martedì 3 ottobre 2017

Tangled Up In Blue - Bob Dylan (1975)




Robert Zimmerman è partito nei primi anni '60 dalla provincia americana per cambiare il mondo con le sue canzoni. Scambiato all'inizio per un nuovo Woody Guthrie, fu chiaro fin da subito che lui invece era Bob Dylan, uno che aveva deciso di non stare più alle regole ma di riscriverle da capo. Fu così che aggiornò la tradizione folklorica alle istanze del presente. La sua carriera è stata un susseguirsi di ritiri, spesso forzati, dalle scene, rimpiazzati da trionfali ritorni. Così fu anche nel 1974, quando dopo un periodo di appannamento creativo, si ripresenta al mondo con i fidati pards della Band ed un album più che dignitoso come Planet Waves. Ma il capolavoro arriva l'anno successivo, quando Blood On The Tracks sbaraglia tutta la concorrenza e mette in mostra questa Tangled Up In Blue, un brano dalla bellezza e nudità disarmanti.


“Non sono mai stato soddisfatto di Tangled Up In Blue.  Credo stessi cercando di farla assomigliare ad un dipinto. La versione su Real Live è molto più simile a come avrei voluto che fosse” (Bob Dylan). Il maestro mi scuserà se rispettosamente oso dissentire, ma per chi scrive l’originale contenuta in Blood On The Tracks resta insuperata. Pensare a Tangled Up In Blue significa pensare alla bellezza, ascoltarla significa tante meravigliose lacrime da piangere, scriverne significa la possibilità di dar voce al sublime attraverso la classica formula che si può sintetizzare nell’addizione di “bello” più “bello” uguale capolavoro. Ma ovviamente non sono solo i fattori estetici ad indurre molti a pensare che Tangled Up In Blue sia una pietra miliare. Dylan è sempre stato uno abituato a lavorare sull’eterno, un Picasso del rock che ha sempre cercato, esaltando le sue fervide invenzioni musicali, connubio e contatto con altre discipline artistiche: la pittura in primis, come magicamente avviene in Tangled Up In Blue, chiaro esempio di canzone “multi-dimensionale”. La song, infatti, si immerge felicemente in un amniotico connubio estetico e morale con l’opera di Norman Raeben, pittore e filosofo ucraino che ebbe un ruolo di primaria importanza nella vita e nell’arte di Dylan. La risultante è un’architettura sonora che flirta con la perfezione: "Stavo solo cercando di scriverla come fosse un quadro in cui tu puoi vedere le diverse singole parti ma puoi anche vedere il totale del dipinto. Con quella canzone in particolare era quello che stavo cercando di fare... con il concetto di tempo, ed il modo in cui i personaggi cambiano dalla prima persona alla terza persona, e non sei mai sicuro del tutto se stia parlando la terza o la prima. Ma quando getti uno sguardo d'insieme al totale non ha molta importanza". La struttura? Morbide volute di un basso che segna il tempo, elastico e pulsante; una batteria suonata in punta di bacchette che è un autentico coup de finesse a formare solide fondamenta alle esplorazioni di Dylan in territori romantici; intarsi di chitarre acustiche sospese in un clima rarefatto a fare da sfondo e ad impreziosire la song masticando la dura radice del folk e poi il lamento dell’armonica che sale in cattedra con folate che sembrano librarsi in volo e puntare diritto all’universo; su tutto la virtuosa voce di Dylan, madida di quelle nuances che sono il suo marchio di fabbrica, quel modo di cantare un verso in modo tale che ti penetri attraverso fino ad arrivare all’osso, a declamare testi colmi di un lancinante, straziante e ostinato dolore. Semplicissimo. Come un dipinto impressionista, verrebbe da dire. Dylan: «Quello che c'è di diverso è la presenza di un codice tra le parole del testo, ed inoltre non c'è un senso del tempo. Non c'è rispetto per esso. Hai ieri, l'oggi e il domani tutti insieme nella stessa stanza, e c'è veramente poco da immaginare che non stia succedendo». Dylan è un uomo con una marcia in più che hanno i predestinati baciati da Dio e Tangled Up In Blue, canzone dylaniata come poche, oltre ad essere il vertice emotivo di Blood On The Tracks, è anche un tormentato amalgama su cui si snodano gli equilibrismi melodici e la disperazione nascosta di uno dei musicisti più ispirati che la storia del rock ricordi. Un equilibrio oltremodo difficile se lo stesso Dylan affermò come per creare la canzone gli ci fossero voluti "dieci anni di vita e altri due per comporla".
Mettendo in chiaro fin da subito le credenziali dell’album che la contiene, la canzone apre un capolavoro come Blood On The Tracks, deliziosa creatura di prospettive elettroacustiche e vertigini umorali, che contribuisce in modo imprescindibile all’innalzamento emotivo della canzone americana. Anche il resto del programma nasce e si sviluppa sotto l’influsso di Norman Raeben, avvicinando Dylan ad un diverso concetto di creazione artistica che gli da modo di creare canzoni in cui è assente il concetto di tempo e che hanno le caratteristiche di un dipinto. Ed è proprio in Tangled Up In Blue, nella sua affascinante circolarità, dove volutamente il ritmo subisce un processo di destrutturazione, che è possibile cogliere appieno l'influenza della lezione filosofica del pittore ucraino,  uno degli incontri che più hanno influenzato la vita sia del Bob Dylan uomo che del Bob Dylan artista. Come dichiarato da Dylan medesimo intorno alla metà degli anni ’70, Raeben arrivò ad influenzarlo a tal punto da fargli rinnovare il suo approccio nella composizione delle canzoni. Ciononostante di lui, molto stranamente data l'importanza e la centralità della sua influenza su Dylan, non esiste traccia nelle biografie sul cantautore di Duluth che videro la luce negli anni '80.
Dylan: "Cinque giorni alla settimana andavo nel suo studio, e nei rimanenti due giorni della settimana non facevo che pensare a quando ci sarei andato. In genere rimanevo lì dalle otto alle quattro. Ho fatto questo per due mesi..." E ancora: "In quella classe c'erano persone come vecchie signore, ricche vecchie signore che venivano dalla Florida, che sedevano vicine ad un poliziotto fuori servizio, che sedeva vicino ad un autista di autobus, che sedeva vicino ad un avvocato... Tutti i generi di persone. Uno studente di arte che era stato cacciato da ogni università. Giovani ragazze che lo adoravano. Un paio di tipi seri che venivano lì e pulivano dopo le lezioni, pulivano solo il posto. Un sacco di differenti tipi di persone che tu non avresti mai pensato fossero interessate alla pittura. Ed infatti non si trattava di pittura, era qualcos'altro...”. Dylan confessò anche quanto furono fatali quei giorni di frequentazione con Norman, quanto i suoi insegnamenti e la sua influenza fossero diventati una questione scottante per quanto cambiarono in maniera così profonda, alterandola, la sua visione della vita, al punto che sua moglie Sara non riuscì più a comprenderlo, e questo fu uno dei principali fattori che contribuirono alla dissoluzione del loro matrimonio: "Quella cosa mi cambiò completamente. Andavo a casa e mia moglie non riusciva a capirmi. Non riuscì a capirmi dopo di allora. Fu in quel momento che il nostro matrimonio cominciò ad andare a rotoli. Sara non sapeva mai di cosa stessi parlando, o cosa stessi pensando. Nè io ero in grado di spiegarglielo".
E’ opinione largamente diffusa tra i dylanologhi che lo sfaldamento del matrimonio di Bob Dylan con Sara Lownds costituisca gran parte della tematiche trattate, oltreché in Tangled Up In Blue, anche nella stragrande maggioranza delle canzoni contenute in Blood On The Tracks. Distorsioni da burocrazia del pensiero o realtà? Comunque sia una tesi decisamente contrastata se nemmeno nel ristretto cerchio familiare dell’artista, e segnatamente tra Bob ed il figlio Jacob, esiste al riguardo uniformità di opinioni. Dylan non solo dichiarò che i brani erano stati ispirati dalla lettura dei racconti di  Anton Cechov, ma chiuse seccamente le porte ad ogni illazione sulla sua vita privata: “Ho letto che una canzone come You’re A Big Girl Now dovrebbe parlare di mia moglie. Vorrei che la gente parlasse con me prima di scrivere certe scemate”. Jacob però corrobora la tesi più diffusa tra fans e addetti ai lavori: “Non riesco ad ascoltare dischi come Blood On The Tracks… chi vorrebbe ascoltare canzoni che parlano di tuo padre e di tua madre che si stanno lasciando?”
In ogni caso è lì ancora tutto da ammirare il fascino di un portfolio sonoro dove la cura del dettaglio è pari allo slancio passionale. Ciò che infatti emerge con prepotenza da Blood On The Tracks è l'anima messa a nudo di Dylan, spoglia e vulnerabile come mai era stato prima: sentimento fatto in musica in cui Dylan si rivela cantore onirico delle latitudini più misteriose dell’animo umano, in grado di costruire quadretti intimisti in cui ci fa condividere il peso della sue esperienze personali, dei suoi problemi (anche matrimoniali: “Il mio matrimonio è stato un fallimento. Non sono stato certamente un buon marito e neanche so cosa significhi essere un buon marito”), del suo porsi domande esistenziali che poi erano quelle che si ponevano molti dei giovani nel frattempo cresciuti con lui e che ancora compravano i suoi dischi. Dylan: «Un sacco di persone mi dicono che amano quell'album. È difficile per me capirne il perché. Voglio dire, alle persone piace quel tipo di dolore?».
Difficile spiegare a chi non c’era cosa rappresentò Bob Dylan per i giovani degli anni ’60 e ’70, con i quali stabilì un’identificazione totale che andava ben oltre l’aspetto prettamente musicale; fù e tuttora è un musicista ed un poeta come pochi e come pochi sapeva e sa parlare a più di una generazione di ascoltatori, un meta-linguaggio riconosciuto da tutti, come in una sorta di universale coscienza del sentire. Non si creda con questo che, a volte, magari per troppo amore, tra l’artista ed i suoi estimatori non si creasse un cortocircuito di incomprensioni, quando non di autentica ostilità culturale da parte della cosiddetta “intellighenzia”. A tal proposito, rivedendo i primi anni ’70 di Dylan al rallentatore, è facile vedere come quello non fù un periodo tranquillo per il cantautore di Duluth. Tanto per cominciare le assurde persecuzioni di cui fu vittima da quando decise di stabilirsi a New York: la più incredibile fu il vero e proprio stalking che gli fece subire A. J. Weberman, “un tizio riccioluto dall'aria stramba, con un grosso paio di occhiali appoggiati in volto”, come da descrizione di Gabriele Benzing di Ondarock, in realtà un vero mentecatto totalmente fuori di testa, autoproclamatosi primo "dylanologo" e sorpreso più volte a frugare nel bidone dell'immondizia di fianco alla casa di Bob Dylan per adempiere alla strampalata missione di scoprire nella spazzatura di Mr. Zimmerman le prove della corruzione capitalista del suo idolo. “Finirà con una rissa in mezzo alla strada dopo l'ennesima vessazione” ci racconta ancora Benzing “ma il fatto è che da quando Dylan, alla fine del 1969, ha deciso di fare ritorno nella Grande Mela, la sua vita è diventata impossibile, perseguitato da esaltati che organizzano picchetti in nome di un sedicente "Dylan Liberation Front". "I momenti peggiori della mia vita sono stati quelli in cui ho cercato di riprendere contatto con il passato"  osserva Dylan in "Chronicles" "come quando tornai a New York. Non sapevo che cosa fare: tutto era cambiato". Poi ci furono le sferzanti critiche all’indirizzo dei due album pubblicati nel corso del 1970: prima Self Portrait, criticatissimo doppio accusato di frammentarietà e di essere un’accozzaglia di canzoni assemblate a casaccio, con, in sovrappiù, l’aggravante di alcuni inserti dal vivo provenienti dal festival dell’isola di Wight del ‘69 non all’altezza di un nome come il suo (in particolare un’imbarazzante Like A Rolling Stone, cantata con quello strambo timbro vocale da country crooner assunto da Nashville Skyline in poi ed in cui arriva persino a dimenticare le parole). "What is this shit?": l’incipit della recensione a firma Greil Marcus dalle pagine di Rolling Stone lascia poco spazio ai dubbi sull'impatto disastroso avuto da Self Portrait su addetti ai lavori e pubblico. Poi ancora New Morning, definito da molti una “presunta resurrezione” in cui però l’ispirazione e la qualità delle canzoni non erano più quelle dei tempi d’oro. Sarà necessaria la riesumazione di reperti effettuata nel 2013 titolata Another Self Portait 1969-1971 a rimettere le cose a posto rendendo giustizia a quella fase autodostruttiva ed iconoclasta dell’artista. In ogni caso le critiche ricevute all’epoca lasciarono il segno nell’animo sensibile del signor Zimmerman (il quale, diciamolo, è permaloso non poco) e sembrarono affondare la corazzata Dylan. Che infatti non darà più notizie di sé per tre interminabili, lunghissimi anni durante i quali resterà esiliato nella campagna vicino a Woodstock, rifugiandosi nelle mollezze della vita agreste in compagnia di moglie e figli. Unica eccezione nel 1971, quando, cedendo alle richieste dell’amico George Harrison, acconsentirà di salire on stage al Madison Square Garden per il Concert For Bangla Desh, dove, armato di sola chitarra e armonica, regalerà al mondo una delle sue migliori performances. Quando ricomparirà nel 1973, sarà per pubblicare, al posto di un vero album “dylaniato”, la colonna sonora di Pat Garrett & Billy The Kid, pellicola diretta da Sam Peckimpah in cui lo stesso Dylan reciterà una piccola parte. In quell’album era contenuta la divina Knockin’ On Heaven’s Door, ballata triste come un vicolo illuminato dalla luna e che da sola vale l’acquisto del disco. A quel punto però le cose si complicano ulteriormente: il nostro rompe con la Columbia/CBS – che si vendica mettendo sul mercato un album controverso, tutto costituito da cover che non avevano trovato posto in Self Portrait e lo intitola provocatoriamente Dylan – e si accasa con l’Elektra/Asylum di David Geffen, etichetta hip del momento (Eagles, Jackson Browne, Joni Mitchell). Con la nuova griffe pubblica nel 1974 Planet Waves, il vero album del ritorno che tutti attendevano, con la Band ad accompagnarlo in studio come ai tempi dei Basement Tapes e che per la prima volta schizza in testa alla classifica americana. Poi se ne va in tour con Robbie Robertson e compagni. Da quei concerti verrà tratto il materiale di Before The Flood, robusto doppio album live posto a suggello di quelle che chi c’era ricorda come infuocate esibizioni piene di sangue e sudore.
Com’era improvvisamente cominciato, però, l’intervallo con l’Asylum altrettanto repentinamente finisce: nell’estate del ’74 Dylan va in ritiro nella sua fattoria del Minnesota ed inizia a comporre gran parte dei brani che costituiranno l’ossatura di Blood On The Tracks. Contestualmente il nostro fa pace con la Columbia (che addirittura acquisterà i diritti dei due album Asylum per ripubblicarli in modo che sul mercato esistesse un solo Bob Dylan: quello targato Columbia/CBS) ed il 16 settembre del ’74 se ne va a New York per lavorare al nuovo disco. Lì prende possesso degli A&R Studios (in pratica il vecchio Studio A della Columbia dove erano stati registrati tutti i capolavori degli anni ’60) dove ritrova vecchi amici come John Hammond Sr., l’uomo che lo aveva fatto conoscere al mondo e Paul Griffin, tastierista che lo aveva accompagnato durante le sessions di Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde. Con il leggendario produttore Phil Ramone alla consolle, le registrazioni potevano avere inizio. Ma ciò che ne uscirà non sarà la versione definitiva di Blood On The Tracks, bensì un pugno di canzoni che verranno ricordate come le New York Sessions, foriere di un suono scarno, solo chitarra, voce, armonica e qualche tocco di tastiere, in un clima musicale da “buona la prima”. Sono le prime istantanee di Blood On The Tracks che contribuiranno a creare un alone di leggenda intorno al disco. Parte di queste registrazioni vedranno la luce parecchi anni più tardi su Biograph cofanetto del 1985 dove troverà posto You're A Big Girl Now, mentre nell’altro ponderoso tomo del 1991, The Bootleg Series Vol. 1 – 3,  proprio Tangled Up In Blue verrà affiancata da If You See Her, Say Hello  e Idiot Wind. Il fatto è che con la Columbia scalpitante e smaniosa di pubblicare il nuovo Dylan da piazzare in bella vista sotto l’albero di Natale, con addirittura gli acetati definitivi per la stampa dell'LP già preparati, Dylan si riserva di passare qualche giorno con la famiglia nel Minnesota durante le vacanze natalizie e lì succede l’imprevisto: fatte ascoltare le canzoni a suo fratello David, questi gli manifesta più di una perplessità per quelle che lui considera atmosfere troppo cupe. Bob aggrotta un sopracciglio, ma alla fine si fa convincere: ritorna precipitosamente in studio e registra daccapo almeno metà dell’album, facendosi accompagnare da musicisti locali. Quello che finalmente raggiungerà i negozi il 20 gennaio 1975 sarà uno degli album più belli della sua lunga carriera e una pietra miliare della storia del rock: un disco dalle atmosfere impalpabili, un’immagine sonora seducente con quel fascino angelico reso speciale da una scrittura insieme carnale e meravigliosamente ricercata da incuriosire i musicofili più smaliziati; un’opera che rilascia i suoi umori declinandosi in un suono sereno e spazioso, a tratti immenso e dai testi tanto emancipati poeticamente da far discutere i letterati. Bob Dylan era tornato più grande che mai.
Per quale motivo Dylan arrivò alla decisione tanto radicale di gettare alle ortiche senza rimpianti mezzo album già pronto per entrare in commercio (e questo la dice lunga su che razza di tipino fosse e, va da sé, ancora è, vedi la recentissima vicenda del Nobel) è presto detto: aveva capito che la coraggiosa mossa era quella azzeccata, quella che gli avrebbe permesso di avere tra le mani il grande disco che non riusciva a licenziare dai tempi di John Wesley Harding. Quando infatti l’autoritratto di Dylan effigiato sulla copertina di Blood On The Tracks  arriva nei records stores, il disco è già destinato alla vittoria. Basta guardare le classifiche di vendita che certificano Blood On The Tracks come l’album più venduto del nostro, trainato dal singolo Tangled Up In Blue che, va detto, probabilmente non avrebbe ricevuto l’airplay radiofonico che ricevette se non fosse stata reincisa. Ma tutto questo a Dylan non basta: da New York stavano arrivando folate di un vento nuovo che qualcuno già chiamava punk e lui lo percepisce, annusa l’aria e capisce che the times they are a-changing. Si sa che diventa uno strano uccello, insieme diurno e notturno, bulimico da crepare; moltiplicando le sue giornate per due, è un Bob Dylan che sta bruciando, come non gli accadeva da anni, di una passione artistica incontenibile. Frequenta il CBCG’s dove suona Patti Smith che lo colpisce al punto da celebrarne la performance in Isis, brano che andrà a completare il programma di Desire, il successivo album prossimo a venire; suona con Jack Elliott, si ubriaca con Phil Ochs, e con il vecchio amico Bob Neuwirth favoleggia di un’idea che lo ossessionava da anni: quella di tornare on the road e attraversare gli States per celebrare l’America e lo spirito del rock ‘n’ roll, come sembrano suggerire i versi conclusivi di Tangled Up In Blue: “Così ora sto tornando di nuovo indietro, devo raggiungerla in qualche modo. Tutte le persone che conoscevamo sono un’illusione per me ora. Alcuni sono matematici, altre sono mogli di carpentieri. Non so come sia iniziato tutto, non so cosa facciano delle proprie vite. Ma io sono sempre sulla strada diretto verso un altro incrocio. Abbiamo sempre provato le stesse cose solo che le vedevamo da un punto di vista differente. Aggrovigliati nella tristezza”.
Senza nessun battage pubblicitario e senza nessun  executive in giacca e cravatta che imponeva loro di rendersi presentabili, un incredibile circo di santi, vagabondi, ubriachi, poeti e musicisti stava per (ri)conquistare gli States: “Sarà come come un tuono fragoroso che rotola per l’America” Perché? “Perché credo sia quello che devo fare. Andare in tour è nel mio sangue”. La Rolling Thunder Revue era ormai alle porte.


Mauro Rollin On The River Uliana

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