Diciamo
subito che Diamond Dogs, l’album di Bowie targato 1974, è un disco
stupendo, un mosaico dalle mille pietruzze, dai colori vivi e dal profumo di
maturità e Rebel Rebel ivi contenuta è il suo biglietto da visita: uno
shot da suonare a volume altissimo dalla mattina alla sera, con gambe
divaricate e ghigno tipico da rock ‘n’ roll animal. E’ un momento spartiacque
il 1974 per quest’uomo eclettico e musicalmente bulimico, un turning point che
chiude la prima parte di una carriera in cui Bowie aveva rifatto il trucco al
rock, introducendo un concetto come l’ambiguità (sessuale, ma non solo) e
rappresentando il punto più alto della stagione glam. In quella metà anni ’70
una iena come lui già stava subodorando i grandi movimenti che avrebbero
rivoltato il corpo rock: la disco evoluta, il punk che diventerà new wave,
l’elettronica che già scintillava il suo corpo nudo. Ma in quel 1974 il nostro
ancora non disdegnava di roccare e rollare; e allora vai con Rebel Rebel,
un elogio della chitarra elettrica, dei decibel spaccatimpani, del rock
proletario e analfabeta, quello chiassoso e scostumato di Jagger e Richards
fondato sul sudore, sull’alcol e sulla licenziosità.
Per suonare un rock ‘n’ roll come questo bisogna
essere un pò pirati e un pò signori, un po’ figli di puttana e un po’ (tanto)
Keith Richards. Oppure devi essere Ziggy Stardust che è tutte queste cose
assieme e anche qualcuna in più. E’ il febbraio del 1974, il glam rock
impazza ancora in terra d’Albione, ma si capisce che sta già finendo la
benzina. T. Rex, Roxy Music, Sweet: tutti di lì a non molto o avrebbero
cambiato pelle o si sarebbero sciolti. In ogni caso le redini del movimento
glam stavano passando di mano: dai prime movers citati poc’anzi era già
avvenuto il passaggio di consegne alle nuove leve, figurine di seconda e terza
scelta, meri imitatori che rispondevano al nome di Suzi Quatro, Alvin Stardust,
Bay City Rollers. Chi viceversa non mostrava cenni di scadimento qualitativo
erano gli Stones che vennero infilati, un pò a torto un pò a ragione in questa
ondata di rimmel e paillettes multicolori che stava spendendo gli ultimi
scampoli di energia. Ecco, gli Stones! La prima volta che mi è capitato di
sentire Rebel Rebel ho pensato che quella rock song dall’inconfondibile
brivido lascivo fosse il singolo che accendeva nuovamente le polveri della
migliore rock ‘n’ roll band del mondo dopo i zuccherosi velluti
armonici in cui l’anno precedente era stata avvolta Angie. E’evidente che all’epoca ancora non avevo ascoltato
Diamond Dogs, canzone che da il titolo all’album che serebbe
uscito ad aprile, che le contiene entrambe, e che sfiora addirittura il plagio
nei confronti di Brown Sugar. Plagi reali o presunti, resta il fatto che
Rebel Rebel sia un rock ‘n’ roll sporco, stradaiolo, il beat che batte
nervoso, inesorabile, l’interpretazione vocale in puro stile Mick Jagger, la
mente che si libera e il fondoschiena che le va subito appresso. Sono proprio
gli Stones puttanieri di Jumpin’ Jack Flash – il drive è quello – ma chi
mastica il riff è proprio Bowie himself che imbraccia la chitarra e ci
da dentro come un satanasso: «È un riff favoloso!», ricorderà il nostro nel 1997 in un'intervista con Joe Gore
di Guitar Player, «semplicemente
fantastico! Quando sono inciampato in quel riff ho pensato ‘Oh! Grazie!’».
Che “linguaccia” rock fantastica! Ridotta ai
minimi termini, certo, con quei maledetti due accordi (o era uno solo?) che
prendono a calci in culo, ma sono pervasi da un calore che scalda l’anima e
rende questa song immortale. Questo infatti è un brano che tanti gruppi, di cui
non faccio il nome, potrebbero ancora suonare se non avessero sostituito il
cuore con un bancomat. Né trucchi né inganni qui. Sudori freddi e atmosfere
roventi piuttosto: Bowie canta come un Belzebù scatenato e con la chitarra pare
un Marc Bolan che abbia bevuto benzina per far decollare una squadriglia di
suoni di petto e muscolosi.
Del resto, l’insana passionaccia per la
glamourness puttanesca di Jagger e Richards non era solo l’incapricciamento di
una serata ad alto tasso di testosterone, se è vero che già in precedenza
c’erano state da parte di Bowie accorate dichiarazioni d’amore all’indirizzo
dei Glimmer Twins: in Aladdin Sane il nostro saltava addirittura a piedi
uniti nel repertorio dei cinque ragazzacci e annichiliva tutti con la mise
en scene di una Let’s Spend The Night Together che non sapremmo come
altro definire se non hardeggiante assalto all’arma bianca che sfida il
metal e prefigura il punk. Strano pittosto che nel successivo Pin Ups,
album costituito esclusivamente da covers, dove Bowie rende omaggio agli idoli
della sua giovinezza, tra Easybeats, Pretty Things, Them e Merseys non ci fosse
un sola canzone firmata Jagger-Richards. Quale migliore occasione avrebbe
potuto esserci? Ma tant’è.
Bollente e adrenalinico momento clou di
quell’eclettico pastiche che è Diamond Dogs, concept-album dalle
tinte torbide e inquietanti, Rebel Rebel è una delizia di rock
song da metter su al mattino per darsi la carica e perfetta per la festa
alcolica e stracciona della sera, come si usava ai vecchi tempi quando il rock
‘n’ roll lo si ballava nelle cantine e non nei club da fighetti con nerboruti
buttafuori all’ingresso. Il party di Bowie è aperto a tutti: basta presentarsi
con una copia di Sticky Fingers, una t-shirt dei T. Rex e sapere a
memoria almeno un paio di testi di Lou Reed. Nella sua balera il nostro Ziggy
ha nascosto nuovi amici e gli amori di sempre: dentro ci sono vecchi pards
come il batterista Aynsley Dunbar, il pianista Mike Garson ed il redivivo
produttore Tony Visconti e quelli nuovi come il bassista Herbie Flowers, che
sostituisce il fedele Trevor Bolder, e che presta i suoi servigi chez
Bowie dopo aver messo a disposizione le sue quattro corde prima presso i Blue
Mink di Melting Pot (canzone ruffiana ma pericolosa come un tiro di
coca: la provi e non puoi più farne a meno. Inarrivabile!), poi presso una band
dal nome impronunciabile come Ruplestiltskin, ma che quando ci si mettevano
tiravano
certe bordate al fulmicotone che sputavano dinamite e
mettevano in campo il respiro osceno di un
robusto rock che veniva in superficie e tirava il collo, come solo i Led
Zeppelin sapevano fare. Fuori, oltre all’irrequieto Mick Ronson, storica 6
corde degli Spider From Mars che con la sua assenza da Diamond Dog
certifica il suo temporaneo ma lunghissimo divorzio da Bowie (tornerà a suonare
con il vecchio pard solo nel 1993 nell’album Black Tie White Noise), ad
aspettare di entrare, gli ancora mocciolosi futuri fans di Clash e Sex Pistols
che di lì a pochissimo quella cantina grondante sudore e rock ‘n’ roll
avrebbero occupato manu militari.
Purtroppo il suo party alcolico Bowie lo
organizza lassù, ormai. Non crediate con questo però che sia una festa
disertata la sua, ché ce n’è ormai più tra le stelle di gente da invitare che
non su questa palla di fango e cemento. E allora vai con Rebel Rebel che in fondo, da quando è uscita, e son oltre
quattro decenni, non ha mai fallito a riempire una pista da ballo ogni volta
che una band ha attaccato a suonarla. E mi par di sentirli Brian Jones, Jim
Morrison, Jimi Hendrix, Lou Reed, Mick Ronson, Marc Bolan, Keith Moon, Andy
Warhol, tutti ebbri di adrenalina e vogliosi di far durare la bisboccia all’infinito.
In fondo quando questo Ziggy attacca il suo rock ‘n’ roll vorresti che non
finisse mai.
Ovviamente, visto che il glam stava ancora
impazzando, Bowie, araba fenice solita a rinascere in un gioco di mutazioni
infinite, lo stava già mollando. Deciso a farla finita con l’ambiguità glitterata,
scende dagli zatteroni di Ziggy e riempie di mascara intere confezioni di
cotone imbevuto di latte detergente. In quel preciso
istante personaggio e autore avevano in comune, e ancora per poco, nulla più
che la capigliatura pel di carota; l’odissea spaziale di Major
Tom si era trasformata in un incubo terreno di città in degrado, di dittatura,
di personaggi ambigui e spaventosi. Con la mente rivolta al dance party di Young
American ed alla sua nuova incarnazione nei panni del Duca Bianco, Ziggy
Stardust stava sputando gli ultimi singulti di vita: si era ridotto ad essere
un mostruoso mutante, metà uomo, metà
cane, come griffato dalla sconcertante copertina
opera di Guy Peellaert, autore anche della cover di It’s Only Rock ‘n’ Roll
degli Stones (quando si dicono le coincidenze), nonché del best seller Rock
Dreams raccolta di bozzetti che celebrava lo spirito ribelle del rock ‘n’
roll e dei suoi protagonisti a mezzo di disegni dal forte impatto evocativo. E
che gesto di punkitudine ante litteram supremo, insuperabile, sarebbe
potuto essere se la copertina in cui è alloggiato Diamond Dogs, invece
di venire corretta ad aerografo per la
versione destinata ai negozi, fosse stata pubblicata nella sua prima
stesura, dove, per la disperazione della RCA e per lo scandalo cui avrebbero
gridato i benpensanti, il disegno originario completo metteva chiaramente in bella mostra
i genitali ibridi della creatura.
Diamond Dogs
fu un enorme sforzo creativo, un disco fantascientifico e orrorifico ispirato dalle atmosfere di degrado urbano di
"Ragazzi Selvaggi" di William Burroughs e dall’incubo dittatoriale di
"1984" di George Orwell. Nonché
dallo spirito postribolare dei Rolling Stones più cazzuti, come certifica,
oltre a Rebel Rebel con cui fa il
paio, la noncuranza istrionica e la scorza dura delle
title track, Diamond Dogs, una danza bastarda, una
canzonaccia maleducata dall’andamento trasandato che si nutre
delle cattive vibrazioni del rock. Essa è la perfetta colonna sonora da ascoltare
in una camera disadorna, dove consumare sesso e sbronzarsi fino
all’alba con prostitute che sognano BMW
e Mercedes, ma raccattano solo camionisti arrapati, e dove dune di illusioni
saranno scomparse in un livido mattino con i fumi dell’alcol.
Album molto amato dai fans e poco dai critici, Diamond
Dogs. Gli uni più degli altri hanno le loro ragioni: per i primi è l’album
di Rebel Rebel e tanto basta; per i secondi si trattava del classico
album di transizione, affetto da buone dosi di frammentarietà (o trattasi di
ecclettismo?) che venne interpretata come prodromo di una latente crisi
d’ispirazione. In realtà più che da idee confuse o da crisi vera e
propria, la frammentarietà trova spiegazione in
primis da session che l'ingegnere del suono, Keith Harwood, aveva contribuito a rendere oltremodo
caotiche, ma soprattutto dalla necessità in cui si trovò Bowie di
cambiare frettolosamente la lettura in chiave rock del musical che aveva
vagheggiato per anni: vale a dire 1984 di George Orwell, con Ziggy Stardust
come protagonista. Il fatto è che Mrs. Orwell, vedova dello scrittore, calava
la pietra tombale sul progetto con un veto che non lasciava spazio a speranze
di sorta. Quanto detesto gli eredi di opere dell’ingegno, sempre pronti a
mettere i bastoni fra le ruote o nella migliore delle ipotesi vergognosamente
tesi a lucrare sul lavoro del caro estinto. Fatto sta che il nostro doveva
inchinarsi e abbozzare, ripiegando su parte del poco già pronto e su altri
autori come il Ted Browning di Freaks, il William Borroughs di Wild
Boys o l’Anthony Burgess di Arancia Meccanica.
In quel momento Bowie si trovava al centro del
rock. Per quella generazione di adolescenti inglesi, e non solo, fu l’idolo più
appeso ai muri delle camerette. Idolo e maestro. Uno che anticipava gli stili
piuttosto che accodarsi e seguirli. Erano anni in cui per capire da che parte
avrebbe soffiato il vento, non dovevi fare altro che procurarti il nuovo disco
di David Bowie. Discorso che pari pari va fatto anche per Diamond Dogs, progetto
che ancora una volta conferma la lungimiranza di Bowie, che coglie mirabilmente
nel segno anticipando quali saranno gli umori circolanti tra la futura
generazione punk e new wave: un nichilismo imperante e una visione apocalittica
del futuro. Un domani dominato dalle macchine e disumanizzante, che
marginalizza l'uomo relegandolo alla triste condizione di minus haben.
Unici esseri viventi i "diamond dogs", i
sopravvissuti del day after che ha ridotto l’intera razza umana nella
condizione di mostruoso cane mutante. E’ un messaggio colmo
di turbamento, qualcosa di tetro, cupo e terribilmente notturno, arrotolato
attorno ad un sasso che ci giunge improvviso mandando in frantumi il vetro
della nostra finestra. Scomodo e disturbante perché è la visione realistica di
un fatiscente mondo in putrefazione e sotto costante minaccia di morte.
Crollano i muri da ogni parte, insomma, e l’aria è ormai irrespirabile; e con
fantasie da incubo al neon come Diamond Dogs si attende solo
l’impazzimento necessario, un angusto tunnel sotterraneo dal quale non
riuscirete in alcun modo ad uscire. Un incubo che vi perseguiterà senza darvi
pace.
L’album è insomma un
fantasmagorico e angosciato viaggio negli incubi collettivi delle società
occidentali: era la metà degli anni settanta, la guerra fredda era all’apice e
il timore dell’olocausto nucleare aveva ispirato interi filoni cinematografici
e letterari. Bowie ci consegna il suo punto di vista, vaticinando un fato
plumbeo fatto di soverchieria, decadenza, squallore, dove società allo sbando
sono governate da autorità occhiute e ubique (paradigmatiche in tal senso 1984 e Big Brother).
Al
tempo stesso, però, Diamond Dogs è una sorta di via crucis negli incubi personali di
Bowie che escono dalla scorza dura del pentagramma, imprimendosi sulla
pelle come una bruciatura realizzata con il mozzicone incandescente di una
sigaretta: stanze di
vita quotidiana dove dominano il senso di precarietà e di sbando, una sorta di
annullamento che è disperato abbandonarsi al sesso, ai paradisi artificiali, alle
lascività notturne per tenere fuori dalla porta le angosce che lo azzannano
alla gola (indicativo ma anche terribilmente splendido è in questo senso il transfer
musicale luciferino e nichilista che si rivela tramite il corposo e visionario testo
di Sweet Thing-Candidate). E’ la disperata ricerca di
un’intimità piena d’amore, vissuta come ultima ancora di salvezza in un mondo
angosciante ed oscuro, in cui la spirale della droga è vista come approdo al
grado zero dell’esistenza. Bowie getta infatti pezzi di carbone,
cartacce e detriti mentali nel suo mondo di vibrazioni elettriche e di verità
scomode: tutto il peso, insomma, del suo cervello approdato a sconcertanti
conclusioni dopo mille anni di pensamento.
Ma se questo è il plot, quale è la musica
del disco? Definito da Bowie "il mio primo album
interamente registrato sotto l'influenza della cocaina", l’album è un patchwork musicale
demoniaco e pessimista. E’ il rock che perde l’innocenza, conosce la
trasgressione, il peccato, la rabbia. L’amara soddisfazione di urlare le cose
chiamandole con il loro nome. Basta già l’iniziale Future Legend, un
minuto che è un inquietante colpo di fucile alla schiena
fatto di sinistri ululati seguiti da una voce narrante che racconta di una
Manhattan sfigurata e sulfurea, per capire in che razza di incubo siamo
capitati. Bowie, che compone tutto da
solo e che suona da sé molti strumenti (chitarra, sax, moog, mellotron), allestisce
un variegato programma costruito su brani
poliedrici dalle melodie sibilline e cangianti, ora epiche e dolenti, ora
scattanti e folgoranti, in cui l’ascoltatore viene catturato da tortuosi assolo
di chitarra e di sax, da dolenti fondali di moog e di mellotron, da veementi
deflagrazioni di batteria. Si passa dal soul futurista di 1984
che nella
chitarra funky di Alan Parker (altro Blue
Mink)
paga un enorme debito di riconoscenza all’Isaac Hayes di Theme From Shaft
e che non a caso verrà rivisitata da un’altra regina della black music, Tina Turner, ad angosciose ed angosciate
ballate come Sweet Thing-Candidate sceneggiata attraverso un’alchimia
pericolosa che si risolve in una sorta di minaccioso crooning post Brel-iano, o
come Big Brother in cui scintilla il sax che Bowie medesimo suona come
farebbe un pittore impressionista che voglia un aggiungere un colore alla sua
tavolozza. Infine, dall’affilato gioco d’arabeschi della stupenda Rock ‘n’
Roll With Me il cui altissimo lignaggio è lo stesso di All The Young
Dudes, si arriva alla dolente e delicata We Are The Dead (1), sorta
di Rock ‘n’ Roll Suicide parte seconda, fino ad approdare alla pazzia scalcinata della conclusiva e
stralunata danza di Chant Of The Ever Circling Skeletal Family.
Si è detto come Diamond Dogs abbia diviso
la critica: il riscatto non sarebbe però tardato ad arrivare grazie ad un tour
che non era possibile definire se non stupefacente. Disegnata
da Jules Fisher, la scenografia era caratterizzata da futuristici fondali e da
un paesaggio apocalittico e post-atomico di città devastate.
Tra scheletri cadenti di grattacieli e astronavi, il nostro, appollaiato su una
sorta di gru, recitava, mimava e cambiava spesso look, mentre sul terreno
sottostante vagavano come zombie zoppicanti relitti umani e bande di
sopravvissuti. Le uniche atmosfere crasse
e sanguigne restavano i più volte rimarcati riferimenti agli
Stones di Rebel Rebel e Diamond Dogs, che riconciliavano con la
spensieratezza di un glam rock rapidamente dimenticato.
E dunque, nel caso decidiate di prendere Diamond
Dogs, suonate subito Rebel Rebel a manetta e preparatevi a litigare con i vicini. Comunque non
preoccupatevi: anche se a loro, dal ragioniere del terzo piano alla gran gnocca
dirimpettaia, Rebel Rebel sembrerà una bestemmia, nello spazio di
tre ascolti si convertiranno e impareranno a conoscerla a menadito, dato che
nessuno può restare immune da tale squarcio nel buio, dalla sua rabbia
proto-punk, dal suo bagliore così intenso che nemmeno a Fatima quel lontano
giorno si udì un“Hot tramp! I love you so!” cosi intenso e tanto
appiccicoso. Suonala ancora, David!
1) “We
are the dead” (noi siamo i
morti) è la frase pronunciata da Winston Smith e il suo grande amore Julia (i
due protagonisti del romanzo di Orwell “1984”) pochi istanti prima che il
“Grande Fratello”, che attraverso una serie di monitor in ogni casa e luogo
controllava tutti i cittadini, scoprisse la loro relazione segreta.
Mauro Rollin’
On The River Uliana
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