer Steinwess e Ian Hendrickson-Smith, rispettivamente batterista e sassofonista dei Dap-Kings, che si mettono a disposizione con tutto il loro bagaglio di classe ed esperienza. Il primo lavora sul suo strumento giocando le carte del colore e dell'espressività, ingaggiando con i tamburi una lotta senza esclusione di colpi (è proprio il caso di dirlo) che non ha nulla da invidiare a quella dei più blasonati "battitori" della storia; il secondo sfodera un sax baritono di straordinaria espressività che sviluppa studi paralleli a quelli condotti in passato dalle più celebri "università" del ramo. Consulta infatti vecchi cataloghi delle "collezioni" autunno-inverno (ma anche primavera-estate se è per questo) della maison Stax e inanella una saporita punteggiatura nel segno del misconosciuto ma grandissimo Floyd Newman (B.B. King, Mar-Keys, Memphis Horns, Otis Redding, Wilson Pickett, Etta James, Aretha Franklin), colonna portante del Memphis sound dei tempi gloriosi.

You Know I'm No Good

Riuscite anche lontanamente ad immaginare come sarebbe vivere in un mondo perfetto? Niente più guerre, niente più ingiustizie, niente più - e qui veniamo al punto - musiche che sono catalogo di giochi di mestiere, niente più stomachevoli atmosfere sdolcinate, niente più gente che ripete catatonicamente se stessa e, per quanto riguarda il Bel Paese, niente più rime cuore-amore. Insomma, un bel mondo sol con l'amore e senza l'odio. Confesso che al sottoscritto piacerebbe un sacco "vedere di nascosto l'effetto che fa". Anche se, a voler ben guardare, alcune isole felici in cui questo luogo utopico è una concreta realtà esistono eccome. Sono tutti i mondi creati dagli artisti che riescono a toccare nel profondo gli animi e che rifuggono dal coltivare il kitsch adagiandosi su musiche ruffiane e parole scontate. Ciascuno può fare i nomi che ritiene più opportuni, ma per quel che mi riguarda a tale notevole banda può senz'altro ascriversi Amy Winehouse, artista che riesce a parlare di sentimenti senza cadere nell'insidiosa trappola del sentimentalismo.
Ne offre puntuale certificazione You Know I'm No Good, ballad delle mai sedate tempeste interiori che fa struggente e romantica vela nel gran mare del soul bianco. Spigliata biografa di se stessa, l'artista sceneggia una storia di sincerità e pentimento, giocando sulla sua voce stressata dalla vita e slabbrata dagli stravizi che riprende certe lezioni dell'ultima Billie Holiday. E' questa un'inquietante premonizione dove modello è infatti l'indifesa lady che cantava il blues, la quale sentendo declinare in fretta la sua tormentata vicenda terrena, sferrava le ultime, stanche zampate on Verve, mostrandosi al pubblico nello spegnersi definitivo dell'energia vitale in un corpo ormai inesorabilmente consumato. 
Fascinosa, superba oltre ogni desiderio, governando tutto con proverbiale naturalezza, Amy distende e ritira la sua voce come un elastico, esponendola al gioco ad incastro di invenzioni e nuances che giocano a dadi con la sua consolidata cultura jazzistica e spendendo soldi di passione e drammaticità che seguono le inclinazioni del suo spirito.
Alle medesime siderali altezze di espressività levita anche il dettato strumentale della ballata. Due son le corna del lavoro di Mark Ronson: l'intervento sulla sezione ritmica per stimolar certa energia atta a mantenere la canzone lontana dal mellifluo e quello sul resto della strumentazione dove conquista seducente evidenza il sax baritono del solito Ian Hendrickson-Smith. Abbiamo dunque la secca batteria trattata con l'eco del prode Homer Steinwess, che il missaggio porta in primissimo piano accentuandone la carica emotiva e imponendola come trave portante su cui tutto si appoggia e lo swingante contrabbasso di Nick Movshon che mette in mostra tutto il coté jazzistico di cui è capace. L'altra faccia della strategia su cui si regge la partitura è quello della progressione degli accordi (quelli che un non tecnico come chi scrive ama chiamare "gli accordi tristi") e delle studiatissime pause, perfettamente funzionali al raggiungimento di quella drammaticità che rappresenta il climax caratterizzante la song. E' qui che entrano in scena le chitarre di Thomas Brenneck e Binky Griptite e le tastiere di Victor Axelrod, relegate a ben assestate accentuazioni umorali, su cui domina il fascino discreto dei fiati. E tale è il buon gusto, così solido il mestiere, cha fa straordinaria impressione l'intrigante interazione infiorata come si conviene di soul tra baritono e brass section, dove grazia e morbidezza rendono piacevole la materia nel senso di quel che può dirsi piccolo artigianato rhythm'n'blues.
Reminiscenza dei dì lontani in cui un'imberbe Amy Winehouse militava negli effimeri Sweet 'n' Sour, poco aggiunge all'originale il remix della canzone che vede come ospite di microfono Ghostface Killah, membro storico del Wu-Tang Clan che declama i suoi propositi in un breve cameo ove mette in mostra una volta di più il suo travolgente rappin'.

Me And Mr. Jones

Appassionata figura di operatore su musiche afroamericane, Salaam Remi organizza con Me And Mr. Jones una buona occasione di rapsodia in blue(s), vestendola con i crismi dell'intimità che solo uno small combo sa dare. Solo quattro gli attori coinvolti nel diligente tessuto strumentale che però, in virtù del multitracking, metton mano ad almeno il doppio degli strumenti. C'è in primis Salaam Remi che, oltre ad assumere l'interim del dicastero dei ritmi conducendo con passo felpato la batteria e svisando le note del basso con la stessa colorata tecnica del Jaco Pastorious che fù, si asside anche alle tastiere ammiccando con un accompagnamento tanto discreto quanto efficace. Gli tiene bordone l'uomo dei fiati, Vincent Henry, che tra un sax baritono ed un tenore insinua un bouquet di ben acconciati accordi sulla 6 corde che è paradigma di rilassatezza e morbide atmosfere. Poi c'è Bruce Purce, stimato musicista dell'Alabama, specialista capace di sbrigare qualunque pratica su ogni tipo immaginabile di tromba, che sintonizzato sulla medesima frequenza aggiunge un tocco di classe fornendo le più opportune accentuazioni sia al flicorno che alla tromba bassa. 
Su tutta questa magia, artigliata dal mal di blues nemmeno fosse cugina di Billie Holiday o Dinah Washington, domina la voce della Winehouse che trova più che comoda sistemazione adattandosi perfettamente alla bisogna con le cadenze dello stile canonico. Non si può che rimanere soggiogati dalla virtuosa cantante sicura di sé che, fin dal primissimo, elaborato vocalizzo con cui apre la canzone, infila una teoria infinita di invenzioni dalla schietta ispirazione jazzy, in nome d'una vena da club after hours che affonda le radici nelle più pure tradizioni della musica afro-americana, a cui comunque l'artista aggiunge colori e accenti tipicamente suoi.
E' curioso come questo pamphlet di musica morbida, compilata con zelo e sentimento encomiabili, avrebbe dovuto, secondo le stravaganti lune sia della Winehouse che di Remi, intitolarsi Fuckery (Stronzate), clamoroso gesto di dissacrante "punkitudine" che la dice lunga sulle inclinazioni iconoclastiche in campo. Così ricorda Darcus Beese, nel frattempo sedutosi sullo scranno di presidente della Island: "Ricordo di aver detto ad Amy e Salaam 'Non potete chiamare questa canzone Stronzate'. Salaam era il più anziano tra i due ma Amy mi rispose 'Beh, perché non possiamo?'" 
Il divertente aneddoto ricorda il sottile gusto per la dissacrazione relativo ad un'analoga vicenda di oltre 50 anni prima, quando un iconico capolavoro in odore d'immortalità rischiò di rimaner seppellito dai capricciosi segni di kitsch and roll dei suoi autori. Non ci siete arrivati? Pensate allora se mai Yesterday dei quattro di Liverpool avrebbe potuto assurgere a quella dimensione ieratica a livello planetario qualora fosse rimasta appesa al caustico esercizio dell'ironia, mantenendo il titolo di Uova Strapazzate come pretendevano le folli bizzarrie di quei due gaudenti ragazzacci del Macca e Lennon.

Just Friends

Si apre con il fare sofisticato e trasognato di un pop dalla fascinosa cadenza sonora che usa tutti i trucchi per massaggiare i bassi istinti: una ventina di onirici secondi da trascorrere con la migliore delle compagnie (se posso regalare un consiglio, metteteli in loop senza dimenticare che il migliore dei risultati si ottiene con una compagnia sexy e "bisognosa di affetto"), in cui tutti gli strumenti chiosano certi fogli sparsi nel gran libro del romanticismo. Ben diverso il corpus della canzone che parla un reggae aggiornato che non disdegna di copulare con il lessico dell'easy listening più consolidato. Questi, in sintesi, i tratti salienti di Just Friends, bozzetto d'amore in cui Remi e la Winehouse dimostrano anche nel campo dell'intrattenimento di non essere secondi a nessuno. Sì sì, avete letto bene "ROMANTICISMO, EASY LISTENING e INTRATTENIMENTO", ingredienti fondamentali nel pop. Che, come riportano i manuali, l'importante è che sia fresco e intelligente. E magari divertente assai.
Accade così che Amy, capace di portar classe, tenerezza e feeling nel beauty case, oltre a pudiche punteggiature di chitarra, arabesca con la voce stemperandola fra stelle e arcobaleni, mentre Salaam ha vena facile nell'aggiornare il catalogo delle maschere mettendo mano agli organici e allargandoli quanto basta. Il lavoro sull'album deve averne stimolato l'ambizione, se è vero che il nostro non si accontenta più di Vince Henry e di Bruce Purce (che pure son della partita),  ma va a scovare un batterista di ruolo come Troy Auxilly-Wilson, il cui apporto è determinante in chiarezza ed essenzialità, e John Adams che si esibisce in un prezioso lavoro di sottolineatura al piano Rhodes. Con tale "attrezzo" fornisce al pezzo movimentata trama innervandolo di memorabili fondali d'organo carichi di tensione e dello stesso drammatico romanticismo che afferisce al magistero strumentale di uno specialista quale il Booker T. Jones di memphisiana memoria. Sbaglierebbe, comunque, chi pensasse che Henry e Purce rinuncino a coinvolgere l'ascoltatore; continuano infatti a giocare da protagonisti con Vince Henry che passa con disinvoltura dal clarinetto al clarinetto basso giocando sugli incastri tra i due strumenti che mordono il ritmo, mentre Bruce Purce estrae le sue tese e laconiche accentuazioni fiatistiche anche dalla tromba, per dir solo dei rumori evidenti.
Quanto a Salaam Remi, lui sa bene come impostare una canzone e non trascura mai nulla, anche se nel caso in esame il suo apporto strumentale è francescanamente limitato al gregariato del basso. A lui comunque si deve l'acconciatura in salsa reggae della canzone, un estemporaneo dono per i fans della Winehouse, cui mancava giusto la spezia della ganja giamaicana tra gli aromi della loro cucina.

Back To Black

Alla base della sua esperienza, Amy Winehouse cita due fonti primarie: il jazz e i girls groups dei primi anni '60 che distribuivano rinfrescanti mentine di adolescenziale pop sotto l'egida di Phil Spector. Di questi ultimi in Back To Black ne riprende la lezione fino alle citazioni amorevoli, trovando gusto ad imitare quelle cotonatissime Lolite sia nella musica che nel look. A tutt'oggi visualizzata via video su You Tube da oltre mezzo miliardo di adoranti seguaci, la canzone sfodera con convinzione un vero arsenale di riferimenti, potendo così a ben diritto arrogarsi il titolo di traccia più evocativa dell'album. Non tanto e non solo per la "chicca" di quel cruciale passaggio di batteria che più che evocare il famoso incipit di Be My Baby delle Ronettes pare esserne il campionamento, ma proprio per la mise en scene di un mood modellato su certe suggestive inflessioni che rimandano a quel periodo, quando i dardi di Cupido trafiggevano felicemente il cuore della musica.
"Back to Spector" con amore, così potrebbe suonare il messaggio che parafrasa il titolo: basta ascoltare la melodia in cui annotiamo il rigurgito di certa nostalgia per il pop ben temperato ed in cui vien chiesto al juke-box della nostalgia di suonare il wall of sound all'infinito. Il pianoforte battente che scandisce il tempo viene messo in campo per confortare una simile teoria e per regalare all'ascoltatore una partenza d'antologia. La mossa dispone positivamente perché elabora una musica di grande suggestione gettando un ponte ideale tra l'ingenuità formale dell'antica teenage music spectoriana e la chiara esigenza della Winehouse di attualizzare costantemente le proprie proposte. Tutta la canzone è una marea montante di sensazioni che vanno di pari passo con il crescendo musicale. Il merito è anche del produttore Mark Ronson che lavora allo stato dell'arte ingaggiando con il collega Salaam Remi una salutare battaglia che non può che giovare alla qualità del prodotto. Impegnato a definire il carattere della canzone e a consolidarne la struttura, Ronson sfrutta le ingenti risorse del suo genio organizzatore mettendo in piedi un articolato teatrino tutto giocato sulla stratificazione degli strumenti e l'avvicendamento della dinamiche. Sulla cadenza iniziale fa così passerella un primo cenno di orchestra cui si affiancano quasi subito i cori. Già questo è sufficiente a rendere la fisionomia della traccia compiutamente presente. Poi la partitura prende progressivamente corpo fidando sulla vena jazzy della marimba e su un tripudio di chitarre dal piglio morriconiano con cui i due chitarristi titolari dei Dap-Kings aumentano la dose di cinematografia strumentale. La metamorfosi da Phil Spector ad Ennio Morricone (chiara testimonianza del retroterra del produttore) si completa prendendo solido corpo all'altezza dell'improvviso (e invero un po' straniante) calo di tensione che quello scaltro stratega di Ronson crea a bella posta per dare adeguata evidenza al famoso passaggio di batteria à la Be My Baby cui si è fatto breve cenno più sopra. E' qui che l'artificio si fa completo e la canzone raggiunge lo zenit con l'entrata al proscenio delle campane tubolari (le ben note tubular bells di oldfieldiana memoria) suonate dal folletto del jazz inglese Frank Ricotti e lo ieratico crescendo d'orchestra che trasportano di peso l'ascoltatore sul set di un western della trilogia del dollaro di Sergio Leone.
Operando con puntigliosa prospettiva storica la Winehouse e Ronson consolidano così l'architettura sonora dove i collegamenti tra i due mondi diversi del produttore losangelino e del compositore romano son stretti con mirabile armonia e con la sana tensione che corre tra loro suscitando eccitanti brividi.
Non ho fatto cenno alla performance vocale della protagonista e chiedo venia. D'altronde, essendo impeccabile e appassionata come sua abitudine, con quel suo talento nell'infondere vita a struggenti chansons d'amour, sarebbe un duplicare per l'ennesima volta i giudizi lusinghieri di sempre.

Love Is A Losing Game

 Adottata come classico per gli anni 2000, Love Is A Losing Game è canzone di indicibile fascino che non cerca strade nuove, non sposta il tiro, non rinuncia alla mitologia consolidata dalla gloriosa tradizione black; ribadisce, invece, affinandolo, quel discorso un po' nostalgico e molto carico di feeling, ben saldo al centro della direttrice soul, che è la cifra del personaggio Amy Winehouse. Quel che esce da Love Is A Losing Game è una "desolation princess", interprete aggraziata di ballate armoniose, che con i più semplici degli orpelli, quella strana combinazione tra sottile malinconia e incontenibile espressività, colpisce al cuore chiunque le capiti a tiro.
In un languido flusso di note e parole, un fluido suadente viene riversato dal primo all'ultimo istante di un'elegia che sa di inquieta disillusione e che trova nella voce di Amy pregevole movimento ed entusiasmanti aperture melodiche. Sfruttando l'intuizione che già si era dimostrata carta vincente di You Know I'm No Good, il produttore Mark Ronson, con l'ansia di comunicare, di conservare una certa immediatezza ed energia d'un suono non scevro di fisicità, procede a regolar la materia optando per un mixaggio che concede splendida dinamica alla batteria di Homer Steinweiss, che si rivela dispensatrice di buona vitalità seppur nell'ambito di uno struggente slow. Il gioco riesce anche perché tutta la ballata è uno scrigno pieno di sottigliezze porte sulle ali di una registrazione cristallina, tutta al servizio di una musica d'arcobaleno accattivante ma mai scontata, densa di soffici atmosfere e sorretta da abili arrangiamenti.
Il sunto dei più felici dettagli di una rappresentazione comunque scevra di qualsivoglia pirotecnia strumentale, può esser fatto riferendo, ad esempio, del sagace e ben calibrato uso dell'orchestra, esercizio che non molti sono in grado di praticare senza riversare sui solchi gocce di volgarità o farciture di melassa. Ronson sbriga brillantemente la pratica forgiando il suono degli orchestrali (25 tra archi, ottoni, direttori e arrangiatori, questi ultimi a fornirgli opportuna collaborazione nell'improbo compito), tessendo un tappeto sonoro tanto discreto quanto puntuale nei suoi armoniosi interventi.
Ma la mirabile ricetta sonora messa in pratica da Ronson si basa su almeno altri due ingredienti: il primo, insospettabile, è la precisa sistemazione nello spazio sonoro di uno strumento gregario per antonomasia come la chitarra ritmica. Vengono così chiamati in causa Thomas Brenneck e Binky Griptite, i due chitarristi dei Dap-Kings, che salgono al proscenio con i loro modi nel trattar gli strumenti con mano morbida e atteggiamento "controriformista", innestandosi sul ceppo della storia come l'impetus dello "stilnovo" non fosse mai accaduto e rifacendosi a colori oggi considerati insoliti e desueti ma che erano regola aurea del rockismo che fù. 
Intorno ai due (e questo è il secondo corno della ricetta di Ronson), dato che mai come in questo caso è nel particolare che si nasconde lo spirito della canzone, risponde loro il vibrafono del prode Ricotti che, con laconici e ben assestati tocchi, rimanda tutti alla miglior letteratura jazzistica (più Tim Buckley che Milt Jackson, comunque), senz'artifici e con piglio sicuro.
Se da tutto quanto sopra è impossibile trarre una morale che abbia un qual senso, ci sia almeno consentita una constatazione da buttar lì come chiosa: credo non si sentisse una torch song di tali maliose fattezze e di tale spessore emotivo almeno dal 1976, da quando cioè la "divinità indù" Asha Puthli passò dagli iconoclasti sfregi free-jazz del guastatore Coleman alle "beatitudini" e ai sensuali velluti armonici di The Devil Is Loose.

Tears Dry On Their Own

Il 1 aprile 1984 Marvin Gaye viene freddato con un colpo di pistola al petto sparatogli da un padre psicotico (e, scusate la volgarità, irrecuperabile testa di cazzo). Veniva così messo termine nel più tragico dei modi alla vita e alla carriera di uno dei più grandi soul men della storia, vero cavallo di razza della scuderia Motown, autentica fucina di talenti e di canzoni enormemente quotate alla borsa del soul. Era, la Motown, una compagnia totalmente gestita da neri, nata grazie alla visione e al talento imprenditoriale del patron Berry Gordy (del quale, sia detto per inciso, Marvin era il cognato avendo sposato la di lui sorella). Hitsville U.SA. si era orgogliosamente autoproclamata l'etichetta di Detroit e di tutti quegli hits che invasero prima l'America e subito dopo il resto del mondo, una cospicua fetta portava la firma di Marvin Gaye o comunque al suo nome resteranno indissolubilmente legati. 
Nell'anno di uscita di Back To Black oltre vent'anni son passati dal tragico evento, eppure il mito di Gaye è tutt'altro che dimenticato, anzi. La romantica Amy Winehouse, amante appassionata di quel suono, erede naturale di quella gloriosa tradizione, sincera ammiratrice di quel "campione", ricuce, facendosi largo tra ogni sorta di flashback, la vicenda di Marvin e della sfortunata Tammy Terrell e stila con mano sicura il più commovente degli omaggi affidandosi all'interpolazione della base strumentale di Ain't No Mountain High Enough a firma della coppia d'oro del soul Ashford & Simpson, che nel 1967 Gaye cantò in duetto con Tammy. La Terrell morirà di cancro al cervello a soli 25 anni nel marzo del 1970, lasciando un vuoto incolmabile nella vita di Gaye che per reazione a quella morte verrà spinto a ideare il suo capolavoro What's Goin' On, pubblicato nel 1971. 
La Winehouse reinventa ex-novo linea di canto, testo e reintitola il tutto Tears Dry On Their Own. Non sono molte le operazioni analoghe registrate nel libro prima nota del rock: andando a memoria mi sovviene solamente la Strange Brew dei Cream, inclusa in Disraeli Gears del 1967, e riproposta nel 1970 come unica traccia di studio a chiusura del loro Live Cream, con il nuovo titolo di Lawdy Mama. Nel caso non ci si preoccupò nemmeno di riregistrare: elevando all'ennesima potenza l'arte del riciclaggio, si prese semplicemente la base del '67 così come stava e su quel cimelio venne innestata una linea di canto totalmente diversa. Risultato? Interessante ma meglio l'originale. 
Quanto alla Winehouse, è inutile dire che l'operazione riesce nell'intento e fa crollare anche le più ostinate riserve sul metodo dell'interpolazione, accalorando tanto i fans di Gaye quanto quelli di Amy. E' facile dedurlo semplicemente ascoltando la canzone che alla discreta concitazione della versione originale sostituisce un pizzico di elusiva dolcezza che la bacchetta di Salaam Remi dirige  con l'abituale maestria, garantendo adeguata copertura strumentale ad opera dei soliti 4 fedelissimi musicisti. 
Ad uso e consumo dei più romantici, degna di passare agli annali del pop anche una seconda versione della canzone contenuta nel postumo Lionesse: Hidden Treasure del 2011, in cui un arrangiamento ulteriormente rinnovato la spinge decisamente ben addentro i territori della slow song. 

Wake Up Alone

Un caldo tepore circonda gli strumenti, illanguidisce la voce, rende eccitante fino allo stupore anche una melodia come Wake Up Alone, che si leva grondante nostalgia eppur suonando eccitante e fresca anche se appartenente al catalogo di un mondo che non ha perso un'oncia delle sue caratteristiche. Si sprecano i paragoni, i punti di contatto con i mille rami della genealogia rock - Platters, Dion & The Belmonts, Drifters, Coasters, Sam Cooke - ma ci paiono sufficienti l'onestà e la chiarezza degli intenti. Pur continuando così a muoversi lungo le stesse coordinate d'un tempo, la musica sa immediatamente suscitare interesse per quel suo tipicissimo andamento terzinato giocato con rinnovata energia su uno stagionato canovaccio che la generazione dei millenians ha riscoperto con entusiasmo.
E dire che dentro c'è tutto, ma proprio tutto perché la canzone venga tacciata di musica di retroguardia dalle vestali del rock: un puzzle di intuizioni e un gusto pittorico insuperato con le due chitarre dei Dap-Kings che eseguono con passione il loro compito tra la tremenda suggestione un arpeggio con tremolo di enorme magnetismo e gli implacabili (ed impagabili) fiotti sanguigni di una rhythm guitar che scandisce il terzinato come fosse appena uscita da una balera di provincia; poi c'è il piano che Victor Axelrod suona in funzione esclusivamente ritmica secondo una tecnica old fashioned prettamente percussiva, dando vita ad un alchimia in vitro di suggestioni del passato.
Nessun assolo, il gruppo appare competente ed accurato nell'evitare gli eccessi e a votarsi esclusivamente ad una visione d'insieme di cui gran merito va a Mark Ronson, che riesce a formulare ancor più organicamente la proposta di un suono magistralmente arrangiato in studio con tutte le risorse tecniche del caso. L'interazione con la Winehouse, poi, è perfetta, facendo sì che la cantante non esiti a riciclare il proprio retroterra cultural-musicale, rendendo difficile ogni compromesso con tendenze correnti e contaminazioni indesiderate. Inoltre l'equilibrio e l'affiatamento tra i musicisti, la disinvolta lucidità con cui la band si impadronisce dei codici della tradizione, hanno certo il loro peso nella tipicizzazione di uno stile che, al di là degli evidenti richiami, sa farsi canzone dopo canzone intelligentemente inconfondibile.
Tutto quanto fin qui enunciato ci induce a chiosare nell'unico modo che ci appare possibile: dai tranquilli mari della semplicità nascono spesso capolavori o comunque fulgidi gioielli for connoisseurs. Agli ascoltatori il compito di raccogliere questi segnali e di dare ascolto, se c'è, alla giusta sensibilità per apprezzarli.

Some Unholy War

Provate ad immaginare cosa verrebbe fuori da un incrocio tra Ben E. King (sì sì, proprio quello di Stand By Me) e Rickie Lee Jones. Follia? Esatto. Comunque, quanto si poteva supporre sulla carta si realizza alla perfezione in Some Unholy War, canzone incisa sotto l'egida di Salaam Remi che vede protagonisti tutti i suoi fedelissimi. Il perché tiriamo in ballo Ben E. King si evidenzia fin da subito, da quando cioè lo stesso Remi, qui nella veste di bassista, espone un incipit in cui il sangue che corre nelle corde del suo strumento potrebbe tranquillamente essere trasfuso senza pericolo d'infezione in quelle del basso che nel 1961 si era caricato sulle spalle Stand By Me portandola con la forza della sua espressività in vetta alle classifiche di mezzo mondo.
Remi è del 1972, quando nasceva oltre dieci anni erano trascorsi dai fasti dell'hit di Ben E. King, e quasi 30 ne erano passati al momento della sua pubertà musicale e non; ma evidentemente il giovanotto Salaam era uno che si applicava con passione nello studio della storia e la malia di quel sacro inno non è passata inosservata alle sue orecchie, attraversandole per poi sedimentare in cuore e cervello in pianta stabile. Tant'è vero che nel 2006, 34enne assurto al rango di produttore musicale di grido, ne riprende l'attacco iniziale per Unholy War erigendogli adeguato peana. Ovviamente il buon Salaam non si limita a riportare pedissequamente alla luce quell'arci-famoso riff, ma lo manipola, segna il perfezionamento degli spunti che lo informavano allungandolo e dilatandolo verso una sua visione personale, facendone insomma una rilettura con gli occhi di oggi. Il risultato è un sense of wonder swingante quanto basta con il basso che azzanna sinuose linee jazz ed incolla l'ascoltatore mettendo a nudo le sue più intime convulsioni interiori. Non meno coinvolgente il panorama sonoro che gli fa da contorno, con gli strumenti che si librano e fluttuano con la grazia e la perizia di gazzelle danzanti - l'attacco di batteria e l'intreccio delle due chitarre ritmiche sono da manuale - dando vita al corpo principale della canzone che si distingue per omogeneità, raffinatezza e linearità dell'insieme. Su tutto incombe l'esacerbazione emotiva del dolente canto di Amy che si fa lamento: un recitare depresso e irrimediabilmente frustrato. Del resto come avrebbe potuto essere altrimenti, visto che la canzone nasce da alcune amare considerazioni sulla guerra in Afghanistan, messe in sofferto parallelismo con il suo burrascoso rapporto con Blake Felder-Civil.
Il tutto fa sì che ai parametri di riferimento si aggiunga la Rickie Lee Jones più soulful, diciamo quella di Chuck E.'s In Love ma con una dose di drammaticità incommensurabilmente superiore,  anche se tra i nomi che le potrebbero essere affiancati non sarebbe affatto fuori luogo annoverare, in una sorta di sacra trimurti di sacerdotesse delle note blu, anche quelli di Janis Joplin o Bonnie Raitt.

He Can Only Hold Her

E nome più giustificato di quello di Janis Joplin non potrebbe venire alla mente ascoltando He Can Only Hold Her. O meglio, a voler essere più precisi, ascoltando le atmosfere "neoclassiche" dei pochi secondi di chitarra che introducono He Can Only Hold Her. E si badi bene che i secondi cui ci stiamo riferendo sono veramente pochi, pochissimi, tre per la precisione, eppur appaganti nella loro capacità di emanare energia positiva e sufficienti ad evocare una pagina di gloria imperitura come Maybe contenuta nell'album più iconico della cantante texana, quell'I Got Dem Ol' Kozmic Blues Again Mama! uscito nel settembre 1969 che già ad agosto l'aveva portata sul palco di Woodstock ad esporre senza filtri la sua anima di blueswoman allo stato brado.
E' di tutta evidenza che il chitarrista solista dei Dap-Kings è perfettamente a proprio agio con questo tipo di materiale, visto che per tutta la durata della canzone gonfia le vele di un estatico punteggiamento senza pause. Del  resto a proprio agio sono anche gli altri membri della combriccola: lo comprova il fatto che il corpo della canzone continua mirabilmente ad esibire un altissimo tasso soul in cui tutti i protagonisti sguazzano compiaciuti come anatre sul lago. Va segnalato che l'anima della song è un'interpolazione di (My Girl) She's A Fox dei Poindexter Brothers, gruppo R&B di seconda schiera. Il fatto creerà più di un problemino legale per violazione del copyright, non essendo stato accreditato tra gli autori il produttore John Harrison, legittimo titolare dei diritti sulla canzone. Basteranno un po' di svanziche e un giusto accredito, che opportunamente verrà inserito sulle successive stampe dell'album, per revocare ogni iniziativa legale.
Riguardo il costrutto sonoro di questa interpolazione, soffermiamoci un attimo per una doverosa disamina, visto che per chi non conosce i fratelli Poindexter (schiere alle quali umilmente confesso di appartenere) non esistono punti di riferimento e quindi non potrebbe mai comprendere. 
Una volta di più nella canzone sedimenta l'amore di Amy Winehouse come dei suoi collaboratori per la soul music più verace. Ed è di stampo Motown il sospiro che sorregge una progressione armonica che vagamente ricorda (soprattutto nell'intervento dei fiati) la My Girl dei Temptations. Ciò significa che in questa piccola magia a tempo di 3/4 la potenza evocativa raggiunge uno stato solido e la voce come ogni strumento sono passi verso l'abbraccio fatale della nostalgia. Eppur tutto suona fresco e pure moderno. Potremmo dire un altro passo in avanti in termini di rinnovamento nel solco della tradizione. Sono almeno un paio i particolari che ce lo svelano. In primis certi pruriti modernisti che portano a filtrare le voci delle coriste per un brevissimo, stralunato frammento psych che negli anni della Joplin potevi aspettarti dalla cosmicità di avanguardisti come i Grateful Dead di Aoxomoxoa, ma non facevano assolutamente parte del vocabolario soul. Eppoi tutto l'impianto sonoro della canzone in cui riemergono pezzetti di eredita preziose, però trattati alla luce di una sensibilità (e di una tecnica) che solo nel nuovo millennio poteva essere acquisita.
Il risultato è un brano dalla prodigiosa fluidità ritmica e sonora, intessuto di tarsie di ogni sorta e impreziosito da un sapiente gioco ad incastro frutto di arrangiamenti ricercatissimi. Insomma,  una delle canzoni più mature e perfette che l'esiguo portfolio di Amy Winehouse ci abbia regalato.

Addicted

Uno dei frutti più stimolanti - forse addirittura il più stimolante - di Back To Black ci arriva per vie traverse. Infatti, non presente nella stampa originale del disco, è stata necessaria la versione espansa per consentire agli ascoltatori di porre adeguato accento sulla succosa e sapida Addicted. Outtake di Frank del 2003 poi messa inopinatamente da parte, Addicted è una narrazione, senza reticenze e con la schiettezza che la contraddistingue, dell'eterno amore di Amy per la marijuana e del disappunto che provava nei confronti del boy-friend della sua migliore amica che gli rubava l'erba continuando a farsi le canne a spese sue.
Musicalmente parlando, invece, il brano è un connubio mirabilmente riuscito fra una musica calda per eccellenza quale è la black e una produzione nel segno di una sound trattato e tecnologico quanto basta ove trovano asilo l'elettronica, il dub ed ogni sorta di effetto di studio adottato da Salaam Remi. Con Addicted il produttore vola dove osano le aquile, seguito da una Amy Winehouse ben felice di sperimentare formule che si liberano dall'opprimente giogo della routine. Già, perché, manipolazioni tecnologiche a parte, il vero animo della canzone, quello che - come si dice - resta, vola ad altezze siderali, con il soul dell'Otis Redding più epico che si proietta in avanti in una visione del futuro che pure viene dal passato.
La specificità che va rilevata e che letteralmente soggioga è la dicotomia tra una serrata pulsione ritmica che fa palesemente il verso al lavoro di Al Jackson in Try A Little Tenderness del più grande Otis mai esistito e il resto degli strumenti (soprattutto chitarra e flauto, ma anche flicorno e tastiere) che punteggiano e svolazzano tracciando traiettorie suggestive e disegnando brevi melodie che potrebbero essere di un quartetto d'archi.
Addicted è tutta qui. In 2 minuti e 3/4 Amy Winehouse porta nel terzo millennio il Memphis sound di marca Stax e gli da le stimmate dell'immortalità legandolo indissolubilmente ad un album destinato a diventare una delle uscite discografiche più iconiche degli ultimi 15 anni. Al secondo album appena la spinta propulsiva di Amy Winehouse è già poderosa e la fa emergere come un'artista destinata a raggiungere ineluttabilmente l'apice se solo non fosse caduta sotto il peso del suo mal di vivere.
          


Deluxe Edition Bonus CD 

Tra le numerose decorazioni acquisite sul campo che Back To Black può orgogliosamente appuntarsi sul petto, va senz'altro annoverata anche quella di aver reso urgente la pubblicazione di una Deluxe Edition ad appena un anno dalla prima uscita. Come sempre accade in casi analoghi, non sono né l'organicità né la progettualità le virtù di cui andare alla ricerca in questo tipo di appendici. Sono sempre infatti, tali pubblicazioni, dei contenitori messi a catalogo con ben consolidata strategia mercantile, all'interno dei quali trovar posto per uscite collaterali che, per svariati motivi, non si era potuto o voluto includere negli album originali: singoli, B sides, versioni alternative, scorribande dal vivo, demos e gemme preziose di varia natura e livello artistico, riesumate da polverosi archivi. Non fa eccezione il bonus CD accluso a Back To Black che cerca di placare la curiosità e la furia completista delle frotte di discepoli. E lo fa, fatti salvi i limiti di cui sopra, mantenendo l'umore felice dell'artista senza rinunciare ad un'oncia di senso estetico e senza quindi far venir meno, neanche per un solo istante, la piacevolezza dell'ascolto. 
E' così che all'interno di questo invero ingeneroso dischetto (solo 8 canzoni per poco più di 26 striminziti minuti di musica) troviamo di tutto un pò (si fa per dire): si va dalla suadente Valerie, intensissima versione personale di Amy della canzone attribuita prima agli Zutons e poi a Mark Ronson con la stessa Amy ospite alla voce, che su Version, secondo album solista del produttore e musicista datato 2007, veniva proposta con ben altra dinamicità, alla cover di Cupid di Sam Cooke offerta scanzonatamente al pubblico del nuovo millennio in un arrangiamento modernista che viaggia spavaldo a tempo di reggae, prendendo spunto da una versione del 1969 cantata dal misconosciuto Johnny Nash.
Ed è proprio alla musica giamaicana in tutte le sue forme, affiancando all'universalmente noto reggae anche amorevoli omaggi al progenitore ska, che vengono dedicati appassionati ed ossequiosi tributi in questo CD aggiuntivo. A cominciare da quella Monkey Man (nulla a che vedere con l'omonima song degli Stones contenuta in Let It Bleed del 1969) pescata dal repertorio di Toots & The Maytals, gruppo guida della musica giamaicana capitanato dal leggendario Toots Hibbert, seminale al pari di Bob Marley & The Wailers, che la posero in apertura di Sweet And Dandy, loro terzo album del 1969 e poi rilanciata dagli inglesi Specials nel loro omonimo debutto esattamente dieci anni più tardi.
Sarà per affinità elettive con i rude boys della Two Tone, sarà per quell'afflato "punkista" e quel cipiglio barricadero che nemmeno tanto carsicamente, ma anzi proditoriamente esibiti con sfrontatezza e orgoglio, si infiltravano nel loro sound e che una "cattiva ragazza" come Amy non poteva non trovare congeniali, sarà che anche ska e reggae sono rami di quell'enorme albero della black music sotto le cui fronde ombrose l'artista aveva spesso (sempre, in verità) trovato refrigerio, sarà che il produttore Salaam Remi fosse uomo che a tutto sapeva resistere tranne che al fascino del sound giamaicano, fatto sta che la cantante ed i suoi pards si trovano perfettamente a proprio agio con le rudi cadenze in levare di Jerry Dammers e soci; fatto incontrovertibile che trova solenne conferma dall'inserimento in scaletta di due ulteriori brani degli Specials. Il primo è Hey Little Rich Girl, energico e contagiosissimo (non riesci proprio a tenerli fermi questi benedetti piedi!) inno ska che nel 1980 fece bella mostra di sé tra gli eclettici solchi del loro secondo album More Specials. Mentre ancora dal primo, omonimo esordio del settetto di Coventry (ospite d'eccezione in studio ad accompagnare la voce di Amy, ad oltre 25 anni dalle prime, ritmatissime scorribande a scacchi bianchi e neri), arriva invece You're Wondering Now, vivace numero rock steady già coverizzata dai sempiterni Skatalites e ancor prima, nel 1964, dai misconosciuti giamaicani Andy And Joey, che la incisero sotto l'ala protettiva del produttore Sir Coxone Dodd, autore della canzone.
Last but not least, i rimanenti episodi della geografia sonora di questo bonus CD sono una cover, un'alternate take e un demo. La prima - To Know Him Is To Love Him - fa capo ai Teddy Bears, nientemeno che il primo gruppo vocale di sua "Altezza Pop" Phil Spector che nel 1958, al suo primo tentativo, diciannovenne appena, compì un autentico colpo di mano sbancando le classifiche americane che lo gratificheranno certificando vendite per oltre due milioni e mezzo di copie. La seconda è una versione soft di Some Unholy War che la Winehouse interpreta alla ricerca di una perduta arca drammatica che qui viene resa in veste un po' tragica ma non sgradevole. A chiudere, il demo originale di Love Is A Losing Game dove un'intensissima Amy Winehouse si mette letteralmente a nudo, ribadendo come per lei amore facesse sempre rima con dolore, e regalandoci una scarnificata e dolente interpretazione solo voce e chitarra acustica.
Tirando le somme, malgrado la loro natura di outsiders, le 8 "chicche" del suo esiguo ma già eccellentissimo passato esposte nella teca di questo CD aggiuntivo, continuano a mettere in mostra il talento naturale dell'artista, dotata di quel carisma personale che la destina a rimanere una garanzia per la musica dell'anima anglosassone negli anni a venire. Nonostante tutto.      


            
One By One

Valerie

Chi ha ucciso gli Zutons? Questo si chiedevano gli Zutons stessi mettendo le mani avanti con una domanda in netto anticipo sui tempi, intitolando già così il loro album di debutto nel 2004. Risposta: gli Zutons sono stati uccisi da se medesimi, scomparendo nel nulla nel 2009 dopo tre ineffabili album in cui sincretismo ed eclettismo stilistico la facevano da padrone, affiancati ad una verve compositiva veramente peculiare e rara a trovarsi. A questo punto mi par di vedere l'espressione stampata sulle vostre facce attonite mentre vi chiedete come abbia potuto un volonteroso scriba come il vostro affezionato perdere in questa maniera ingloriosa il lume della ragione. Già sento chiedersi i meno avvertiti: "E chi cazzo sono 'sti Zutons?". E ancora: "E poi che c'azzeccano 'sti cazzo di Zutons con Amy Winehouse?". State calmi, topolini in navigazione, non vi agitate. Posso spiegarvi tutto. La cosa è molto più semplice di quello che potrebbe apparire a prima vista.
Innanzitutto tengo a fornire rassicurazioni sullo stato della mia salute mentale. Detto questo, gli Zutons. Formati a Liverpool nel 2001 dal chitarrista Dave McCabe, sono stati uno dei gruppi più stimolanti, intelligenti, colti e divertenti che abbiano mai calcato le scene di "rocklandia". Uno di quei gruppi onnivori alla cui formula sonora nessuna musica è preclusa. Sarà per questo che si congederanno nel 2008 con un terzo album dal titolo You Can Do Anything (Puoi Fare Qualsiasi Cosa). Ebbene, questi prestigiatori dalle mille invenzioni, che citano tra le loro influenze indifferentemente Frank Zappa come Captain Beefheart (a proposito, il nome si ispira al chitarrista della Magic Band del Capitano Cuore di Bue, Zoot Hom Rollo), i Talking Heads come i Devo, Sly & The Family Stone come i Dexys Midnight Runners, sono gli autori di Valerie che, vestita di un arrangiamento che si dipana tra arpeggi chitarristici jingle-jangle, adrenalinici fuzztoni e uno straordinario lavoro di batteria dai cambi di passo che si susseguono senza soluzione di continuità, vanno a piazzare tra i solchi di Tired Of Hanging Around, loro secondo album del 2006. La canzone impazza durante l'estate dello stesso anno, arrivando così all'orecchio di Amy che se ne innamora all'istante. Nell'aprile 2007 pubblica la sua versione registrata a BBC Radio 1 e a ottobre, dopo essersene innamorato a sua volta, pubblica la sua anche Mike Ronson su Version secondo album del 2007, riunendo la stessa Winehouse con i Dap Kings al gran completo e appoggiando la song su di un tappeto ritmico schiettamente R&B che interpola quello di Town Called Malice dei Jam.
Questa, per sommi capi, è la vicenda storica, ma, ponendo ovviamente l'accento sulla versione della Winehouse, quale il costrutto sonoro di tutto ciò? E' presto detto: laddove dominano la furia anarcoide e funky dell'articolato teatrino targato Zutons e la dinamica pulsazione northern soul propugnata da Ronson, un'ispiratissima Amy Winehouse dribbla entrambi andando in goal trasformando la materia in una intensissima ballad che ti mette spalle al muro per quanto è lancinante nella sua malia. Un impianto strumentale scarno e stringato: un piano elettrico a punteggiare per mezzo di tocchi vagamente doo wop, una chitarra dalle sospensioni emozionali di rara precisione e raffinatezza e un basso agilissimo nel pompare figure ritmiche elasticamente articolate. Tutto suonato con i volumi al minimo e praticamente niente batteria; solo un tenue segnare il tempo sul charleston che quasi si perde sullo sfondo. A dominare il tutto la voce di Amy che arabesca seducente ondeggiando tra soffuso romanticismo e sensuale malinconia.
Per quel che vale, la rivista Rolling Stone ha sentenziato come Valerie sia la cosa migliore che Amy abbia pubblicato dopo Back To Black. Per quel che riguarda il vostro affezionato, solo ora realizzo di aver adoperato tante parole laddove ne bastava una sola: capolavoro!

Cupid

E' sufficiente conoscere il tragico finale della vicenda umana di Sam Cooke  per capire quanto il pregiudizio razziale in America abbia pesantemente condizionato il percorso e lo sviluppo della musica dello scorso secolo. Bello, giovane, talentuoso, sull'onda di un successo travolgente, destinato a diventare il N° 1 per via di un magistero artistico inarrivabile e pure ricco (guidava, noblesse oblige, una Ferrari), aveva in mano tutti gli assi per incarnare il sogno americano. L'unica cosa che lo svantaggiava era una pigmentazione che rendeva la sua pelle più scura di quello che l'America WASP era disposta a tollerare. Pare infatti che il suo incarnato non sia stato estraneo a quanto accadde l'11 dicembre 1964 quando, all'età di 33 anni, Cooke venne crivellato di proiettili in un motel di Los Angeles in circostanze mai completamente chiarite. La sparatrice, la manager del motel Bertha Franklin, dichiarò che Cooke, ubriaco, tentò di aggredirla e di aver quindi agito per legittima difesa. I giudici le credettero chiudendo definitivamente il caso sulla morte di Cooke, ma la storia faceva acqua da tutte le parti. Eppoi, diciamocelo, quale giuria, nel 1964, avrebbe mai condannato una donna bianca per l'omicidio di un uomo di colore, per quanto ricco e famoso? Insomma, andiamo, mettetela come vi pare ma in fondo un negro resta pur sempre un negro. 
Se n'è andato così uno dei più grandi musicisti statunitensi, stella del soul ghermita nel fiore degli anni, lasciando un vuoto incolmabile in quella musica che aveva praticamente inventato (e non è certo casuale che il cofanetto commemorativo di 4 CD a lui dedicato nel 2000 si intitoli The Man Who Invented Soul) e lasciando a fans e addetti ai lavori la consapevolezza che la gravità di quella perdita non avrebbe mai potuto essere pienamente valutata. Parole queste non di circostanza se solo pensiamo come un grandissimo quale Otis Redding lo abbia sempre citato quale fonte primaria alla base della sua esperienza artistica.
Non si contano le canzoni imprescindibili di questo gigante: dal primo singolo del 1958, You Send Me (ripresa proprio da Otis Redding nell'istintivo Pain In My Heart, suo primo album del 1964), a Wonderful World del 1960. Acclusa alla colonna sonora di The Witness, è la canzone che sgorga dall'autoradio della vettura che Harrison Ford sta riparando in una della scene più iconiche della storia del cinema, quella in cui balla nel fienile con la coprotagonista, la bella Amish interpretata dall'ottima Kelly McGillis. Ma non finiscono certo qui le perle di una collana prestigiosa: da un canzoniere impeccabile possiamo estrarre Chain Gang del 1961 che Otis Redding vorrà riproposta nel 1966 in The Soul Album, disco di soul d'annata che ascoltato ancor oggi fa gridare alla meraviglia, oppure Nothing Can Change This Love del 1962 che ancora l'indefesso Redding includerà nella track listing di The Great Otis Redding Sings Soul Ballads, album del 1965 che come d'abitudine per Redding tocca il nervo dell'eccellenza, oppure ancora l'adrenalinica Shake e la solenne A Change Is Gonna Come, entrambe del 1964 che sempre nel 1965, vero die hard fan, Redding, sempre lui, adagerà tra i solchi immortali di Otis Blue assieme alla già citata Wonderful World, arricchendo il disco di un trittico più che significativo che rende quest'album monstre un vero e proprio pantheon eretto in onore del musicista chicagoano. Nel 1967 Redding tornerà a calcare quel sentiero con Bring It On Home To Me del 1962, reinterpretata con verve in King And Queen, l'album cantato in duetto con Carla Thomas (figlia di Rufus Thomas, il "vecchietto" più funky della storia). A tal proposito, è impressionante il numero di artisti di primissimo piano che si sono cimentati con quello che è diventato un autentico standard: Animals, Sonny & Cher, Aretha Franklin, Dave Mason, Van Morrison, John Lennon, Paul McCartney e scusate se è poco. Accanto a questo incredibile consesso di illustri personaggi non posso esimermi dal porre in particolare, affettuosa evidenza Sonny Terry & Brownie McGhee, apprezzata coppia blues che nel loro luminoso e imprescindibile album del 1973, Sonny & Brownie (che, en passant, vi invito più che caldamente a procurarvi, costi quel che costi, fosse anche l'ultima azione che compirete in vita) accompagnati dal violinista Don Sugarcane Harris (mitico specialista dello strumento elettrificato di zappiana e mayalliana memoria), allestiscono una stratosferica rendition di Bring It On Home To Me che mette in mostra una magnetica ed entusiasmante recita da applausi a scena aperta sulla cenere della vecchia canzone.
Tutti autentici capi d'opera, quelli testè elencati, accanto ai quali trova più che legittima collocazione anche Cupid del 1961, che il solito Otis Redding farà sua in un ennesimo atto di devozione, senza però aver mai avuto la soddisfazione di vederla pubblicata. La canzone infatti resterà nei cassetti della Stax/Volt fino al 1992 quando, a 25 anni dalla morte del cantante di Macon, i curatori del suo catalogo, annotando in terra di mercati il rigurgito di certa nostalgia per la soul music ben temperata, la includeranno nell'album postumo di inediti intitolato Remember Me.
Nel 2006 anche Amy Winehouse sente che è tempo di confrontarsi con la canzone. Lo fa con insinuante nonchalance definendo una suggestiva evoluzione del sound che la porta - di certo istigata dal produttore Salaam Remi che non poteva non conoscere la versione di Johnny Nash - a colorarlo di tempere reggae.
Rivelatore ed oltremodo chiarificante l'ascolto comparato in sequenza delle quattro versioni (ebbene sì, faccio anche questo, ma per i suoi topolini che lo leggono il vostro scriba farebbe questo ed altro): laddove Sam Cooke cerca coraggiosamente di travalicare gli schemi degli early sixties inglobando nella canzone, come scrisse il critico di AllMusic Bill Janovitz, "elementi latini, R&B, jazz e pop mainstream" senza creare cesure troppo nette con lo spirito dei tempi (vedi il sottofondo orchestrale, peraltro meraviglioso, che possiede molti tratti in comune con la Stand By Me di Ben E. King, non a caso dello stesso anno), Otis Redding porta tutto nell'alveo della sua ormai consolidata cifra stilistica di marca Stax, con tanto di sezione ritmica in primissimo piano a marcare con pesantezza il ritmo ed il contrappunto inconfondibile dei fiati. Amy Winehouse invece cambia tutto: sostanzialmente prende la versione di Johnny Nash (il primo americano ad andare ad incidere dischi reggae a casa di coloro che il reggae l'avevano inventato, a Kingston) e la restaura con un azzeccato lavoro di taglia e cuci. Taglia l'orchestra che Nash aveva recuperato da Cooke e gli cuce addosso una linea di basso straordinariamente più presente di quella di Nash ed una sezione fiati che prende direzioni totalmente differenti rispetto a quella di Redding, per poi dar vita a quel riff finale reiterato ad libitum che è un'autentica delizia.

Monkey Man

Il potere di suggestione che emana il reggae è dovuto, oltre che alle intrinseche qualità musicali, anche all'alone di fascino emanato dalla storia di questa musica che si è diffusa in ogni angolo del pianeta partendo da una piccola isola caraibica (240 km. da est a ovest e 80 km. da nord a sud) con appena 3 milioni di residenti.
Non è certo questo il contesto adatto per un resoconto dettagliato di tale storia: a questo riguardo esistono in rete molteplici articoli funzionali a far sì che chi fosse interessato possa rendersi sufficientemente edotto. In questa sede ci limiteremo a ricordare come il reggae discenda sostanzialmente dallo ska e in particolare sia una variante del rocksteady, che dello ska è figlio diretto e da cui si differenzia per un ritmo più lento ed un uso in chiave soul dei fiati. Ed è proprio del precursore del genere, lo ska, oggi poco venduto ma incondizionatamente apprezzato dagli esperti del settore, che tratteremo parlando di un brano come Monkey Man
Detto anche "il boogie giamaicano", lo ska, una mistura musicale che ingloba l'autoctono mento (originaria musica folk giamaicana), il calypso (proveniente da Trinidad & Tobago), jazz e rhythm'n'blues (questi ultimi captati avidamente dai giamaicani con le orecchie incollate alle radio sintonizzate sulle stazioni del sud degli States, potenti a tal punto da coprire con le loro trasmissioni buona parte della regione caraibica), è caratterizzato dal caratteristico ritmo in levare, il cosiddetto offbeat, nonché da un mix cromatico tra strumenti elettrici e i fiati - sax, tromba e trombone - mutuati dal jazz. Esso nasce tra la fine degli anni '50 e gli albori dei '60 marcando un momento di poderosa ascesa della musica popolare giamaicana.
Molto divertenti e alquanto "illuminanti" le parole con cui Ernest Rangling, vero mito chitarristico nella storia musicale giamaicana, spiega la differenza tra ska e R&B: "La differenza tra R&B e ritmi ska è che il primo suona chink-ka e il secondo ka-chink". Tutto chiaro, no? Impagabile Rangling anche nella spiegazione dell'etimologia della parola ska che a suo parere deriva dall'espressione onomatopeica "ska! ska! ska!", coniata dai musicisti per indicare un modo aggressivo e graffiante di suonare la chitarra.
Consultando l'albo dei padri nobili di questa musica, ci imbattiamo in un gruppo mitico di prime movers costituito da musicisti/produttori che diffusero il genere attraverso i sound systems, in buona sostanza dei camion su cui venivano caricati un gruppo elettrogeno, un giradischi e degli enormi altoparlanti bass reflex, coi quali battevano in lungo e in largo tutta l'isola organizzando feste di strada. Autentici pionieri, costoro, che rispondono ai nomi (limitandomi a citare i principali) di Stranger Cole, felicemente attivo a tutt'oggi, Prince Buster, deceduto nel 2016 a Miami dopo una serie di ictus che l'avevano relegato ad una sedia a rotelle, il già citato Clement "Coxone" Dodd, su cui torneremo più avanti al momento di trattare You're Wondering Now di cui è l'autore, Lee "Scratch" Perry, mitico mago del dub tra i più impegnati a diffondere il "verbo" tra le nuove generazioni di musicisti (Beastie Boys, Clash, Orb) e a quello di gruppi come Skatalites e Toots & The Maytals. I primi autentica leggenda dello ska attivi fin dal 1963 (ne riparleremo a proposito sempre di You're Wondering Now), i secondi uno dei cardini della musica giamaicana, partiti fin dagli albori dello ska e successivamente, pur rimanendogli fedeli e senza mai abbandonarlo completamente, fondamentali interpreti anche di rocksteady e reggae, nonché autori proprio di Monkey Man.
Il gruppo nasce nel 1962 come trio vocale con il nome Maytals pubblicando il primo album Never Grow Old nel 1964 sotto l'ala protettrice di Clement "Coxone" Dodd. Questo li mette sotto contratto con la sua etichetta Studio 1 e fa loro varcare la soglia della sala di registrazione con lo stesso nome, che per i giovinastri giamaicani dello ska era tempio dichiarato e "grotta" delle apparizioni in cui scambiare buone vibrazioni e poi magari anche morire felici; tra quelle mitiche pareti i tre cantanti vengono affiancati dalla house band dello studio  (nientemeno che gli immarcescibili Skatalites che si occuparono delle basi strumentali), staccando in questo modo un biglietto immaginario per la gloria.
Oltre che dal frontman Toots Hibbert (1942-2020), la formazione era costituita da Henry Gordon e Nathaniel Mathias, cui nel tempo verranno ad aggiungersi altri musicisti come il bassista Jackie Jackson, i chitarristi Hux Brown e Radcliffe "Dougie" Bryant e il batterista/percussionista Paul Douglas. Alcune vicissitudini personali (come l'interruzione dell'attività per un anno e mezzo tra il '66 e il '67, quando Toots si fece 18 mesi al fresco per possesso di marijuana) e professionali (come l'abbandono di "Coxone" Dodds per passare a lavorare con Prince Buster prima e successivamente con Byrone Lee) e finalmente la band, dopo aver pubblicato nel 1968 il singolo Do The Reggay, prima canzone in assoluto in cui veniva usata la parola reggae che diede il nome al genere che si andava sviluppando, approda finalmente, nel 1969, all'incisione di Sweet And Dandy, disco strabico che, con quel po' di empietà che da sale alle cose, accanto agli stilemi tipici della musica giamaicana continua a sbirciare più o meno di sottecchi quelli da cui la stessa aveva tratto origine. Accade così che accanto ad un blues come I Shall Be Free e a un'accorata soul ballad come I Need Your Love, troviamo addirittura un traditional gospel come We Shall Overcome che nel tempo si è trasfigurato in canzone di protesta ed inno chiave per il movimento americano dei diritti civili. Riguardo Monkey Man, posta in apertura di disco, rilevato che per il suo modo schietto di portare il ritmo è canzone che ha il suo fascino, va osservato come in essa il gruppo non operi nel campo reggae né in quello ska, bensì in quella terra di mezzo tra i due generi, nonché anello evolutivo di congiunzione, a nome rocksteady.
Altro non saprei dire sulla prima "vita" di questa canzone e passo quindi alla seconda. Ché la canzone ha vissuto una seconda giovinezza a dieci anni esatti di distanza. Erano passati dieci anni ma sembrava ne fossero passati cento. Tutto era diverso nel 1979. Chris Blackwell, dopo aver fondato la Island Records in Giamaica nel 1959, era tornato in Inghilterra facendone una delle più importanti etichette mondiali. Dopo aver messo sotto contratto mezzo rock inglese (Spencer Davis Group, Traffic, Jethro Tull, King Crimson, Emerson Lake & Palmer, Fairport Convention, Nick Drake, John Martyn, Cat Stevens, John Cale, Free, Roxy Music, Robert Palmer, U2 e chi più ne ha più ne metta), lancia sul mercato internazionale alcuni act giamaicani come Toots & The Maytals, Sly & Robbie, Black Uhuru, Burning Spear, Third World, Jimmy Cliff (che fu determinante nel segnare l'ascesa del reggae con il film The Harder They Come del 1972), Grace Jones e soprattutto Bob Marley che sotto l'illuminata guida di Blackwell assurgerà al rango di mito vivente di portata mondiale al pari di Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Doors, Pink Floyd, Led Zeppelin. Con Bob Marley il reggae può davvero considerarsi quanto di più vitale e positivo sia scaturito dalla musica degli anni'70, smettendo di essere semplicemente un genere musicale per diventare un meta-linguaggio come già avvenuto con il blues, il soul, il jazz, il country. Fu una corsa all'oro in cui tutti si diedero la pena di gettar lo sguardo oltre i lunghi dreadlocks dell'eroe di No Woman No Cry, laggiù nella shantytown di Kingston oppure tra le colline coltivate a ganja. Il primo a screpolare la diga fu nel 1974 Eric Clapton con la cover di I Shot The Sheriff proprio di Marley (non dimentichiamo che Yvonne Elliman, sua corista nonché compagna dell'epoca, era giamaicana e questo avrà pur voluto dire qualcosa) e dopo fu il diluvio. In sovrappiù nel 1977 era esploso il fenomeno punk con tutta la sua carica di protesta e nichilismo, con i giovani inglesi che scoprivano come la loro disillusione e la loro frustrazione fossero le stesse che angosciavano nel profondo il cuore dei loro coetanei immigrati dalla Giamaica. Sto semplificando molto, ma ciò fece sì che nascessero molti nuovi gruppi che fecero del reggae la loro musica di riferimento o comunque un faro a cui guardare e a cui ispirarsi. Negli anni '60 e primi '70 c'era stato il rock-blues ora c'era il reggae-rock. I primi nomi che mi vengono in mente sono i Clash di Police And Thieves e soprattutto quelli onnivori di Sandinista, i Police di Reggatta De Blanc (a proposito, gran bel titolo!) ed il primo Elvis Costello. Nacquero anche gruppi razzialmente misti; penso agli UB 40, il cui nome si riferisce al modulo da compilare per ottenere l'indennità di disoccupazione, ed altri composti da giamaicani/inglesi di seconda generazione come gli Aswad e gli Steel Pulse. Il reggae era diventato insomma un fenomeno globale che accese come mai prima i riflettori sulla piccola isola caraibica in cui aveva avuto i natali. Da qui a scoprire che prima del reggae c'era stato lo ska il passo fu breve e da qui alla nascita di una nouvelle vogue di gruppi ska ancor più breve.
E' da questo brodo di cultura che nacquero etichette specializzate come la Two Tone, con il suo caratteristico logo a scacchi bianchi e neri inteso come simbolo di unità razziale, e gruppi che possono essere riassunti nella sacra trimurti del movimento come Madness, Selecter e - per quello che qui ci interessa - Specials. Questi ultimi, fondatori della Two Tone nella persona del loro carismatico leader Jerry Dammers, nel loro primo, omonimo album del 1979 prodotto da Elvis Costello, riprendono Monkey Man trasformandola da brano rocksteady come era nella versione di Toots & The Maytals in concitato inno ska che riportava alla luce tutta la filosofia e l'estetica della sottocultura dei rude boys. Non intendiamo in questa sede aprire il file rude boys, ma è interessante notare come la loro estetica - abiti in stile gangster americano, giacca a tre bottoni, cappello pork pie (celebrato nel 1959 anche da Charles Mingus in Goodbye Pork Pie Hat dall'album Mingus Ah Hum e dedicato al sassofonista Lester Young che era solito indossare tale copricapo), scarpe di vernice - sia stata assorbita fin dagli anni '60 dall'estetica mod con la quale, causa la medesima estrazione sociale operaia e la frequentazione degli stessi quartieri periferici popolari, si determinò un fenomeno di osmosi culturale. Sarà anche per questo che tra il '73 ed il '75 Toots & The Maytals fecero da supporto ad un tour degli Who.
Rock, punk, reggae, ska, rocksteady: grande era la "confusione" sotto il plumbeo cielo d'Inghilterra alla fine degli anni '70. Un vero "casino" in verità, se ci è concessa la volgarità dell'espressione, ma quanto meraviglioso, quanto entusiasmante quel "casino". Non per nulla segnò uno dei periodi più eccitanti mai vissuti dalla musica moderna. 
Arriviamo così, finalmente, alla Monkey Man di Amy Winehouse che ricalca sostanzialmente quella degli Specials. Amy ha voce magnetica, malizie più di mille e i suoi "drughetti" dimostrano una volta di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, di conoscere a menadito l'abbicì degli strumenti; il suo stile scorre fluido, spesso di nuances, crudo come una carezza lasciva che qualcuno può anche chiamar divertimento.


To Know Him Is To Love Him

Il 16 gennaio di quest'anno moriva di COVID-19, all'età di 81 anni, Phil Spector. Era rimasto inattivo per la maggior parte degli anni '80, '90 e 2000, anche perché dal 2009 era detenuto nel carcere californiano di Corcoran dove stava scontando una pena da 19 anni all'ergastolo per l'omicidio dell'attrice Lana Clarkson, avvenuto il 3 febbraio 2003 nella sua villa Pyrenees Castle ad Alhambra nella contea di Los Angeles. Finiva così una vita di successi ed eccessi che comunque ha segnato la storia musicale degli ultimi 60 anni. 
Che fosse uno "stramboide" è il minimo che possa essere detto di quest'uomo. Talmente fuori dagli schemi e sopra le righe che l'espressione genio e sregolatezza pare essere stata coniata apposta per lui. Proverbiali le sue bizzarrie che negli anni hanno fatto la gioia dei cronisti del gossip: ha distrutto più automobili questo pazzo newyorkese del Bronx che uno sfasciacarrozze; quando entrava in studio non dimenticava mai di portare con sé il suo inseparabile revolver che poi appoggiava in bella vista sulla consolle (così, tanto per rendere chiaro il messaggio). Lo stesso revolver con cui, così racconta la leggenda, nel 1979, durante la lavorazione di End Of The Century dei Ramones, minacciò i quattro "fratellini" durante le registrazioni. Dee Dee ha ricordato che Spector gli puntò contro la pistola quando aveva tentato di abbandonare la seduta. Ma Marky fornisce una versione totalmente diversa: "La pistola era lì ma aveva una licenza per portarla. Non ci ha mai tenuto in ostaggio. Avremmo potuto andarcene in qualsiasi momento".
Con John Lennon, invece, la pistola di Spector entrò veramente in azione: era la fine del 1973, durante le sessions iniziali per l'album Rock 'n' Roll di Lennon che sarebbe uscito nel '75, la situazione cominciò a degenerare per l'abuso di sostanze stupefacenti ed episodi caotici vari; in mezzo a quel clima di bisboccia ad un certo punto Spector impugnò la sua pistola e sparò un colpo proprio mentre l'ex Beatle stava registrando. Licenziato in tronco. 
Situazione analogamente folle quella vissuta un anno prima dall'altro ex Beatle George Harrison che fu costretto ad estromettere Spector dalle registrazioni dell'album Living In The Material World per la sua inaffidabilità: "Sono dovuto scendere dal tetto nella stanza d'albergo di Spector per convincerlo a partecipare alle sessioni. Quel tipo aveva bisogno di 18 brandy allo cherry prima di poter scendere in studio".
Nel 1974 il nostro fu vittima di un incidente automobilistico dove quasi ci rimise le penne: finì in sala operatoria dove i medici gli praticarono 300 punti di sutura al viso e più di 400 alla nuca. In conseguenza di ciò iniziò ad indossare delle parrucche: parrucche nero corvino, parrucche biondo platino, enormi parrucche stile criniera leonina, ridicole parrucche alla scienziato pazzo. Pensate alla più stravagante parrucca che una mente bacata possa concepire e potete scommetterci che il vecchio Phil ne possedeva una di uguale nella sua collezione.
Molto meno innocue e disfunzionali le relazioni con i familiari: Ronnie Spector, al secolo Veronica Bennett, cantante principale delle Ronettes ed in seguito moglie del nostro, nel suo libro di memorie ha rivelato come Spector l'avesse segregata all'interno delle sua villa sottoponendola per anni ad ogni tipo di vessazione psicologica al punto da costringerla a fuggire a piedi nudi dalla sua prigione dorata con l'aiuto della madre nel 1972. Fu poi costretta a rinunciare all'affidamento dei figli in quanto, se non l'avesse fatto, Spector le aveva promesso che avrebbe assunto un sicario per ucciderla. Quanto ai figli, Gary e Donté, entrambi rivelarono che Spector da bambini li teneva prigionieri e di essere stati costretti a simulare rapporti sessuali con la ragazza del padre. Queste le sconcertanti dichiarazioni di Gary: "Sono stato bendato e molestato sessualmente. Papà diceva: 'un giorno incontrerai qualcuno e questa sarà un'esperienza d'apprendimento' ". 
Nel 2006, a 67 anni, mentre era libero su cauzione ed in attesa del processo, Spector sposava la sua terza moglie, Rachelle Short, di 41 anni più giovane. Chiederà il divorzio nel 2016 adducendo differenze inconciliabili. Insomma, avrete inteso: matto più di un cavallo. Nonché discretamente stronzo.
Questi gli highlights della vita privata. Quanto alla dimensione artistica, troppo lunga e sfaccettata per essere trattata in questa sede. Confido inoltre nel fatto che chi legge queste righe abbia un'idea sufficientemente precisa dell'importanza ricoperta dall'uomo nella storia della musica dello scorso secolo. Ad ogni modo per leggere della musica di Phil Spector, per farsene un'idea seppur sommaria, ci si può attenere a quanto riportato da Santa Wikipedia, salvo poi approfondire in fasi successive o attendere il tempo necessario per permettere al vostro umilissimo scriba di mettere in cantiere una recensione appositamente dedicata all'uomo (tranquilli, ci sto pensando. Ci sto pensando con un'intensità che voi non potete nemmeno immaginare). Per ora ci limiteremo quindi a ripercorrere solo i primi passi della carriera di quello che, per il suo genio e la sua sregolatezza, potrebbe a buon diritto essere definito il Maradona del pop.
La vicenda ha inizio nella primavera del 1958, quando il diciottenne Harvey Phillip Spector - letteralmente ossessionato da To Know Him Is To Love Him, una canzone che aveva scritto per il suo gruppo - prenota la sua prima sessione al Gold Star Studio di Los Angeles. Come tanti diciottenni il nostro era uno spirito visionario ricco di idee e di sogni ma irrimediabilmente squattrinato: lo studio costava 15 dollari l'ora e una bobina di nastro vergine 6 dollari. Tutto sommato, pensò il giovane Phil, 40 dollari sarebbero dovuti bastare. I primi 10 dollari glieli presta la madre Bertha, da sempre sostenitrice degli sforzi del figlio, mentre altri 10 dollari li ottiene da Marshall Leib, un laureando in economia e diritto che, malgrado gli anni verdi, già aveva cominciato a muovere i primi passi nel mondo della musica con il precario complessino dei Moondogs, formato con alcuni compagni di classe. Altri 10 dollari il nostro li ottiene da Harvey Goldstein, altro frequentatore del college cui viene promesso un posto come basso. Gli ultimi 10 dollari glieli presta Annette Kleinbard, una soprano che aveva cantato allo Glee Club che accetta di contribuire a patto che anche lei venga coinvolta nell'avventura. Spector ovviamente accetta ottenendo così i suoi sospirati 40 dollari.
Dalla prima sessione i quattro se ne escono con Don't Worry My Little Pet, un grintoso ma canonico surf chitarristico che non fa assolutamente presagire gli sfracelli commerciali che sarebbero avvenuti in seguito. Tutti gli strumenti sono suonati dallo stesso Spector che già agita il bastone del comando fungendo anche da produttore. Con il demo della canzone in mano, Spector si precipita dall'amico e vicino Lew Bedell, co-proprietario della Era Records e fresco fondatore della Dore Records tramite la quale aveva in progetto di sviluppare un catalogo rock'n'roll. La canzone piace e al giovane Spector par di toccare il cielo con un dito quando si vede offrire un contratto per quattro dischi con royalties di un centesimo e mezzo per ogni copia venduta. Lì su due piedi, in ufficio, battezzano il gruppo Teddy Bears, prendendo a prestito il nome dalla canzone di Elvis Presley.
Alla terza sessione non partecipa Goldstein che viene sostituito dal batterista Sandy Nelson, il quale continuerà la carriera come session man e come titolare di una copiosa messe di album fino alla metà degli anni '70. A sessione quasi ultimata, Spector convince Leib e la Kleinbard a dare una chance a To Know Him Is To Love Him, una triste ballata piena d'amore che il nostro aveva scritto dopo una sorta di pellegrinaggio nel Bronx a visitare la tomba del padre, morto suicida quando Phil aveva nove anni, sulla cui lapide campeggiava l'epitaffio "Conoscerlo E' Amarlo".
La canzone piace ancor più che Don't Worry My Little Pet, al punto che Bedell, all'inizio di agosto del '58, invia 500 copie del disco alle stazioni radio della zona con la fattiva speranza di cavarne una qualche reazione. Quando nulla succede Leib e Goldstein se ne tornano al college con la coda fra le gambe. Ma evidentemente qualcuno lassù amava questa gente: a settembre, infatti, un DJ di Fargo nel Nevada passa la canzone alla radio e nel giro di pochissimo tempo alla Dore Records perviene un ordine da un distributore di Minneapolis che chiede 18.000 copie. E' fatta: difficile immaginare l'eccitazione di quei ragazzi quando nel giro di una settimana To Know Him Is To Love Him fa il suo ingresso nelle classifiche nazionali e il 29 ottobre i Teddy Bears ricevono l'invito a partecipare al programma American Bandstand. 
Alla fine, prima di Natale 1958, le copie vendute saranno più di un milione e To Know Him Is To Love Him salirà al primo posto in classifica. Il 3 gennaio 1959 il gruppo è ospite al Perry Como Show e a metà mese scioglie i rapporti con la Dore causa dissidi sui diritti d'autore. Spector bussa così a nuove porte commerciali per vendicare gli oltraggi subiti e presto le cronache lo raccontano "sposato" con un'altra ditta del ramo, la più strutturata Imperial. Prima della fine dell'anno, però, i Teddy Bears, dopo altri soli due singoli, si scornano anche con i tipi dell'Imperial per divergenze con Lewis Chudd, il boss dell'etichetta, e quindi si dissolvono come neve al sole passando alla storia e dando la stura alla carriera di Phil Spector, prima come leader degli Spector Three in combutta con Russ Titelman, sconosciuto alle moltitudini ma ben noto a chi è avvezzo a sbirciare i crediti sulle copertine dei dischi, e in seguito come autore e produttore sotto l'egida di Lee Hazlewood. Ma questa è un'altra storia.
Nei confronti di questa di storia, siamo però ancora debitori di un'adeguata conclusione che racconti, come lo merita, la versione di To Know Him Is To Love Him nell'interpretazione di Amy Winehouse. Più che di disquisizioni tecniche o descrizioni strumentali, la canzone indurrebbe a parlar di sentimenti ed emozioni, quelle che una Winehouse assennata fino alla pudicizia ci elargisce estraendole da una cornucopia con un amaro sorriso. Per entrare più nello specifico Amy, concentrando su di sé l'occhio di bue", usa una scarnificata ma saporosa formula personale, ostentando in splendida solitudine bella malizia vocale e una qual "souplesse" chitarristica. Niente di più, niente di meno.

Hey Little Rich Girl

Ribadendo una volta di più quanto la pulsante lingua dello ska le sia congeniale, Amy Winehouse muove ancora a far ritmo in levare facendosi scrupolo di tenere alta la temperatura della "fiesta". Ha buon gioco nel farlo mettendo in campo una contagiosissima Hey Little Rich Girl, ottima per i disc jockeys in vena di nostalgia.
La canzone data infatti 1980 e contagia i giovani "studiosi" del nuovo millennio con i postumi inestinguibili della grande sbornia giamaicana che durante i venerandi trascorsi di 25/30 anni prima aveva fatto sì che le truppe terzomondiste del generale Marley si ammassassero sotto le mura di Babilonia, per poi abbatterle e tracimare festose tra i vicoli e i giardini della città. L'esercito di Marley poteva contare anche sull'apporto di truppe d'assalto che si erano specializzate nella diffusione del verbo ska e gli Specials di Jerry Dammers ne costituivano l'unità d'élite, assieme a Selecter, Bad Manners, Beat e Madness (questi ultimi coloro che hanno beneficiato in misura maggiore dell'abbondanza di piazzamenti nelle classifiche offerti loro dalla cornucopia della dea bendata).
Originari di Coventry nell'Inghilterra centrale, una trentina di kilometri a sud di Birmingham, gli Specials assaporano il successo già con il primo, omonimo album del 1979, un disco tranquillamente definibile come epocale ed imprescindibile. Sicuramente un bignami musicale di riferimento in cui questo settetto di sopraffini artigiani traccia i confini, ridefinisce alfabeto e grammatica e forgia l'espressione dello ska d'Albione, di cui stabilisce le connessioni con la smodatezza del punk. Al contempo ne impone l'immagine tramite l'estetica del rude boy e la grafica dei dischi licenziati dall'etichetta da loro fondata, la Two Tone,  quintessenza ultima del nuovo/vecchio genere di cui è il simbolo per eccellenza.
Dopo appena un anno, nel 1980, il loro leader Jerry Dammers, che è artista vero e condottiero carismatico, sente imperioso ed impellente il bisogno di attuare una suggestiva evoluzione del suono che metterà in pratica con il secondo album della band, More Specials, sincretico disco di accurata fattura che lo porterà ad esorcizzare parzialmente la comoda formula personale dello ska-punk che li aveva lanciati nell'olimpo. Dammers vagheggiava una musica raffinata, fatta di sonorità trasparenti e colori tenui, fortemente influenzata dalla lounge music e dall'ambient. Se ne può avere eloquente dimostrazione dal coté ricercato dei quasi 7 minuti e 30 della stralunata Stereotypes ("Stereotipi", appunto, tanto per mettere ben in chiaro ciò che lui intendeva assolutamente evitare), impennata geniale quanto basta in cui convivono con studiata armonia  spunti latini, trombe spaghetti western, vibrazioni dub e contorsioni vocali indefinibili.
Non tutti i membri della band furono comunque concordi nell'appoggiare l'indirizzo caldeggiato da Dammers, e ciò comportò che molti di loro contribuissero al risultato finale portando in dote il loro personale vision thinking. Accade dunque che gli Specials del 1980 sfoderino con convinzione un vero arsenale di riferimenti: soul music, lounge, cabaret, psichedelia, musica mariachi, calypso, cha cha cha, beguine, bossa nova, reggae, proto trip-hop, autentica muzak. Questa la sorridente "bouillabaisse" che renderà così saporito uno dei dischi più esaltanti ed intelligenti, seppur misconosciuto per i più, scaturiti dal ribollente calderone new wave di fine anni '70.
A tenere accesa la fiamma dello ska resta comunque un pugno di canzoni tra le quali Hey Little Rich Girl che risulta, tra l'altro, la più convincente esercitazione di stile del lotto per le irresistibili pulsazioni ritmiche ed il piglio festoso coi quali sa irretire l'ascoltatore. Dovuta alla penna felice del chitarrista Roddy Byers, la canzone è una cartolina dai Caraibi contagiosissima ed ebbra di contorsioni in levare così com'è agghindata di tutti, ma proprio tutti, quei fuochi d'artificio fatti apposta per strappar sorrisi. L'attacco malandrino della chitarra di Byers che continuerà ad imperversare per tutta la canzone, un contrappunto di Hammond dalla movimentata cadenza, dei coretti doo-wop che si insinuano maliziosi nel pentagramma e, per non farsi mancare nulla, le scorribande del sax di Lee Thompson degli amici Madness, anch'essi freschi reduci dal loro secondo album Absolutely per i tipi della Stiff, chiamato a dare manforte.
Ancor oggi chiunque ascolti la canzone è costretto ad alzare bandiera bianca: non fa ovviamente eccezione un'artista attenta e sensibile come Amy Winehouse che si accolla l'ingrato compito di fuggire dal risaputo rivisitando una canzone già quasi perfetta così com'era. Infatti la adotta amorevolmente rimodellandola assecondando la propria indole e acconciandola secondo le proprie lune. Per prima cosa prepara il terreno rallentandone il passo e rendendo così il ritmo più fluido e meno aggressivo; come seconda mossa, gonfia l'arrangiamento allentando le briglie al sax e inducendolo a sfoggiare interventi incandescenti che sfiorano il nervo dell'eccitazione più sudata; non contenta, tesa a far risaltare certe qualità viscerali del suo canzoniere, gli affianca  pure una tromba per brevi incursioni sfoderate con grinta e meravigliosa "isteria"; infine, da consumata ed illuminata band leader, concede opportunamente un piccolo spazio a Zalon Thompson e Ade Omotayo, due suoi valenti coristi che, responsabili di veraci stimoli, eseguono con puntiglio gli ordini ricevuti e vanno ad incastonare un breve siparietto ammiccante al rap. Per il resto c'è tutto, l'organo che fa l'occhiolino all'acid jazz, la chitarra che furoreggia facendo slalom tra gli accordi e perfino i coretti "shoowacciu wari" che per nulla al mondo avremmo voluto fossero gettati alle ortiche.

You're Wondering Now

E tanto tuonò che alla fine piovve! Onestamente non sono riuscito a trovare incipit più felice per iniziare a raccontare di questo che può ormai definirsi un piccolo classico. Infatti, dopo aver lungamente disquisito di reggae, ska, Skatalites, Specials e del gusto che la Winehouse prova nel riproporre i ritmi irresistibili e le "vibrazioni positive" della musica di Giamaica, non saprei come meglio dare il là alla recensione di un brano nato dalla penna di uno dei padri nobili dello ska, ripreso dagli Skatalites, gruppo simbolo di tale musica, rilanciato dagli Specials, campioni riconosciuti della seconda ondata ska in Inghilterra, ed infine inserito nel repertorio di un'artista per la quale lo ska si adatta come una seconda pelle e che ha voluto ad accompagnarla in studio, dopo tanti omaggi e attestazioni di stima nei loro confronti, proprio un gruppo emblematico come gli "Speciali". Sembra l'apoteosi dopo un inesorabile crescendo. Ma andiamo con ordine.
C'è un momento preciso in cui Clement "Coxone" Dodds (Coxone deriva da Alec Coxon, stella dello Yorkshire County Cricket Club negli anni '40, cui a scuola veniva paragonato per la sua abilità nel gioco) prende piena coscienza della sua missione sulla Terra e del suo desiderio di legare il proprio destino alla musica giamaicana: è il 1953, quando 21enne passa un periodo negli stati del sud degli States dove familiarizza con blues e rhythm'n'blues venendone irrimediabilmente stregato. Rientrato in patria gli bastano un amplificatore, un giradischi e un pugno di vinili che si era procurato a New Orleans e Miami, per fondare il Downbeat Sound System. L'attività gli è molto congeniale anche perché lo riporta agli anni adolescenziali quando si divertiva a far ascoltare la musica ai clienti del negozio di dischi dei genitori a Kingston. Non per nulla dopo il Downbeat di sound systems ne nasceranno altri 4, per gestire i quali Dodds usufruirà dei servigi di gente come Lee "Scratch" Perry, Prince Buster e U-Roy, tutti destinati ad occupare un posto nella Hall Of Fame della musica dell'isola. Instancabile e pieno d'iniziative, nel 1959 fonda l'etichetta Worldisc e nel 1962 produce il singolo I Cover The Front per l'etichetta Port-O-Jam in cui suonano il sassofonista Roland Alphonso ed il trombonista Don Drummond di lì ad un anno membri della primissima incarnazione degli Skatalites. Nel 1963 apre lo Studio One, le cui pareti saranno privilegiate testimoni della primissima audizione di un giovane Bob Marley, e finalmente nel '64 compone e produce You're Wondering Now per il duo Andy & Joey.  
Non sono invero molte le notizie sui due giovanotti: a parte le generalità anagrafiche che li danno rispondenti ai nomi di Rueben Anderson e Joanne Dennis, sui due si è da sempre stratificata una coltre di mistero che solo i più tignosi e certosini fra i cronisti (categoria cui il vostro affezionato è ben orgoglioso di appartenere) sono riusciti, seppur parzialmente, a squarciare. Probabilmente a questo silenzio non è estraneo il fatto che ai due non è mai stata data l'opportunità di incidere un album, affidando il loro esiguo lascito ad una manciata di singoli incisi tra il 1962 ed il 1966 - che come si sa sono per antonomasia il supporto più effimero e volatile cui affidarsi - prima di essere reinghiottiti nei recessi della storia. Eppure i nostri avrebbero dovuto trarre vantaggio dall'essere parte della prima, pioneristica ondata dello ska; senza contare che fin dal '63, col singolo Cross My Heart, avevano instaurato un promettente commercio con la Island di Chris Blackwell, fresca di trasloco transatlantico al 108 di Cambridge Road. Ma tant'è. 
Rimane così agli atti la loro appartenenza all'orbita gravitazionale di Clement "Coxone" Dodds alle cui etichette - Studio One, Coxone's Music City e C And N Records - affideranno speranze e sogni di gloria. You're Wondering Now esce per la terza delle tre e con quel suo fascino grezzo reca nitido il segno dello spirito pionieristico dei tempi. Ci sono gli Skatalites al gran completo a fornir loro adeguato sostegno rimico, ma chi si aspettasse fuochi d'artificio e gymnicks strumentali rimarrebbe fortemente deluso. Qui è infatti tutto all'insegna della semplicità e della rilassatezza. A cominciare dal ritmo vistosamente rallentato, acconciato in maniera da portare la canzone in territori contigui al rocksteady o addirittura al calypso. Quanto alla registrazione, è decisamente lo-fi anche se piena di sentimento, con l'unica concessione al numero (si fa per dire) costituita da un insolito, breve solo di armonica in sostituzione dei canonici fiati.
Trascorrono 15 anni e la pratica You're Wondering Now passa agli Specials che la piazzano in chiusura del loro omonimo esordio del 1979. Il settetto di Coventry non getta alle ortiche il romanticismo di Andy & Joey anche se pensare a degli Specials romantici appare uno degli ossimori più clamorosi. Eppure accade. Jerry Dammers e compagni sistemano la canzone su un'amaca tirata tra due palme e si godono un momento di relax. Certo, non è un'elegia pastorale quella di cui stiamo parlando, ad ogni modo la chitarra di Rod Byers (Roddy Radiation per chi preferisce il nickname) rivela la mano felice dell'entertainer, il ritmo è affidato alla memoria dello sciacquio delle onde che muoiono su una spiaggia caraibica e perfino il cantato, per quanto possa sembrare incredibile, viene acconciato eliminando un bel po' di carta vetrata dalle ugole di questi impenitenti rude boys. 
Epperò il maquillage prevede anche un paio di novità - e nemmeno trascurabili - delle quali il dovere (ma è più che altro un piacere) ci impone di raccontare. Innanzitutto le tastiere di Jerry Dammers che, sfruttando le immense risorse del suo genio di capobanda, si impegna a rendere conto delle sue visioni elettro-tastieristiche arricchendo la canzone con proverbiali cadenze di un delizioso sottofondo d'organo; last but not least l'inusitato finale dove il ritornello, ripristinando il fantasma di arcaici rituali black, viene reiterato in un'insistita coda cantata a cappella.
Passano ulteriori 15 anni (senza dubbio casuale, ma curiosa la cadenza di questo intervallo temporale di tre lustri che intercorrono ogni volta tra una versione della canzone e la successiva) e nel 1994 tocca agli Skatalites ritornare sul luogo del "delitto" a distanza di 30 anni. Autentica istituzione della musica giamaicana, il gruppo dopo i primi due anni di attività - 1964 e 1965 - da il via ad una girandola di scioglimenti e ricostituzioni, nonché cambi di personale (anche a causa dei decessi di otto membri fondatori su nove, passati a miglior vita tra il 1969 e il 2012), che lo hanno portato con ferrea ostinazione a perpetuare fino allo stremo la gloriosa sigla e comunque ad essere attivo fino ai giorni nostri. Non è certo questa la sede adatta per affrontare un resoconto dettagliato delle intricate vicissitudini della band; qui semplicemente annotiamo come, dopo l'emigrazione negli Stati Uniti dei principali membri del gruppo avvenuta tra il 1985 ed il 1988, i nostri lì si ricollocano definitivamente e si accasano nel '93 presso la Shanachie, dal 1975 esimia etichetta protettrice di certi padri del folk celtico e approdata a reggae, soul, blues, country e jazz a partire dagli anni '80. Per loro pubblicano nel 1994 lo straordinario Hi-Bop Ska, album semplicemente inarrivabile dove, oltre a rivisitare le tappe salienti della loro lunga e travagliata carriera, vengono raggiunti da un favoloso parterre di ospiti prestigiosi che vanno da Toots Hibbert a Prince Buster, dal trombettista Lester Bowie al sassofonista David Murray al trombonista Steve Turre. Va da sé che con simili aiuti non poteva che scaturire un album memorabile. E così è stato. Hi-Bop Ska è come un enorme prato ubertoso su cui crescono fiori uno più bello dell'altro. Va anche da sé che in Italia non se l'è filato nessuno: del resto la Shanachie non è certo la Warner, né la Sony e nemmeno la E.M.I., con tutto quello che ne consegue. L'invito a farlo vostro appare dunque inevitabile. In caso contrario vi perdereste colpevolmente un'opera in cui l'incontro tra l'originario ska ed il jazz degli illustri ospiti diventa fusione, lo slancio partecipazione creativa. Quello che fa la tromba di Lester Bowie è un lavoro che ti annichilisce per quanto siano strabilianti le doti tecniche e la grande immaginazione esibite dal musicista (del resto chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il portfolio del compianto "dottore" sa di cosa si stia parlando), mentre la verve di Steve Turre, uno dei trombonisti principe del jazz statunitense, rende tangibile cosa significhi aver rivoluzionato la tecnica ed il linguaggio del glorioso strumento che fu di Kid Ory, Jack Teagarden, Bill Harris e J.J. Johnson, reinventandone la sonorità ed il disegno espressivo. Ma tutto l'album vola ad altezze che vanno ben oltre i confini dell'atmosfera rendendo godibilissimo ogni singolo istante. E' ciò che accade anche nella storica You're Wondering Now, il solo brano del lotto in cui compare la voce suadente di Doreen Shaeffer, oggi 81enne e unica sopravvissuta della mitica formazione originale. Fatta salva una registrazione cristallina, da anni '90, la canzone sostanzialmente non si discosta dal coté dell'originale, rendendo francamente pleonastica una descrizione nota per nota: qui si persevera infatti con la semplicità formale dell'antica dance song e si fa rilassato revival dei giorni gloriosi chez "Coxone" Dodds. Del resto, contro lo stress della vita moderna due palme, un'amaca ed una pina colada sono quanto di meglio in assoluto ogni "bipede" possa desiderare.
Per giungere alla splendida pagina della rendition di You're Wondering Now redatta da Amy Winehouse, gli anni necessari non son più 15 bensì "soltanto" 12. Presa da febbre d'amore l'artista non dimentica il gruppo che per primo, in quel ruggente finale di anni '70, aveva saggiato la resistenza di certo "bandismo" della tradizione ska all'impatto dei venti nuovi, e lo vuole assolutamente con lei in studio per una storica collaborazione. In quel momento gli Specials - ché è di loro che si sta parlando - non esistevano più; dispersi ai quattro venti e comunque costretti per motivi contrattuali ad usare nomi improbabili come Coventry Specials, X Specials e Specials 2 nelle estemporanee occasioni che li vedevano riuniti su qualche palco a rinverdire il proprio mito. Ma troppe erano state le attestazioni di stima, troppi i messaggini d'amore rivolti da Amy nei confronti di questi teppisti suburbani perché essi non rispondessero all'appello di questa artista dalla nobile tempra. E infatti i rude boys di Coventry rispondono presente. Il risultato dell'incontro al vertice è quello di un brano che parla una lingua festaiola, fisicissima, scattante, dall'ostentata piacevolezza che corre lungo la linea della ben nota orecchiabilità della canzone. Un infallibile buon gusto la rende irresistibile quanto basta, con gesti malignamente studiati per attaccar la corteccia cerebrale, con ansia di comunicare, di trasmettere immediatezza ed energia d'un suono che non ne vuol proprio sapere di cessare di spargere gioia. Come dire, no Amy, no party!

Some Unholy War (Alternate Version)

Con un artificio degno dei migliori prestigiatori, Amy si rivela drammatica balladeer disposta ad ogni struggimento e afflizione e riplasma Some Unholy War rileggendola in chiave (semi) unplugged. La voce è sofferta, ogni singola parola cantata è pensata, soppesata con cura, e il tono inclina al tormento, volgendo lo sguardo più alla Billie Holiday tragica di Strange Fruit che non alla Rickie Lee Jones soulful di Chuck E.'s In Love, come accadeva nell'accattivante versione mid-tempo.
Niente più bassi scanditi à la Ben E. King, dunque, accantonate le chitarre ritmiche magistralmente cadenzate in fremiti di grezza funkyness; qui, su di un ritmo da mortifero "bolero" che farebbe la gioia dei Cowboy Junkies più riflessivi, si distende una melopea che piega immagini, emozioni e sentimenti al lentissimo gioco della chitarra e a laconici tocchi di vibrafono, che brigano per quegli arabeschi e quell'accorata suggestione che fu del Tim Buckley più disperato, quello che imbrattava i solchi con le vernici scure di Lorca, e di certe anime perse come l'altro Tim che di cognome fa Hardin. Certo, un simile linguaggio rischia di cadere nella trappola del sentimentalismo, con tutti gli equivoci annessi e connessi insiti in una musica di tali connotati, ma l'artista schiva il pericolo mettendo in piedi una pagina di buona efficacia lirica e con un argot musicale di apprezzabili virtù che dimostrano il contrario.
Non è dato sapere se Amy avesse particolare predilezione per una delle due versioni. Il fatto però che in concerto alla versione per così dire malinconica facesse seguire, per un vezzo tutto suo, quella più briosa, quasi a voler procedere in una sorta di crescendo wagneriano, ci rende inclini a pensare che il suo cuore battesse allo stesso ritmo per entrambe. Prendiamo atto.

Love Is A Losing Game (Original Demo)

Trovo molto azzeccata la scelta di chiudere il dossier Back To Black con l'inaspettato recupero del demo originale di Love Is A Losing Game. Chi scrive ha sempre adorato rovistare nei cassetti dimenticati della discografia alla ricerca della genesi delle cose, quell'andare alla scoperta del dove, del quando e del come le storie avevano avuto inizio. Può essere quindi facilmente immaginata la gioia che pervade l'incartapecorito cuore di vecchio rocker del vostro umile scriba, oggi che tale pratica è diventata prassi consolidata grazie al saccheggio sistematico degli archivi che trova concreto sbocco commerciale nella pubblicazione di cofanetti, deluxe editions, alternate takes e quanto il mercato mette a disposizione degli "studiosi".
Con Love Is A Losing Game possiamo godere del privilegio di tornare idealmente al magico momento in cui la canzone viene fissata per la prima volta su nastro, sfrangiata da ogni orpello. Qui si fa infatti un fascio unico dei jazzismi, degli influssi soul, delle fascinazioni ska per recuperare l'essenza della canzone, la sua anima messa a nudo e scarnificata.
Amy Winehouse voce e chitarra. Un "titolo" da incidere con lettere d'oro zecchino sulla copertina del gran libro della malinconia. Un suono rado, quasi incerto, incespicante, e una voce dolente e intensissima, che ha il profumo dei più tristi anni '50 vissuti dalla Billie Holiday di fine carriera. Di fine corsa. Di fine vita. Un sound dall'intransigente purezza, distante come non mai dagli accattivanti "tricks" in chiave di jazz, di soul e di pop. Eppure ancora una volta, come sempre, capolavoro. 

                                                      Mauro Rollin' On The River Uliana
               



       

editoriale

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