giovedì 28 settembre 2017

Can't You Hear Me Knocking - Rolling Stones (1971)


Si apre con uno dei riff più spettacolari della storia del rock per continuare con un groove che si purifica in un rhythm ‘n’ blues evoluto, con lo stratosferico assolo di Bobby Keys che col sax offre spettacolo puro e con la chitarra di Mick Taylor che si materializza in epica gloria. Nel suo infilare numeri da brivido un dietro l’altro come perline su un filo, Can’t You Hear Me Knocking è un’autentica festa per le gambe e le orecchie, ma tutti quanti i sensi e i sentimenti avranno il loro da fare passeggiando lungo tutto Sticky Fingers, senza tema di smentita uno degli album manifesto del rock. Un disco che meglio di tutti condensa l’idea di sex & drugs & rock ‘n’ roll secondo una rappresentazione ormai statica come uno stoccafisso ma proprio per questo ancora efficacissima. 


“Cazzo, se mi piacciono i Rolling Stones. Mick e Keith erano i più figli di puttana del quartiere ed è da lì che vengo fuori io”. (Steven Tyler degli Aerosmith). Non saprei cos’altro fare se non sottoscrivere e condividere senza se e senza ma l’ardente passione che il cantante del gruppo bostoniano (assieme al compare Joe Perry) nutre per la band dei Glimmer Twins. Diciamo, per usare un eufemismo, che qualche sospetto era circolato e la dichiarazione d’amore non sorprende più di tanto. La dice lunga il fatto che durante i loro anni più autodistruttivi e, diciamo così, lisergici, i due pards si guadagnarono sul campo (e a ragione, non so se mi spiego) il nomignolo parafrasato di Toxic Twins.Del resto, vorrei tanto sapere a chi non piace la gang di Jagger e Richards; cinque (quattro dopo il forfait di Bill Wyman) (1) cattivi maestri che hanno giocato la loro partita tra sarcasmo e schiuma in bocca, tenendo stretta tra i denti una consapevolezza e una lucidità che andavano di pari passo alla smania terribile che li divorava di non lasciarsi prendere, di realizzarsi proiettando l’anima nella musica. Grandissimi figli di buona donna, sembra proprio che per loro ben poco importassero i significati rotolanti; ciò che aveva da esistere era la collocazione, l’iconografia personale, il gusto mordace di essere un passo oltre. Un’immagine dura, cinica, da teppisti, un po’ romantici e molto rozzi. Un immagina fatta apposta per accendere la curiosità e la fantasia di un giovane e palpitante rock’n’roll heart di provincia come il sottoscritto; per blandirlo come sirene ammaliatrici e poi tramortirlo con i ganci irresistibili di una musica al cui cospetto altro non si poteva opporre che la bandiera bianca di una resa incondizionata.
Come muovere il culo sul palco lo avevano imparato da Elvis e Little Richard e come giocare con oltraggiosi doppi sensi lo appresero leggendo i “sacri” testi delle canzoni con cui Muddy Waters, Willie Dixon e Bo Diddley tagliavano l’aria satura dei fumi di whiskey e birra nelle bettole di Chicago. Questo malsano blend fu sufficiente a minare la quiete della borghesia inglese, comprensibilmente allarmata dal viscerale e arrogante rifiuto e dallo scandaloso antagonismo, preludio di violenza e dirty works, di cui i cinque street fightin’ men si facevano portatori e paladini. “Permettereste a vostra figlia di uscire con un Rolling Stone?”: questo lo slogan più in auge tra i membri del servizio d’ordine socio-familiare. Se infatti attorno al fenomeno dei quattro baronetti di Liverpool potevano esistere margini, se pur minimi, di comprensione, nei confronti del ragazzo col labbrone e dei suoi sodali il rigetto e l’avversione erano netti: un crocifisso e un mazzo d’aglio, più un paletto di frassino da conficcare nel cuore dei cinque vampiri assetati di sangue.
Non esistono dubbi sul fatto che gli Stones esercitarono sui giovani loro contemporanei un influenza ed ebbero un impatto che facevano il paio con quello di eroi del grande schermo come il James Dean di Rebel Without A Cause e il Marlon Brando del Selvaggio. Non furono solo degli impenitenti monellacci, i Rolling Stones. Furono anche dei rabbiosi guerriglieri che arroventarono il clima durante quei cinque minuti in cui il rock’n’ roll parve pericoloso per davvero.  Primi portatori sani di un dissenso che avrebbe riservato loro una felice e diuturna collocazione in un ipotetico pantheon degli eroi malefici. Furbescamente consci che la loro immagine dannata avrebbe costituito un “culto” difficile da smantallare.
Altresì non esistono dubbi sul fatto che gli sporchi Rolling Stones, musicalmente parlando, abbiano da sempre ostentato una mancanza di originalità, un’ortodossia con cui hanno costruito uno stile dallo zoccolo duro, una trafila di riff (Riff Richards ca va sans dire)  e schitarrate stradaiole, nonché di dolenti ballads, tuttora distintive di un artigianato rock crudo e vissuto. Una reputazione di purezza profonda e assoluta autenticità che la loro striminzita e volgare sintesi del blues si portava appresso, paradossalmente assecondata da una fama da delinquenti. Nomea che meglio non si sarebbe potuta attagliare ad una band che avrebbe avuto come marchio di fabbrica una linguaccia rossa e velenosa. 
E’ vero, è successo tutto nei sixties, ma anche il decennio successivo, tra discese ardite e risalite, è stato un periodo ricchissimo di eventi e tutt’altro che privo di esaltanti empirei. Decennio vero e fiammeggiante, dunque, e non dei qualunque sucking seventies (come con impagabile autoironia sentenzia una loro compilation datata 1981) in cui sfangarla nella maniera meno imbarazzante possibile. C’è qualche farneticante integralista per il quale gli Stones avrebbero fatto meglio a sciogliersi dopo Exile On Main Street, ma sapete che gliene frega a Mick e Keith delle chiacchere che scorrono insieme alla birra sopra il bancone del bar di questi sputasentenze. Costoro sproloquiano. Loro fanno. Per fortuna sono molti di più quelli che ancora non si suicidano per non perdersi un nuovo disco od un altro concerto dei Rolling Stones. Ma li avete visti la scorsa settimana live in Lucca? Gente che ha superato le settanta primavere a velocità sovrumane ed e è ancora lì a sculettare sul palco con un’energia che non solo vostro nonno ma neanche vostro padre non osa nemmeno sognare. Del resto, come si dice? “Cos’altro potrebbe fare un povero vecchietto, se non suonare in una rock ‘n’ roll band?” 
E’ altresì vero che il gruppo eversivo è diventato un istituzione, i loro concerti sono eventi di pantagruelica grandeur a spasso per il pianeta, dove non succede più nulla da anni: né risse tra i fans, né cariche della polizia, né accoltellamenti. Ma Dio santo, esiste qualcosa di più rock ‘n’ roll che suonare rock ‘n’ roll per tutta la vita, a settant’anni e poi a settantacinque e ancora oltre? E dunque, diciamolo, quella degli Stones oltre i sixties resta comunque un gran bella storia che offre mille spunti di riflessione. Eppoi, chi siamo noi per stigmatizzare? Che ne sappiamo di come si fa a resistere agli eccessi, ai paradisi artificiali e agli inferni reali, a vivere spalla a spalla con le stesse facce per così tanto tempo? Bisogna viverla quella vita, tutta, intensamente e per più di cinquant’anni. Capire cosa vuol dire partire da un treno di pendolari su cui si viaggia tenendo sotto bracco una manciata di rari dischi di blues e arrivare ad una spiaggia brasiliana sulla quale sottoporsi al delirio di un milione e mezzo di fans adoranti. Insomma, bisogna essere i Rolling Stones per capirlo, e ancora non sarebbe abbastanza. “C’è Charlie che ci tiene fuori dai guai. C’è Mick che dice: ‘Lasciatemi in pace’ e Keith replica ‘Va a farti fottere!’ E’ questo il segreto della nostra longevità”. (Ron Wood)
Gli anni settanta degli Stones cominciano veramente solo quando Mick Jagger, durante un concerto a Los Angeles di uno dei loro padri putativi, Chuck Berry, ha un incontro con Ahmet Ertegun, il boss turco in coppa all’Atlantic, e gli rivela senza mezzi termini che i Rolling Stones, più che stufi dei giochi di prestigio della Decca, vogliono accasarsi con la sua Atlantic. Il vecchio Ahmet viene istantaneamente stregato da, parole sue, “quell’espressione negli occhi, lo straordinario sorriso, e lo stupefacente contorno della bocca”. Il favoloso contratto che ne scaturì, il più oneroso mai sottoscritto dalla leggendaria etichetta di New York, rimise in motto a pieno regime la premiata ditta, anche se Jagger e Richards a tutto si dedicavano fuorché amministrare il loro mastodontico giro d’affari. Basti pensare che negli ultimi due precedenti anni Mick e Keith avevano passato più tempo in tribunale a vedersela con arresti e strampalate sanzioni giudiziarie che su di un palco a darci dentro di rock ‘n’ roll. Ma, sapete come si dice: contratto nuovo, vita nuova. Era arrivato il tempo di liberarsi dei fantasmi di Brian Jones, della stantia rivalità (vera o presunta) con i Beatles, del sanguinoso ricordo di Altamont, del manager Allen Klein, che più di qualche problema aveva dato anche ai Fab Four, dell’esoso fisco britannico e della mefitica stampa inglese. Sentite un po’ cosa scriveva il Melody Maker all’alba del 1970: “Hanno avuto fortuna, ma ora devono ammettere che hanno fatto il loro tempo”. Un altro magazine si chiedeva: “Cosa può fare uno Stone a quarant’anni? Uno Stone di mezza età è la cosa più triste del mondo”. Ancora un altro rincarava la dose: “E’ inconcepibile immaginare Mick Jagger a cinquant’anni”. Per concludere con lo sproloquio sesquipedale, offensivo e volgare del critico Nick Cohn: “Se hanno un minimo di pudore si ammazzeranno in un incidente aereo prima dei trent’anni”.
E’ per tutto questo che il 1971 può, a ben diritto, essere considerato un anno cruciale per le "Pietre Rotolanti". Due le ragioni: la prima riguarda il varo della loro etichetta discografica personale (quella della strafamosa linguaccia) (2), dopo anni di music business con la Decca; la seconda per la pubblicazione di un album epocale come Sticky Fingers, la più probante delle verifiche circa il momento d’incontrollabile incontinenza creativa che il gruppo stava nuovamente vivendo. Registrato tra i Trident Studios di Londra ed i Muscle Shoals in Alabama e prodotto da Jimmy Miller (3), una passionaccia per il suono black che lo portò a produrre le pagine più negroidi del rock d’Albione (Spencer Davis Group, Traffic, Blind Faith) e non (Delaney & Bonnie Bramlett), Sticky Fingers si attesta tra i classici degli Stones e in assoluto tra le opere fondamentali degli anni settanta. Un budget di 15.000 sterline e l’album può mettere in mostra una scandalosa cover art concepita da Andy Warhol (quante mani femminili abbassarono speranzose quella maliziosa cerniera…) che lo renderà una delle opere più riconoscibili (anzi, “La” più riconoscibile) della storia del rock. All'interno, oltre ad un testicolo che s’intravede sotto le mutande, un pezzo di plastica nero che su dieci brani poteva contare 10 capolavori che ne facevano un disco sboccato, maleducato e maledettamente bluesy, gocciolante di quella che la giornalista Edna Gundersen definì “la mistica degli Stones”. Un’immenso drug album, maledetto come Rock ‘n’ Roll Animal di Lou Reed o il coevo L.A. Woman dei Doors. Insomma, uno dei più riusciti patchwork che i cinque inglesi abbiano mai dipinto.
Sticky Fingers è infatti un piccolo gioiello dove trovare di tutto ed in cui mille influenze si mescolano magicamente: il rock di Bitch e Brown Sugar, due eccitanti nuovi standard rock (soprattutto la seconda) imbevuti di una sensuale carica rock/blues, il soul di You Got The Blues, che pare uscire da un album di Otis Redding, l’electric (moooolto electric!!!) slow blues di Sway con Mick Jagger alla chitarra (elettrica, è ovvio!) ed il contributo di – si dice – Pete Townshend e Ronnie Lane ai cori, lo spiritual trasandato di You Gotta Move che fu anche di Sam Cooke che la inserì nel suo capolavoro Night Beat, il country di Wild Horses (anticipata dalla versione dei Flyin’ Burrito Brothers) e Dead Flowers (coverizzata dai New Riders Of The Purple Sage) e melodie strazianti e malate che ricorrono ad una simbologia cruda che immortala un nuova gioventù bruciata come Moonlight Mile, arricchita dagli archi decadenti di Paul Buckmaster e Sister Morphine, scritta con Marianne Faithful e a lei dedicata. Una sequela di coup de foudre niente male per dei dinosauri miliardari che “avevano fatto il loro tempo”.
Il più clamoroso comunque si chiama Can't You Hear Me Knocking, oltre 7 minuti da infarto in cui la miglior rock 'n' roll band del mondo "bussa" alla porta del nuovo decennio mettendo in fila tutta la concorrenza e inscenando una rappresentazione che dopo oltre 45 anni lascia ancora il segno. I cinque sembrano degli extraterrestri: perfetti. Roccano e rollano con una naturalezza che noi comuni mortali nemmeno respirando. Impagabili!!! Eppoi l'idea di una rock song che ne contiene almeno tre: introduzione da urlo, dove, alla base di un contagiosissimo groove di basso, batteria, percussioni e piano elettrico (Nicky Hopkins) che si attorcilia su se stesso, potrete sdilinquire mica male prestando orecchie e cuore ad un sottofondo di organo (Billy Preston) che come un lenzuolo di cielo azzurro e arancione fa da telaio ad un riff assassino di chitarra carico di un potere simbolico/evocativo straordinario, che mette in vetrina tutto l’armamentario di cui Keith Richards è dotato. Ci sono le sue impronte digitali su quei due  minuti e mezzo sincopati che trasmettono con tremenda efficacia l’essenza del r’n’r, appiccicandosi alle orecchie e facendo muovere tutto il resto. “Il riff di Can’t You Hear Me Knocking mi arrivò volando – racconta il nostro – Ho trovato gli accordi e poi ho iniziato a nuotarci dentro, mentre Charlie ha iniziato a battere il tempo. Così abbiamo pensato, hey, è fortissimo. Attorno a noi tutti sorridevano. Per un chitarrista non è un evento eccezionale trovare la modulazione, gli stacchi, la  sequenza degli accordi. E’ tutto molto diretto e naturale”. Il tutto dura fino al minuto 2’43” e la canzone potrebbe anche finire qui. Ma è proprio a questo punto che si materializza un’altra magia. Una di quelle situazioni vere, lontane dallo scintillio edonista che di solito chiamiamo spontaneità. Can’t You Hear Me Knocking è una delle mie preferite” – ricorda Mick Taylor – La jam alla fine è stata causata da una specie di incidente che non avevamo programmato. Alla fine della canzone ho sentito che dovevo continuare a suonare. Tutti stavano riponendo i loro strumenti, ma il nastro stava ancora girando e il tutto suonava da Dio, così tutti hanno ripreso in tutta velocità gli strumenti e hanno ricominciato a suonare. E’ successo veramente così e tutto si è risolto in una buona la prima. Sembra che questa parte della canzone sia piaciuta ad un sacco di gente”.  Non sapevamo che stavamo ancora registrando – conferma Keith Richards – Pensavamo di aver finito. Ce ne stavamo andando ed il nastro venne fatto ancora girare. Immaginai che ci stessero sfumando. Solo quando abbiamo ascoltato il playback abbiamo realizzato. Oh, avevano continuato a registrare! Sostanzialmente ci siamo resi conto di avere due pezzi diversi di musica. C’è la canzone e c’è la jam”. Qui i musicisti si impegnano nell’edificare una costruzione d’impatto immediato: il lancio di una lunga jam tra soul e latin-rock in cui sembra che Santana (4) copuli con la Motown in un uragano di ritmi tribali su cui un ubriacante intreccio di sax e chitarra riversa un’intensa sensualità. Inconsapevolmente (ed una tantum, va detto) la band fa il suo ingresso in una twilight zone in cui tra la fine dei sassanta ed i primi settanta stava andando una parte considerevole della musica mondiale. Una sorta di meta-linguaggio raffinato e carnale al contempo, con perfezionismi tecnici di rara enfasi verso cui, in una sorta di chiamata universale pan musicale, si stavano dirigendo musicisti provenienti dalle più disparate direzioni (e qui di seguito andrò a citarne una parte infinitesimale): dal soul di marca Motown (i Temptations dell era Whitfield-Strong ma anche i Funkadelic di George Clinton), da quello di marca Stax (l’Isaac Hayes di Shaft e Hot Buttered Soul, senza dimenticare l’apolide incontinente James Brown), dal jazz (il Miles Davis elettrico da Bitches Brew in avanti ed i Weather Report di Boogie Boogie Waltz), dal latin rock (i Santana di Caravanserai). Dall’Inghilterra tutta la new thing dell’english jazz, anche se un po’ di straforo, ma soprattutto  i Traffic di The Low Spark Of High Heeled Boys e Shoot  Out At The Fantasy Factory ed i ghanesi Osibisa. Anche l’Italia diede il suo contributo: si chiamava Perigeo, cinque musicisti di provata levatura che diedero dimostrazione del loro visionario talento proponendo musiche di sensoriale bellezza, iridescenti sceggie di luce che infiammavano i colori di una scrittura votata ai pieni strumentali, così come alle sospensioni più eteree. Era un meticciato stilistico che inglobava nei suoi stilemi brani estesi (5), spesso dilatati oltre la soglia dei dieci minuti, atmosfere liquide, quasi psichedeliche, officiate da musicisti discepoli di una scuola virtuosistica che incorporava chitarre wha-wha, ogni tipo di tastiere, sfondi orchestrali, ritmi ipnotici e gran recupero di tribalismi in cui percussioni di ogni tipo salivano al proscenio guardando alla madre Africa. 
Il contributo degli Stones a questa musica fatta di archetipi sonori di mondi differenti è una straordinaria miscela che origina una febbre sonora su cui è bello concentrarsi. Iniziano le danze le percussioni del produttore Jimmy Miller e le congas del fedele Rocky Dijon (Sympathy For The Devil, Let It Bleed ma anche Stone Alone di Bill Wyman, e ancora Ginger Baker’s Airforce, Nick Drake, John Martyn, Stevie Wonder, Taj Mahal, Billy Preston, Hugh Masekela, Joe Walsh, Herbie Hancock), profugo ghanese fortunosamente approdato con un barcone sulle coste inglesi dopo un viaggio di settimane e successivamente introdotto alla corte di Jagger e Richards dal producer Jimmy Miller. La girandola continua con il sax di Bobby Keyes (un altro tipino mica male, perfettamente integrato nello smodato crazy world della band) (6) che ha agio di elencare in scioltezza i tratti somatici principali del suo solismo. La mente corre al lavoro (meno febbricitante, meno veemente, più riflessivo, pensato) di Chris Wood con i Traffic (stesso produttore: sarà un caso?) che lanciava grida alla luna dando un viraggio black alle canzoni del gruppo di Steve Winwood. “Bobby era un musicista molto fluente e melodico – ricorda Mick Taylor – Mi ha preparato qualcosa da seguire, e da cui uscire fuori”. E' così che, infine, sulla scena irrompe impetuosa, distendendosi e ritraendosi come un elastico, la chitarra di Mick Taylor, la cui diamantina limpidezza e le cadenze nervose in grado di graffiare sono distribuite a piene mani: "Mick era lirico” ricorda Watts "Aveva un orecchio così buono." L’eleganza e la forza di Taylor, le magistrali raffinatezze e le sue tirate bluesy vengono esibite su di un substrato di percussioni e organo che offrono un caleidoscopico tappeto di varianti ritmiche che ti scuotono le viscere e ti riempiono il cervello. Insomma la sceneggiatura di un rito che sarebbe passato alla leggenda. Un must!
Oggi, nel pieno di un periodo che faccio fatica a comprendere, mi arrogo il diritto di riservare un posto d’onore a questa stratosferica Can’t You Hear Me Knocking, alla sua patina di produzione d’altissimo lignaggio in vana attesa di quella del tempo, e agli Stones, quelli del ’71 e quelli di oggi che ancora girano in pompa magna e sono capaci di organizzare delle turneé di rutilante  immortalità rock ‘n’ roll. Del resto, quando uno nasce animale da palcoscenico ci muore anche. E mentre voi avete il fiatone solo per essere arrivati in fondo a queste righe seduti in poltrona, Mick (7), Keith (8), Charlie (9) e Ronnie (10) sono in perfetta salute e scaldano i muscoli in vista di nuovi traguardi. Gia mi pare di sentirvi: “Chi glielo fa fare?”. Keith lo ripete spesso a Mick: “Tesoro, gli Stones sono più importanti di noi due”.
Certo, un giorno o l’altro dovranno pur smettere, e il solo pensiero già mi fa tremare la voce e gonfiare il cuore, ma non c’e bisogno di aspettare quel brutto e livido giorno per sentenziare: “Come loro nessuno mai!”.

(1) Keith Richards, mai tenero con l’ex compagno: “Tutto ciò che ha fatto Bill è stato lasciare la band, avere tre bambine e aprire un negozio di fish and chips”.

(2) Il logo lips and tongue è nato dalla matita di John Pasche, uno studente del Royal College of Art. Ispirazione, la bocca “importante” (parole sue) del cantante della rock band (noblesse oblige) e la lingua (?) della dea indiana Kali. Un piccolo ritocchino lo diede anche Craig Braun, direttore creativo della Sound Packaging Corporation, che al tempo stava trafficando con Andy Warhol alla cover dello storico album della band e che intervenne su una versione ancora non finita del disegno. Il logo fu pagato al giovane designer soltanto 50 sterline, a cui se ne aggiunsero poi altre 26mila nel 1984 per le royalties. Pensate che, nel 2008, il Victoria and Albert Museum di Londra,  riuscì (facendo un ottimo affare) ad accaparrarsi il bozzetto originale per la cifra di 50mila sterline. Amen.

(3) Jimmy Miller, tossico senza (quasi) speranza, batterista a tempo perso, ma, soprattutto, grandissimo produttore discografico. Uno che condivideva tutto con i suoi musicisti: assieme a loro suonava (suo, tanto per fare un esempio, il campanaccio che si ascolta all’inizio di Honky Tonk Women degli Stones), componeva (mise il suo zampino nella stesura del testo di Medicated Goo dei Traffic, omaggio pieno d’amore al suono Stax) e, purtroppo si drogava. Durante le session di Exile On Main Street venne messo in piedi un baccanale, che vide Miller tra i pricipali protagonisti, dove alcol e droghe scorrevano a fiumi. Dopo l’uscita, nel 1973, di Goat’s Head Soup gli Stones gli diedero il ben servito perché era talmente fatto da non poter più fornire una prestazione professionale. Morirà nell’ottobre del 1994 per insufficienza epatica all’età di soli 52 anni. Oltre a Stones e Traffic, produsse per i Blind Fath, il supergruppo di Clapton, Baker, Winwood e Rick Gretch, Ginger Baker’s Airforce e, dopo un lunga pausa, Primal Scream (Screamedelica) e Motorhead (Overkill e Bomber).

(4) Ci vorranno quasi 40 anni per chiudere il cerchio. Nel 2010, infatti, Santana includerà Can’t You Hear Me Knocking in Guitar Heaven (sottotitolo The Greatest Guitar Classics Of All Time). La rendition si sostanzia in un febbricitante duetto di sei corde con Scott Weiland, il compianto chitarrista degli Stone Temple Pilot.

(5) Non è certo un caso se, di tutta la sterminata discografia della band, Can’t You Hear Me Knocking, con i suoi 7 minuti abbondanti, sia per lunghezza al quarto posto tra i brani stonesiani, gli altri essendo Goin’ Home da Aftermath del 1966, record assoluto con i suoi 11’16”, Sing This All Together da Their Satanic Majestic Request del 1967 (8’33”) e You Can’t Always Get What You Want da Let It Bleed del 1969 (7’28”)

(6) Bobby Keys che sfruttava gli alberghi del tour per farsi un bagno nel Dom Perignom, prosciugando la vasca a grandi sorsate. E questo non può che dare solo una pallida idea della sublimi vette dei margini del piacere toccate al confronto dai suoi datori di lavoro.

(7) Disse di Mick Jagger il prduttore Don Was (Bridges To Babylon): “Durante il tour di Bridges To Babylon provai a correre la distanza che che andava da una parte all’altra del palco e mi mancava il respiro dopo averlo fatto una volta sola. Mick fece la stessa cosa decine di volte – cantando intonato ed esibendosi per due ore. Questo tipo è sovrumano. E’ al tempo stesso un singolare fenomeno atletico e un’ingiustizia vivente: può mangiare quello che vuole, esibirsi in quella maniera e, ciliegina sulla torta, tutte le modelle sono sue”.

(8) Keith Richards nel 2003 circa, ma spero che anche oggi le cose non siano cambiate più di tamto: “Il fatto è che ho sessant’anni e ci sono ragazze di venti che mi tirano ancora le mutandine! Che devo dire alla mia signora, che mi servono per arredare la stanza?” E ancora, impagabile: “Io non ho mai avuto problemi con la droga. Ho avuto problemi con la polizia”.

(9) Charlie Watts su se stesso: “Mia moglie Shirley è una grande fan degli Stones, io invece no: è semplicemente quello che faccio”. E su Keith Richards: “Diciotto mogli e venti figli lo hanno fatto cavaliere fantastico!”

(10) Ron Wood oggi ha smesso di bere. Bere sul serio, si intende: tipo due bottiglie di vodka al giorno


Mauro Rollin' On The River Uliana

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