martedì 19 settembre 2017

Lucy In The Sky With Diamonds - Beatles (1967)





Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è il più importante album di rock’n’roll mai realizzato, un disco senza paragoni per concezione, suono, composizione, grafica di copertina e tecnologia di studio da parte del più grande gruppo pop di ogni tempo. John, Paul, George e Ringo non furono mai più tanto intrepidi e uniti nella loro ricerca di magia e trascendenza. Sgt. Pepper inaugurò un’indimenticabile stagione di speranza e conquiste: i tardi anni ’60 e, in particolare la Summer Of Love del 1967. Con la sua strumentazione iridescente, le fantasie liriche e una confezione fantasmagorica, Sgt. Pepper definì il rivoluzionario ottimismo della psichedelia e diffuse all’istante in tutto il mondo un vangelo di amore, acido, spiritualità orientale e chitarre elettriche. Nessun altro disco di quel periodo, o successivo, ha avuto un impatto così immediato e titanico. I 13 pezzi di Sgt. Pepper segnano l’apice degli otto anni di Beatles come artisti in sala d’incisione e tra i tanti splendidi tasselli che compongono questo straordinario puzzle abbiamo deciso di scegliere per rappresentarli tutti, impresa quantomai complicata, Lucy In The Sky With Diamonds, topico affresco che assume i contorni a metà fra Alice Nel Paese Delle Meraviglie e un trip andato a male. Buona lettura.




Fra pochi mesi saranno più di *****anta anni (mi sia consentita la civetteria di una certa evasività sulle date, anche se non ho mai condiviso il punto di vista del Pete Townshend giovane, secondo cui sarebbe meglio sperare di morire prima di diventare vecchi), saranno più di *****anta anni, dicevo, che “traffico” con la musica. Amatorialmente finché volete, ma 52 anni (ecco, alla fine l’ho detto!) son pur sempre 52 anni. Ebbene, mai mi ero trovato tanto in difficoltà a cominciare un recensione come questa volta. Generalmente mi basta un buono spunto iniziale, una conclusione che contenga un minimo di teatralità (certo… e perché no?) e tutto quello che sta nel mezzo tracima poi piuttosto copioso da un personale universo interiore che mi si rivela man mano che vado avanti e che il più delle volte nemmeno immaginavo esistesse. D’accordo: questa che vi accingete a leggere è la recensione di un brano importante, contenuta in un album considerato dai più “il” più importante, opera di un gruppo smisuratamente importante. E’ timore reverenziale, il mio. Non ci sono dubbi. Ma insomma, di draghi e mostri sacri ne ho già affrontati più di qualcuno, riuscendo perfino a tirare fuori qualcosa di sensato. E’ che non si sa proprio da dove partire, nonostante il dannato vantaggio (ma è davvero così?) di trovarsi alle prese con una storia straconosciuta, per raccontare di Lucy In The Sky With Diamonds, che fù uno degli highlights di Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band e proprio per questo una canzone su cui sono stati scritti oceani di inchiostro, rendendo letteralmente impossibile estrarre dal cilindro il coniglio di qualche rivelazione inedita. Cosa che non accadrà nemmeno in queste righe. Il solo obiettivo che quindi qui mi propongo è quello della massima completezza di cui sono capace e di rendere quei pochi minuti necessari per arrivare alla fine il più 
possibile piacevoli per il lettore.
L’album del Sergente Pepper non fu un big bang, non comparve così, d’acchito, come un lampo di luce che improvvisamente ci appare schivando le nuvole in una notte di plenilunio. A ben guardare non fu neppure l’album della svolta, come vorrebbe il luogo comune; ché per  tale titolo bisognerebbe forse guardare a Rubber Soul. Infatti, forse mai come nel caso dei Beatles, l’abusata espressione di work in progress riferita ad opere temporalmente consecutive potrebbe attagliarsi con tale perfezione. Sicuramente Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band resta uno dei cinque album dei favolosi sixties (gli altri quattro essendo la banana dei Velvet, Are You Experienced? di Jimi Hendrix, Pet Sounds dei Beach Boys e Blonde On Blonde di Dylan) di cui è impossibile sopravvalutare l’importanza; e sicuramente rimane il manifesto di un nuovo modo di concepire non solo la musica ma anche lo studio di registrazione, vero e proprio sesto membro del gruppo; il quinto era l’immenso George Martin, il Rasputin dei suoni senza il quale i Beatles non sarebbero stati quelli che oggi conosciamo e Sgt. Pepper non avrebbe potuto essere, quale è, l’apice massimo mai raggiunto da nessun’altra figura musicale sul globo terrestre. Sentite a tal proposito Geoff Emerick, l’uomo per il quale i cursori del mixer erano semplicemente un prolungamento delle dita: “Tutto su Pepper, voci e strumenti fu elaborato in qualche modo.  L’approccio tecnico fino a quel momento praticamente prevedeva che questo fosse impossibile, perché sulla carta sembrava orrendo! Eravamo soliti usare come termine di paragone, senza alcuna mancanza di rispetto, i metodi della BBC: in quell’ambiente se durante un programma una voce risultava sibilante qualcuno avrebbe sicuramente passato dei guai! Le cose che combinavamo ai tempi di Pepper erano terribili e non sarebbero mai state permesse dalla EMI diciotto mesi prima. Spingevamo le apparecchiature fino al limite”. E ancora: “Tecnicamente Pepper risulta l’album migliore, sapendo quello che abbiamo passato. Voglio dire che, sebbene fosse abbastanza laborioso e oggi non è neanche più possibile, ogni volta che cambiavamo il nastro o copiavamo qualche pista tutto veniva meticolosamente allineato e ritarato. Oggi, con venti piste in analogico questo non si può fare: nessuno si metterà ad allineare venti piste ogni volta che mette su un nuovo nastro, persino con le macchine della Ampex che lo fanno automaticamente. Nessuno se ne preoccupa più. Ma bastava un po’ di disciplina, non era così difficile, e questa è l’unica strada che abbiamo seguito per mantenere costante la qualità dell’album. E’ ancora il lavoro di cui sono orgoglioso e che mi da più emozione”. “Su Pepper ci permettemmo il lusso di utilizzare una traccia per sovraincidere il basso in alcuni brani. Non posso ricordare esattamente dove e quali perché spesso lavoravamo incidendo in contemporanea sulle quattro piste, ma non sempre. In genere aspettavamo la fine delle session e poi Paul sovraincideva tutte le parti di basso. Usavo un microfono C 12 a valvole sull’amplificatore di Paul, a volte con diagramma polare a figura di otto, a volte ad una distanza di due o tre metri, che lo crediate o meno. Le chitarre non sono state registrate in diretta fino ad Abbey Road. Io sono sempre stato contro perché il suono ottenuto mi sembra insipido e non viene fuori la potenza dell’amplificatore. Sebbene sia ricco di segnale il timbro è poco definito, ma immagino che questo vada ad appaiarsi al suono transistorizzato dell’epoca attuale”.
Con Pepper gli “Scarafaggi” raggiungono una stratosfera accessibile solo a loro e il risultato sfocia nella magia. Il disco nella sua esplosione di colori fu l’apice di un’esperienza umana e artistica senza paragoni e con esso i nostri licenziarono una straordinaria opera che ha avuto un impatto sulla cultura musicale dei sessanta, e non solo, difficile da calcolare, teso com’era a mettere insieme ricerca, tecnica, bellezza con la più (apparentemente) futile delle arti: il pop. Sgt. Pepper viene pubblicato dopo un lavoro di 129 giorni e quasi 700 ore di registrazione, effettuate quasi interamente nello Studio Due della EMI, per una spesa di circa 25 000 sterline. Ne valse certamente la pena. George Martin: “Sono sempre stato io in larga parte il mio boss alla Parlophone e sempre abbastanza individualista; e sebbene non abbia mai avuto molto denaro a disposizione ho raggiunto comunque i miei scopi, anzi direi che la EMI mi ha permesso di raggiungerli. Per cui quando si arrivava alla pianificazione ero io ad avere l’ultima parola. Se volevo passare cinque mesi nella realizzazione di un album stava a me deciderlo. Il mio collo sarebbe stato sul ceppo del boia se non avessi avuto successo ma ce la facevo, per cui non c’erano problemi. Sono sicuro che ci fu del panico negli uffici della EMI quando ci prendemmo quattro mesi per registrare Pepper ma nessuno poteva dirmi niente o minacciarmi perché avevo il potere di farlo”.
L’approdo a quest’album seminale fu una strada lastricata di steps che si affastellarono uno sull’altro in un mosaico di canzoni che erano la colonna sonora di una vicenda che ha rivoluzionato il costume e la storia della musica. Non volendo, per ovvie ragioni di spazio, risalire fino alla preistoria di Love Me Do, mi limiterò a restringere il campo partendo da Rubber Soul, primo capitolo della trilogia psichedelica beatlesiana, pubblicato nel dicembre 1965. Anello di raccordo tra le deliziose ciliegine pop della prima fase e lo sperimentalismo dei successivi capitoli, Rubber Soul fù un turning point di fondamentale importanza per il concetto universale di pop che canzoni come In My Life, Norwegian Wood, If I Needed Someone, Michelle e Girl ebbero la capacità di forgiare ex-novo. Ma non è solo la musica a subire definitive mutazioni. Già dalla copertina si ha il segno dei tempi nuovi: i volti dei quattro si allungano, la grafica si sforma (e per la prima volta nella storia, credo, il nome del gruppo non compare sulla busta) e la psichedelia irrompe senza mezzi termini né tante cortesi cerimonie nell’immaginario dei suoni. Fu uno dei capolavori beatlesiani, un promontorio da cui guardare con superiorità la popular music, consapevoli di trovarsi su una delle vette più alte. Con questo disco i Baronetti freshi di nomina dividono esattamente a metà i loro favolosi anni ’60. Guardandosi alle spalle possono rimirare una sequela di brani canticchiati in ogni angolo di un globo terraqueo che hanno già parecchio contribuito a cambiare. Hanno fatto amicizia con Bob Dylan e con la marijuana. Hanno jammato con Elvis. Hanno appena provato l’LSD. Il futuro appare illimitatamente ricco di possibilità. Le coglieranno tutte.
Non passa nemmeno un anno e il 5 agosto 1966 la sacra trimurti (giova senz’altro ricordare che secondo la lista della rivista Rolling Stone dei migliori 500 album della storia Sgt. Pepper è al 1° posto, Revolver al 3° e Rubber Soul al 5°) approda al secondo capitolo. Le 14 canzoni contenute in Revolver, che ci traghettano verso Sgt. Pepper, sono la testimonianza dello sviluppo definitivo di una concezione della musica, soprattutto in studio (anche perché è a quel momento che risale la decisione dei Fab Four di farla finita con i concerti dal vivo), che da quel momento non sarà mai più la stessa. Si va dalle struggenti e intensissime For No One e Here There And Everywhere di Mc Cartney, che qui ci consegna le sue fughe capolavoro, all’orientalista Love You To e la rockeggiante Taxman di Harrison; dalla filastrocca di Yellow Submarine, cantata da Ringo, all’ R&B di Got To Get You Into My Life; dall’indolenza psichedelica della lennoniana I’m Only Sleeping alla summa lisergica di Tommorrow Never Knows e quella sinfonico-cameristica di Eleanor Rigby. Un lavoro di significativo trapasso e vero e proprio happening creativo che lo scorrere del tempo non è riuscito a scalfire.
Così, dopo aver esplorato ogni anfratto della forma canzone i Beatles, con la pubblicazione il 1° giugno 1967 di Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band, toccano la vetta più alta con l’album mito. Cinque dei tredici movimenti (ché chiamarle canzoni ci apparirebbe riduttivo) qui offertici, compresa la Lucy In The Sky With Diamonds oggetto della nostra analisi, entreranno nella memoria collettiva; gli altri sono la title track, che entrerà in pianta stabile nel repertorio di Jimi Hendrix, l’accorato dramma famigliare di She’s Leaving Home, ridisegnata con pennello jazz da Al Jarreau, With A Little Help From My Friends, resa immortale icona woodstockiana da un immenso Joe Cocker e A Day In The Life, sontuosa mini suite psichedelica in due movimenti.
Mentre per gli altri quattro ci ripromettiamo di ritornare in un futuro (sempre che nostro Signore ci riservi sufficiente vita da vivere), qui ed ora ci soffermeremo, come da nostro intento programmatico, su Lucy In The Sky With Diamonds, canzone di pura goduria sonica e fascino oppiaceo che vola maliosa in una dimensione parallela fatta di incanto e torpore. Il pezzo è puro John Lennon, l'esplosione del suo  lato più surreale e squisitamente letterario, influenzato non soltanto dai testi cardine della cultura psichedelica (Alpert, Leary, Huxley), ma anche dalle favole strampalate di Lewis Carroll. John ci regala un brano cangiante, scosso da dissonanze e cambi di tempo, in un meraviglioso gioco di contrasti, con la delicatezza quasi eterea della sua voce che si dipana in un vortice d’estasi che avvolge il brano in un suono attufato che ne aumenta oniricità e quieta paranoia. Praticamente una versione psycho del Nick Drake di Pink Moon che sotto un cielo tutto rosa esce a cena – menù di funghi, ovviamente – con i Pink Floyd più barrettiani. Dopo averla ascoltata – ammesso che non l’abbiate mai fatto prima – allora sì che anche voi penserete in rosa… e anche in violetto, indaco, beige, porpora…
Strano periodo la fine degli anni ’60. Strano e straordinariamente ricco di creatività e fantasia, stimolata come mai in precedenza dall’uso delle droghe. Lucy In The Sky With Diamonds appare come il paradigma di quei giorni irripetibili. Ma se per il tormentone sull’acronimo (LSD) vi riserverò qualche riga un po’ più in là, qui mi preme molto di più soffermarmi sui  toni allucinati e fantasiosi  della canzone e sulle tecniche adottate per ottenerli.  La fantasia, la ricerca sui suoni, la scoperta di strumenti inusitati. Continuava così la riforma del pop universale, portata avanti senza ribaltare i suoi meccanismi interni ma corrodendoli in progressione a colpi di invenzioni armoniche, strumentali, liriche e tecnologiche. Tutto questo irrompe fin dalla primissima nota suonata nel brano, quel chioccio e sognante  vibrato d’organo suonato da Paul che non è l’Hammond RT-3 o L-100, come per tanti anni hanno scritto gli esegeti, bensì un inedito Lowrey Heritage DeLuxe, tastiera più piccola e maneggevole capace di quel suono da futuristica celeste, una delle bucce più colorate con cui ricoprire una canzone, che  verrà usata anche in Being For The Benefit Of Mr. Kite. Non meno caratterizzante la chitarra di John filtrata al Leslie e il suo canto reso più acuto rallentando il nastro per conferire alla sua voce “una qualità leggermente da Mickey Mouse”, per dirla con George Martin.  Ma se parliamo di tentativi più ricchi di estro e intensi di intendere la scittura pop, non va dimenticato George Harrison che aggiunge colore al brano con una tambura, strumento della tradizione indiana introdotto in nome della  mescolanza fra musiche orientali e occidentali che troverà la sua apoteosi nel magico orientalismo di Within You Without You. La fredda cronaca ci racconta che di tutto l’alambicco fiorito di Sgt. Pepper, Lucy In The Sky With Diamonds fu uno dei brani più veloci ad essere registrati: molta dovette essere l’urgenza espressiva e l’eccitazione se una sera per la base ritmica, 1° marzo, e una per le sovraincisioni, 2 marzo, furono sufficienti a fissare la canzone sulla lacca, anche se il 28 febbraio il terreno era stato dissodato da tutta una serie di prove libere che avevano impegnato i musicisti per diverse ore.
Quel che ne venne fuori è il sogno colorato di un capolavoro che mette in mostra tempra melodica e un basso ubriaco, alternati a strati sonori di un pop andante con brio. In pratica due canzoni in una. Oltre forse non si poteva andare. Come però ben sanno i numerosi cultori dei Fab Four, l’epopea di Sgt. Pepper, e di Lucy In The Sky With Diamonds in particolare, non fu, a ben vedere, una tranquilla passeggiata sotto il sole, bensì un viaggio da subito contrassegnato da passaggi chiaroscurali. Piccole macchioline che comunque non riuscirono in alcun modo ad inficiare la bellezza del quadro d’insieme. Qualcuno infatti arrivò addirittura a lamentarsi del semplicismo messo in mostra nel minimale e brusco passaggio tribale della batteria di Ringo, che dalle sognanti atmosfere psichedeliche in 3/4 introduceva la parte centrale della canzone in rock 4/4. Il peggior passaggio di batteria dell’anno, secondo costoro. A ben guardare (anzi… ascoltare) e a voler cercare nell’uovo il classico pelo, non si può negare che il buon Ringo ha saputo dare dimostrazioni ben più probanti del suo magistero percussivo durante la sua lunga carriera. Ma tant’è. Il dibattito è aperto.
Chi non si porrà problemi di sorta sarà  Elton John che nel novembre del ’74 metterà in scena una rendition della canzone di quasi 6 minuti, dall’arrangiamento di zucchero filato e bolle di sapone in cui l’accumulo di minuzie sinfoniche e lussureggianti sonorità va di pari passo con sublimi passaggi. Anche quello (indovinate un po’!) che fa da spartiacque alla canzone e che tanti strali aveva addensato sulla testa del povero Ringo. Una cover, quella di Elton John, sicuramente più rispettosa dell’originale di quanto non faranno nel ‘92 quei burloni dei Big Daddy nella scombicchierata rilettura dell’intero Sgt. Pepper, dove Lucy In The Sky With Diamonds subisce una delirante terapia di invecchiamento tanto da trasformarla in un’esilarante sorellina di Great Balls Of Fire. Giunti a questo punto, credo che il mio limitato sapere non mi permetta di andare oltre e…. Odo una voce… Uliana!!! Non è che ti stai dimenticando qualcosa? Bé, sì, ecco, insomma… accidenti a voi! Lo so che per me è arrivato il momento di affrontare, anche se con scarsissimo entusiasmo, il tormentone dell’acronimo che si ottiene dai tre sostantivi del titolo: Lucy Sky Diamond = LSD. Ma potendo onestamente dire di essermi sempre divertito con le leggende e gli aneddoti che da sempre hanno condito la grande favola del rock‘n’roll, posso altrettanto onestamente dire di avere sempre nutrito per certe voci al limite del gossip un’idiosincrasia sconfinante nella repulsione fisica. Ma tant’è. Spero solamente che mi serbiate un minimo di riconoscenza per la mia ferma intenzione di risparmiarvi particolari sull’altra panzana sesquipedale che proprio in quei giorni stava circolando attorno ai quattro di Liverpool: quella di un Paul McCartney improvvisamente deceduto in un incidente stradale e sostituito in tutta fretta con un sosia. Che assurdità!
Certamente anche il lettore più giovane e inesperto di Lucy In The Sky With Diamonds conosce, almeno a grandi linee, la vicenda:  la canzone è probabilmente quella che ha ingenerato più controversie di tutte nel brave new world creato dai baronetti. Il suo titolo venne interpretato come un'allusione all’LSD e, va da sé, un’indiretta istigazione a farne uso. Ciò era maxima culpa per quei quattro ragazzotti che tutti ricordavano ancora con le loro belle divise e i capelli, lunghi ma in fondo non cosi tanto, pettinati alla perfezione e che sembravano fatti apposta per conquistare tanto l’adorazione delle ragazzine quanto la fiducia delle loro madri. Ma il gruppo alter ego della Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepper era ormai anni luce dai Beatles, da quei zazzeruti giovincelli inglesi che il fatidico 7 febbraio 1964, salutando i cinquemila ragazzi e soprattutto ragazzine (avanguardia dei settantatré milioni che due sere dopo li seguiranno all’Ed Sullivan Show) che li stavano trepidamente aspettando, scesero la scaletta del volo PA-101 della Pan-Am, atterrato all’aeroporto di New York che già si chiamava Kennedy. Facevano fatica ormai ad apprezzare il primo suono che udirono quel giorno prima ancora di toccare il suolo americano. Non un blues, non una country song, non il Bob Dylan di Blowin’ In The Wind, né il surf dei Beach Boys e neppure una soul ballad di Smokey Robinson, bensì il vero suono simbolo del decennio favoloso per antonomasia: l’altissimo urlo isterico di quelle ragazzine immortalato in tele e cinegiornali visti e stravisti millanta volte. Gli autori di adolescenziali canzoni d’amore si erano evoluti, andando a cercare sempre con più insistenza il lato oscuro dei sentimenti e della vita, fino a crearsi un personalissimo panorama letterario e musicale fatto di disillusioni e paesaggi chimicamente alterati. Inoltre si erano definitivamente scocciati della riduzione di ogni loro tour, di ogni loro concerto a moderno freak show, giustamente feriti dal fatto che la loro evoluzione non potesse bucare quel compatto muro d’isteria. Smisero di esibirsi dal vivo e da quella decisione nacque il seme di un ulteriore incrementarsi dell’inaudita originalità del loro lavoro. Lucy In The Sky With Diamonds è uno dei più succosi frutti generati da quel seme. Canzone sulla droga? Può essere. E se anche fosse? Quel che conta è che sia stramaledetta e meravigliosa poesia.
Lennon si sarebbe comunque sgolato per tutta la sua breve esistenza fino allo sfinimento nell’intento di smentire i fastidiosi rumours sulla canzone. E cinquant’anni dopo sarebbe saggia cosa credergli. Dimostrava insofferenza nelle interviste in cui gli chiedevano di avvalorare quei riferimenti all’acido e perlopiù parlava sempre con riluttanza di Lucy In The Sky With Diamonds. Era una delle tante canzoni di Sgt. Pepper che trovava geniali sul pentagramma e poi realizzate male, paradigmatica ode della sua insoddisfazione. Ricorda George Martin: “Nella musica John Lennon andava sempre in cerca dell’impossibile, dell’irraggiungibile. Non era mai soddisfatto. Una volta mi disse, in una della serate passate assieme a ricordare: ‘Lo sai , George, niente di ciò che abbiamo fatto mi è piaciuto veramente’. Io risposi: ‘Veramente John? Ma tu hai realizzato dischi fantastici!’. E lui: ‘Beh, se potessi rifarli tutti da capo lo farei’.”.
E tornando alla questione di Lucy In The Sky With Diamonds quale apologia degli acidi, così avrebbe raccontato a David Sheff in un’intervista a Playboy del 1980:  “Le immagini del testo venivano da Alice nel Paese delle Meraviglie. Quando Alice è sul battello, compera un uovo e si tramuta in Humpty Dumpty. La commessa del negozio si trasforma in una pecora e l’attimo dopo insieme stanno discendendo un fiume in barca. Nel testo c’era anche l’immagine di una donna che un giorno sarebbe venuta a salvarmi scendendo dal cielo – ‘a girl with kaleidoscope eyes’. Quella donna era Yoko, per quanto Yoko ancora io non l’avessi conosciuta a quel tempo. Il titolo giusto dovrebbe essere quindi ‘Yoko In The Sky With Diamonds’.” Altresì spiegò più volte che questa canzone gli era stata ispirata da un disegno del suo figlioletto Julian che porgendogli il foglio con l'elaborato gli disse: "Guarda papà... Lucy in the sky with diamonds!".
Il testo comunque incrementa in maniera esponenziale l’aura psichedelica della musica con coloratissime immagini di sfrenata fantasia (gli alberi di mandarino e cieli di marmellata, i facchini di plastilina con cravatte a specchio, i taxi fatti di carta di  giornale, i fiori di cellophane) da cui trarranno ispirazione anche i Traffic di lì a qualche settimana per il loro trip psichedelico Hole In My Shoe. Non stupisce, dunque, se la bacchettona BBC, per non saper né leggere né scrivere, decise che, non solo Lucy In The Sky With Diamonds, ma anche il resto  delle canzoni del Sergente Pepper erano un inno alla droga, e senza pensarci troppo sù pensò bene di bandire l’intero album dalla sua programmazione. Una vicenda che ai nostri giorni suonerebbe semplicemente inconcepibile.
La storia ufficiale della canzone, alla quale Lennon ha tenuto fede fino alla morte, depurata da ogni orpello dietrologico e suffragata anche dalla testimonianza di Ringo che afferma di essere stato presente all’episodio, sarebbe comunque la seguente: Julian, il figlio di John nato dal matrimonio con Cynthia Powell, un giorno del 1967 tornò a casa dall’asilo con un vivace disegno multicolore. Quando il padre gli chiese lumi sul significato di quell’infantile scarabocchio, rispose “Lucy in the sky with diamonds”. Lucy era Lucy O’Donnell (deceduta nel 2005 all’età di 47 anni), una sua amichetta di asilo alla Heath House School che solo anni dopo avrebbe scoperto di essere la protagonista della canzone. Papà John fu tanto orgogliosamente affascinato dal talento artistico del figlioletto da costruire sopra il disegno una canzone dai toni visionari e immaginifici che chiamò con l’incantevole titolo suggerito dal bambino. E questo e tutto.
And In The End, voglio qui concludere con un episodio e alcuni dati di cronaca che ci consegnano intatta l’innocenza meravigliosa, irripetibile, di quegli anni ’60, di quel mondo in bianco e nero che improvvisamente diventava a colori come la copertina di Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Una volta terminato il disco, i Beatles piombarono a casa di Mama Cass Elliott dei Mamas & Papas, spalancarono le finestre del suo appartamento di Chelsea e diffusero il suono di Sgt. Pepper per tutto il quartiere. Da Chelsea al resto di Londra e poi del mondo. Negli Stati Uniti, la pubblicazione dell'album a giugno diventò l’evento culturale dell’anno, con le radio letteralmente impazzite e una folla di colleghi musicisti di chiara fama ad ascoltarlo estasiati giorno e notte. La stampa, e non solo quella musicale, nel frattempo già parlava di un momento determinante nella storia dell’occidente. Una volta tanto non esagerarono.
In fondo, se pur costretti a vivere nell’assurdità di un mondo dove i Fab Four sono rimasti Two, di Beatles si continuerà a parlare fin quando una vestigia di civiltà occidentale sarà in piedi, che è come se fossero eterni, come se vivessero in una bolla tutta loro, insieme prodotto e artefici della loro era come nessuno prima o dopo e totalmente fuori dal tempo. Consapevoli che non di santi si tratta, ma di fallibilissimi, ancorché straordinariamente geniali, esseri umani. Non per smitizzare ad ogni costo, ma per voler loro dopo, se possibile, ancora più bene.

Mauro Rollin' On The River Uliana







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