lunedì 2 ottobre 2017

Diamond Dogs - David Bowie (1974)




Diciamo subito che Diamond Dogs, l’album di Bowie targato 1974, è un disco stupendo, un mosaico dalle mille pietruzze, dai colori vivi e dal profumo di maturità e Rebel Rebel ivi contenuta è il suo biglietto da visita: uno shot da suonare a volume altissimo dalla mattina alla sera, con gambe divaricate e ghigno tipico da rock ‘n’ roll animal. E’ un momento spartiacque il 1974 per quest’uomo eclettico e musicalmente bulimico, un turning point che chiude la prima parte di una carriera in cui Bowie aveva rifatto il trucco al rock, introducendo un concetto come l’ambiguità (sessuale, ma non solo) e rappresentando il punto più alto della stagione glam. In quella metà anni ’70 una iena come lui già stava subodorando i grandi movimenti che avrebbero rivoltato il corpo rock: la disco evoluta, il punk che diventerà new wave, l’elettronica che già scintillava il suo corpo nudo. Ma in quel 1974 il nostro ancora non disdegnava di roccare e rollare; e allora vai con Rebel Rebel, un elogio della chitarra elettrica, dei decibel spaccatimpani, del rock proletario e analfabeta, quello chiassoso e scostumato di Jagger e Richards fondato sul sudore, sull’alcol e sulla licenziosità.







Per suonare un rock ‘n’ roll come questo bisogna essere un pò pirati e un pò signori, un po’ figli di puttana e un po’ (tanto) Keith Richards. Oppure devi essere Ziggy Stardust che è tutte queste cose assieme e anche qualcuna in più. E’ il febbraio del 1974, il glam rock impazza ancora in terra d’Albione, ma si capisce che sta già finendo la benzina. T. Rex, Roxy Music, Sweet: tutti di lì a non molto o avrebbero cambiato pelle o si sarebbero sciolti. In ogni caso le redini del movimento glam stavano passando di mano: dai prime movers citati poc’anzi era già avvenuto il passaggio di consegne alle nuove leve, figurine di seconda e terza scelta, meri imitatori che rispondevano al nome di Suzi Quatro, Alvin Stardust, Bay City Rollers. Chi viceversa non mostrava cenni di scadimento qualitativo erano gli Stones che vennero infilati, un pò a torto un pò a ragione in questa ondata di rimmel e paillettes multicolori che stava spendendo gli ultimi scampoli di energia. Ecco, gli Stones! La prima volta che mi è capitato di sentire Rebel Rebel ho pensato che quella rock song dall’inconfondibile brivido lascivo fosse il singolo che accendeva nuovamente le polveri della migliore rock ‘n’ roll band del mondo dopo i zuccherosi velluti armonici in cui l’anno precedente era stata avvolta Angie. E’evidente che all’epoca ancora non avevo ascoltato Diamond Dogs, canzone che da il titolo all’album che serebbe uscito ad aprile, che le contiene entrambe, e che sfiora addirittura il plagio nei confronti di Brown Sugar. Plagi reali o presunti, resta il fatto che Rebel Rebel sia un rock ‘n’ roll sporco, stradaiolo, il beat che batte nervoso, inesorabile, l’interpretazione vocale in puro stile Mick Jagger, la mente che si libera e il fondoschiena che le va subito appresso. Sono proprio gli Stones puttanieri di Jumpin’ Jack Flash – il drive è quello – ma chi mastica il riff è proprio Bowie himself che imbraccia la chitarra e ci da dentro come un satanasso: «È un riff favoloso!», ricorderà il nostro nel 1997 in un'intervista con Joe Gore di Guitar Player, «semplicemente fantastico! Quando sono inciampato in quel riff ho pensato ‘Oh! Grazie!’».
Che “linguaccia” rock fantastica! Ridotta ai minimi termini, certo, con quei maledetti due accordi (o era uno solo?) che prendono a calci in culo, ma sono pervasi da un calore che scalda l’anima e rende questa song immortale. Questo infatti è un brano che tanti gruppi, di cui non faccio il nome, potrebbero ancora suonare se non avessero sostituito il cuore con un bancomat. Né trucchi né inganni qui. Sudori freddi e atmosfere roventi piuttosto: Bowie canta come un Belzebù scatenato e con la chitarra pare un Marc Bolan che abbia bevuto benzina per far decollare una squadriglia di suoni di petto e muscolosi.
Del resto, l’insana passionaccia per la glamourness puttanesca di Jagger e Richards non era solo l’incapricciamento di una serata ad alto tasso di testosterone, se è vero che già in precedenza c’erano state da parte di Bowie accorate dichiarazioni d’amore all’indirizzo dei Glimmer Twins: in Aladdin Sane il nostro saltava addirittura a piedi uniti nel repertorio dei cinque ragazzacci e annichiliva tutti con la mise en scene di una Let’s Spend The Night Together che non sapremmo come altro definire se non hardeggiante assalto all’arma bianca che sfida il metal e prefigura il punk. Strano pittosto che nel successivo Pin Ups, album costituito esclusivamente da covers, dove Bowie rende omaggio agli idoli della sua giovinezza, tra Easybeats, Pretty Things, Them e Merseys non ci fosse un sola canzone firmata Jagger-Richards. Quale migliore occasione avrebbe potuto esserci? Ma tant’è.
Bollente e adrenalinico momento clou di quell’eclettico pastiche che è Diamond Dogs, concept-album dalle tinte torbide e inquietanti, Rebel Rebel è una delizia di rock song da metter su al mattino per darsi la carica e perfetta per la festa alcolica e stracciona della sera, come si usava ai vecchi tempi quando il rock ‘n’ roll lo si ballava nelle cantine e non nei club da fighetti con nerboruti buttafuori all’ingresso. Il party di Bowie è aperto a tutti: basta presentarsi con una copia di Sticky Fingers, una t-shirt dei T. Rex e sapere a memoria almeno un paio di testi di Lou Reed. Nella sua balera il nostro Ziggy ha nascosto nuovi amici e gli amori di sempre: dentro ci sono vecchi pards come il batterista Aynsley Dunbar, il pianista Mike Garson ed il redivivo produttore Tony Visconti e quelli nuovi come il bassista Herbie Flowers, che sostituisce il fedele Trevor Bolder, e che presta i suoi servigi chez Bowie dopo aver messo a disposizione le sue quattro corde prima presso i Blue Mink di Melting Pot (canzone ruffiana ma pericolosa come un tiro di coca: la provi e non puoi più farne a meno. Inarrivabile!), poi presso una band dal nome impronunciabile come Ruplestiltskin, ma che quando ci si mettevano tiravano certe bordate al fulmicotone che sputavano dinamite e mettevano in campo il respiro osceno di un  robusto rock che veniva in superficie e tirava il collo, come solo i Led Zeppelin sapevano fare. Fuori, oltre all’irrequieto Mick Ronson, storica 6 corde degli Spider From Mars che con la sua assenza da Diamond Dog certifica il suo temporaneo ma lunghissimo divorzio da Bowie (tornerà a suonare con il vecchio pard solo nel 1993 nell’album Black Tie White Noise), ad aspettare di entrare, gli ancora mocciolosi futuri fans di Clash e Sex Pistols che di lì a pochissimo quella cantina grondante sudore e rock ‘n’ roll avrebbero occupato manu militari.
Purtroppo il suo party alcolico Bowie lo organizza lassù, ormai. Non crediate con questo però che sia una festa disertata la sua, ché ce n’è ormai più tra le stelle di gente da invitare che non su questa palla di fango e cemento. E allora vai con Rebel Rebel  che in fondo, da quando è uscita, e son oltre quattro decenni, non ha mai fallito a riempire una pista da ballo ogni volta che una band ha attaccato a suonarla. E mi par di sentirli Brian Jones, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Lou Reed, Mick Ronson, Marc Bolan, Keith Moon, Andy Warhol, tutti ebbri di adrenalina e vogliosi di far durare la bisboccia all’infinito. In fondo quando questo Ziggy attacca il suo rock ‘n’ roll vorresti che non finisse mai.
Ovviamente, visto che il glam stava ancora impazzando, Bowie, araba fenice solita a rinascere in un gioco di mutazioni infinite, lo stava già mollando. Deciso a farla finita con l’ambiguità glitterata, scende dagli zatteroni di Ziggy e riempie di mascara intere confezioni di cotone imbevuto di latte detergente. In quel preciso istante personaggio e autore avevano in comune, e ancora per poco, nulla più che la capigliatura pel di carota; l’odissea spaziale di Major Tom si era trasformata in un incubo terreno di città in degrado, di dittatura, di personaggi ambigui e spaventosi.  Con la mente rivolta al dance party di Young American ed alla sua nuova incarnazione nei panni del Duca Bianco, Ziggy Stardust stava sputando gli ultimi singulti di vita: si era ridotto ad essere un mostruoso mutante, metà uomo, metà cane, come griffato dalla sconcertante copertina opera di Guy Peellaert, autore anche della cover di It’s Only Rock ‘n’ Roll degli Stones (quando si dicono le coincidenze), nonché del best seller Rock Dreams raccolta di bozzetti che celebrava lo spirito ribelle del rock ‘n’ roll e dei suoi protagonisti a mezzo di disegni dal forte impatto evocativo. E che gesto di punkitudine ante litteram supremo, insuperabile, sarebbe potuto essere se la copertina in cui è alloggiato Diamond Dogs, invece di venire corretta ad aerografo per la versione destinata ai negozi, fosse stata pubblicata nella sua prima stesura, dove, per la disperazione della RCA e per lo scandalo cui avrebbero gridato i benpensanti, il disegno originario completo metteva chiaramente in bella mostra i genitali ibridi della creatura.
Diamond Dogs fu un enorme sforzo creativo, un disco fantascientifico e orrorifico ispirato dalle atmosfere di degrado urbano di "Ragazzi Selvaggi" di William Burroughs e dall’incubo dittatoriale di "1984" di George Orwell. Nonché dallo spirito postribolare dei Rolling Stones più cazzuti, come certifica, oltre a Rebel Rebel con cui fa il paio, la noncuranza istrionica e la scorza dura delle title track, Diamond Dogs, una danza bastarda, una canzonaccia maleducata dall’andamento trasandato che si nutre delle cattive vibrazioni del rock. Essa è la perfetta colonna sonora da ascoltare in una camera disadorna, dove consumare sesso e sbronzarsi fino all’alba con  prostitute che sognano BMW e Mercedes, ma raccattano solo camionisti arrapati, e dove dune di illusioni saranno scomparse in un livido mattino con i fumi dell’alcol.
Album molto amato dai fans e poco dai critici, Diamond Dogs. Gli uni più degli altri hanno le loro ragioni: per i primi è l’album di Rebel Rebel e tanto basta; per i secondi si trattava del classico album di transizione, affetto da buone dosi di frammentarietà (o trattasi di ecclettismo?) che venne interpretata come prodromo di una latente crisi d’ispirazione. In realtà più che da idee confuse o da crisi vera e propria, la frammentarietà trova spiegazione in primis da session che l'ingegnere del suono, Keith Harwood,  aveva contribuito a rendere oltremodo caotiche, ma soprattutto dalla necessità in cui si trovò Bowie di cambiare frettolosamente la lettura in chiave rock del musical che aveva vagheggiato per anni: vale a dire 1984 di George Orwell, con Ziggy Stardust come protagonista. Il fatto è che Mrs. Orwell, vedova dello scrittore, calava la pietra tombale sul progetto con un veto che non lasciava spazio a speranze di sorta. Quanto detesto gli eredi di opere dell’ingegno, sempre pronti a mettere i bastoni fra le ruote o nella migliore delle ipotesi vergognosamente tesi a lucrare sul lavoro del caro estinto. Fatto sta che il nostro doveva inchinarsi e abbozzare, ripiegando su parte del poco già pronto e su altri autori come il Ted Browning di Freaks, il William Borroughs di Wild Boys o l’Anthony Burgess di Arancia Meccanica.
In quel momento Bowie si trovava al centro del rock. Per quella generazione di adolescenti inglesi, e non solo, fu l’idolo più appeso ai muri delle camerette. Idolo e maestro. Uno che anticipava gli stili piuttosto che accodarsi e seguirli. Erano anni in cui per capire da che parte avrebbe soffiato il vento, non dovevi fare altro che procurarti il nuovo disco di David Bowie. Discorso che pari pari va fatto anche per Diamond Dogs,  progetto che ancora una volta conferma la lungimiranza di Bowie, che coglie mirabilmente nel segno anticipando quali saranno gli umori circolanti tra la futura generazione punk e new wave: un nichilismo imperante e una visione apocalittica del futuro. Un domani dominato dalle macchine e disumanizzante, che marginalizza l'uomo relegandolo alla triste condizione di minus haben. Unici esseri viventi i "diamond dogs", i sopravvissuti del day after che ha ridotto l’intera razza umana nella condizione di mostruoso cane mutante. E’ un messaggio colmo di turbamento, qualcosa di tetro, cupo e terribilmente notturno, arrotolato attorno ad un sasso che ci giunge improvviso mandando in frantumi il vetro della nostra finestra. Scomodo e disturbante perché è la visione realistica di un fatiscente mondo in putrefazione e sotto costante minaccia di morte. Crollano i muri da ogni parte, insomma, e l’aria è ormai irrespirabile; e con fantasie da incubo al neon come Diamond Dogs si attende solo l’impazzimento necessario, un angusto tunnel sotterraneo dal quale non riuscirete in alcun modo ad uscire. Un incubo che vi perseguiterà senza darvi pace.
L’album è insomma un fantasmagorico e angosciato viaggio negli incubi collettivi delle società occidentali: era la metà degli anni settanta, la guerra fredda era all’apice e il timore dell’olocausto nucleare aveva ispirato interi filoni cinematografici e letterari. Bowie ci consegna il suo punto di vista, vaticinando un fato plumbeo fatto di soverchieria, decadenza, squallore, dove società allo sbando sono governate da autorità occhiute e ubique (paradigmatiche in tal senso 1984 e Big Brother).
Al tempo stesso, però, Diamond Dogs è una sorta di via crucis negli incubi personali di Bowie che escono dalla scorza dura del pentagramma, imprimendosi sulla pelle come una bruciatura realizzata con il mozzicone incandescente di una sigaretta: stanze di vita quotidiana dove dominano il senso di precarietà e di sbando, una sorta di annullamento che è disperato abbandonarsi al sesso, ai paradisi artificiali, alle lascività notturne per tenere fuori dalla porta le angosce che lo azzannano alla gola (indicativo ma anche terribilmente splendido è in questo senso il transfer musicale luciferino e nichilista che si rivela tramite il corposo e visionario testo di Sweet Thing-Candidate). E’ la disperata ricerca di un’intimità piena d’amore, vissuta come ultima ancora di salvezza in un mondo angosciante ed oscuro, in cui la spirale della droga è vista come approdo al grado zero dell’esistenza. Bowie getta infatti pezzi di carbone, cartacce e detriti mentali nel suo mondo di vibrazioni elettriche e di verità scomode: tutto il peso, insomma, del suo cervello approdato a sconcertanti conclusioni dopo mille anni di pensamento.
Ma se questo è il plot, quale è la musica del disco? Definito da Bowie "il mio primo album interamente registrato sotto l'influenza della cocaina",  l’album è un patchwork musicale demoniaco e pessimista. E’ il rock che perde l’innocenza, conosce la trasgressione, il peccato, la rabbia. L’amara soddisfazione di urlare le cose chiamandole con il loro nome. Basta già l’iniziale Future Legend, un minuto che è un inquietante colpo di fucile alla schiena fatto di sinistri ululati seguiti da una voce narrante che racconta di una Manhattan sfigurata e sulfurea, per capire in che razza di incubo siamo capitati. Bowie, che compone tutto da solo e che suona da sé molti strumenti (chitarra, sax, moog, mellotron), allestisce un variegato programma costruito su brani poliedrici dalle melodie sibilline e cangianti, ora epiche e dolenti, ora scattanti e folgoranti, in cui l’ascoltatore viene catturato da tortuosi assolo di chitarra e di sax, da dolenti fondali di moog e di mellotron, da veementi deflagrazioni di batteria. Si passa dal soul futurista di 1984 che nella chitarra funky di Alan Parker (altro Blue Mink)  paga un enorme debito di riconoscenza all’Isaac Hayes di Theme From Shaft e che non a caso verrà rivisitata da un’altra regina della black music,  Tina Turner, ad angosciose ed angosciate ballate come Sweet Thing-Candidate sceneggiata attraverso un’alchimia pericolosa che si risolve in una sorta di minaccioso crooning post Brel-iano, o come Big Brother in cui scintilla il sax che Bowie medesimo suona come farebbe un pittore impressionista che voglia un aggiungere un colore alla sua tavolozza. Infine, dall’affilato gioco d’arabeschi della stupenda Rock ‘n’ Roll With Me il cui altissimo lignaggio è lo stesso di All The Young Dudes, si arriva alla dolente e delicata We Are The Dead (1), sorta di Rock ‘n’ Roll Suicide parte seconda, fino ad approdare alla  pazzia scalcinata della conclusiva e stralunata danza di Chant Of The Ever Circling Skeletal Family.
Si è detto come Diamond Dogs abbia diviso la critica: il riscatto non sarebbe però tardato ad arrivare grazie ad un tour che non era possibile definire se non stupefacente. Disegnata da Jules Fisher, la scenografia era caratterizzata da futuristici fondali e da un paesaggio apocalittico e post-atomico di città devastate. Tra scheletri cadenti di grattacieli e astronavi, il nostro, appollaiato su una sorta di gru, recitava, mimava e cambiava spesso look, mentre sul terreno sottostante vagavano come zombie zoppicanti relitti umani e bande di sopravvissuti. Le uniche atmosfere crasse e sanguigne restavano i più volte rimarcati riferimenti agli Stones di Rebel Rebel e Diamond Dogs, che riconciliavano con la spensieratezza di un glam rock rapidamente dimenticato.
E dunque, nel caso decidiate di prendere Diamond Dogs, suonate subito Rebel Rebel  a manetta e preparatevi a litigare con i vicini. Comunque non preoccupatevi: anche se a loro, dal ragioniere del terzo piano alla gran gnocca dirimpettaia, Rebel Rebel sembrerà una bestemmia, nello spazio di tre ascolti si convertiranno e impareranno a conoscerla a menadito, dato che nessuno può restare immune da tale squarcio nel buio, dalla sua rabbia proto-punk, dal suo bagliore così intenso che nemmeno a Fatima quel lontano giorno si udì un“Hot tramp! I love you so!” cosi intenso e tanto appiccicoso. Suonala ancora, David!



1) “We are the dead” (noi siamo i morti) è la frase pronunciata da Winston Smith e il suo grande amore Julia (i due protagonisti del romanzo di Orwell “1984”) pochi istanti prima che il “Grande Fratello”, che attraverso una serie di monitor in ogni casa e luogo controllava tutti i cittadini, scoprisse la loro relazione segreta.



Mauro Rollin’ On The River Uliana

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