Robert Zimmerman è partito nei primi anni '60 dalla provincia americana per cambiare il mondo con le sue canzoni. Scambiato all'inizio per un nuovo Woody Guthrie, fu chiaro fin da subito che lui invece era Bob Dylan, uno che aveva deciso di non stare più alle regole ma di riscriverle da capo. Fu così che aggiornò la tradizione folklorica alle istanze del presente. La sua carriera è stata un susseguirsi di ritiri, spesso forzati, dalle scene, rimpiazzati da trionfali ritorni. Così fu anche nel 1974, quando dopo un periodo di appannamento creativo, si ripresenta al mondo con i fidati pards della Band ed un album più che dignitoso come Planet Waves. Ma il capolavoro arriva l'anno successivo, quando Blood On The Tracks sbaraglia tutta la concorrenza e mette in mostra questa Tangled Up In Blue, un brano dalla bellezza e nudità disarmanti.
“Non sono mai stato soddisfatto di Tangled Up In Blue. Credo stessi cercando di farla assomigliare ad un dipinto. La versione su Real Live è molto più simile a come avrei voluto che fosse” (Bob Dylan). Il maestro mi scuserà se rispettosamente oso dissentire, ma per chi scrive l’originale contenuta in Blood On The Tracks resta insuperata. Pensare a Tangled Up In Blue significa pensare alla bellezza, ascoltarla significa tante meravigliose lacrime da piangere, scriverne significa la possibilità di dar voce al sublime attraverso la classica formula che si può sintetizzare nell’addizione di “bello” più “bello” uguale capolavoro. Ma ovviamente non sono solo i fattori estetici ad indurre molti a pensare che Tangled Up In Blue sia una pietra miliare. Dylan è sempre stato uno abituato a lavorare sull’eterno, un Picasso del rock che ha sempre cercato, esaltando le sue fervide invenzioni musicali, connubio e contatto con altre discipline artistiche: la pittura in primis, come magicamente avviene in Tangled Up In Blue, chiaro esempio di canzone “multi-dimensionale”. La song, infatti, si immerge felicemente in un amniotico connubio estetico e morale con l’opera di Norman Raeben, pittore e filosofo ucraino che ebbe un ruolo di primaria importanza nella vita e nell’arte di Dylan. La risultante è un’architettura sonora che flirta con la perfezione: "Stavo solo cercando di scriverla come fosse un quadro in cui tu puoi vedere le diverse singole parti ma puoi anche vedere il totale del dipinto. Con quella canzone in particolare era quello che stavo cercando di fare... con il concetto di tempo, ed il modo in cui i personaggi cambiano dalla prima persona alla terza persona, e non sei mai sicuro del tutto se stia parlando la terza o la prima. Ma quando getti uno sguardo d'insieme al totale non ha molta importanza". La struttura? Morbide volute di un basso che segna il tempo, elastico e pulsante; una batteria suonata in punta di bacchette che è un autentico coup de finesse a formare solide fondamenta alle esplorazioni di Dylan in territori romantici; intarsi di chitarre acustiche sospese in un clima rarefatto a fare da sfondo e ad impreziosire la song masticando la dura radice del folk e poi il lamento dell’armonica che sale in cattedra con folate che sembrano librarsi in volo e puntare diritto all’universo; su tutto la virtuosa voce di Dylan, madida di quelle nuances che sono il suo marchio di fabbrica, quel modo di cantare un verso in modo tale che ti penetri attraverso fino ad arrivare all’osso, a declamare testi colmi di un lancinante, straziante e ostinato dolore. Semplicissimo. Come un dipinto impressionista, verrebbe da dire. Dylan: «Quello che c'è di diverso è la presenza di un codice tra le parole del testo, ed inoltre non c'è un senso del tempo. Non c'è rispetto per esso. Hai ieri, l'oggi e il domani tutti insieme nella stessa stanza, e c'è veramente poco da immaginare che non stia succedendo». Dylan è un uomo con una marcia in più che hanno i predestinati baciati da Dio e Tangled Up In Blue, canzone dylaniata come poche, oltre ad essere il vertice emotivo di Blood On The Tracks, è anche un tormentato amalgama su cui si snodano gli equilibrismi melodici e la disperazione nascosta di uno dei musicisti più ispirati che la storia del rock ricordi. Un equilibrio oltremodo difficile se lo stesso Dylan affermò come per creare la canzone gli ci fossero voluti "dieci anni di vita e altri due per comporla".
Mettendo in chiaro fin da subito le credenziali
dell’album che la contiene, la canzone apre un capolavoro come Blood
On The Tracks, deliziosa creatura di prospettive elettroacustiche e
vertigini umorali, che contribuisce in modo imprescindibile all’innalzamento
emotivo della canzone americana. Anche il resto del programma nasce e si
sviluppa sotto l’influsso di Norman Raeben, avvicinando Dylan ad un diverso concetto di creazione artistica che gli da modo di
creare canzoni in cui è assente il concetto di tempo e che hanno le
caratteristiche di un dipinto. Ed è proprio in Tangled Up In Blue, nella sua
affascinante circolarità, dove volutamente il ritmo subisce un processo di
destrutturazione, che è possibile cogliere appieno l'influenza della lezione
filosofica del pittore ucraino, uno degli
incontri che più hanno influenzato la vita sia del Bob Dylan uomo che del Bob
Dylan artista. Come dichiarato da Dylan medesimo intorno alla metà degli anni
’70, Raeben arrivò ad influenzarlo a tal punto da fargli rinnovare il suo
approccio nella composizione delle canzoni. Ciononostante di lui, molto
stranamente data l'importanza e la centralità della sua influenza su Dylan, non
esiste traccia nelle biografie sul cantautore di Duluth che videro la luce
negli anni '80.
Dylan: "Cinque
giorni alla settimana andavo nel suo studio, e nei rimanenti due giorni della
settimana non facevo che pensare a quando ci sarei andato. In genere rimanevo
lì dalle otto alle quattro. Ho fatto questo per due mesi..." E ancora: "In quella classe c'erano persone come vecchie
signore, ricche vecchie signore che venivano dalla Florida, che sedevano vicine
ad un poliziotto fuori servizio, che sedeva vicino ad un autista di autobus,
che sedeva vicino ad un avvocato... Tutti i generi di persone. Uno studente di
arte che era stato cacciato da ogni università. Giovani ragazze che lo
adoravano. Un paio di tipi seri che venivano lì e pulivano dopo le lezioni,
pulivano solo il posto. Un sacco di differenti tipi di persone che tu non
avresti mai pensato fossero interessate alla pittura. Ed infatti non si
trattava di pittura, era qualcos'altro...”. Dylan
confessò anche quanto furono fatali quei giorni di frequentazione con Norman,
quanto i suoi insegnamenti e la sua influenza fossero diventati una questione
scottante per quanto cambiarono in maniera così profonda, alterandola, la sua
visione della vita, al punto che sua moglie Sara non riuscì più a comprenderlo,
e questo fu uno dei principali fattori che contribuirono alla dissoluzione del
loro matrimonio: "Quella cosa
mi cambiò completamente. Andavo a casa e mia moglie non riusciva a capirmi. Non
riuscì a capirmi dopo di allora. Fu in quel momento che il nostro matrimonio
cominciò ad andare a rotoli. Sara non sapeva mai di cosa stessi parlando, o
cosa stessi pensando. Nè io ero in grado di spiegarglielo".
E’ opinione largamente diffusa tra i dylanologhi che lo
sfaldamento del matrimonio di Bob Dylan con Sara Lownds costituisca gran parte
della tematiche trattate, oltreché in Tangled Up In Blue, anche nella
stragrande maggioranza delle canzoni contenute in Blood On The Tracks. Distorsioni da burocrazia del pensiero o realtà?
Comunque sia una tesi decisamente contrastata se nemmeno nel ristretto cerchio
familiare dell’artista, e segnatamente tra Bob ed il figlio Jacob, esiste al
riguardo uniformità di opinioni. Dylan non solo dichiarò che i brani erano stati ispirati dalla lettura
dei racconti di Anton
Cechov, ma chiuse seccamente le porte ad ogni illazione sulla sua vita privata: “Ho letto che una canzone come You’re A Big Girl Now
dovrebbe parlare di mia moglie. Vorrei che la gente parlasse con me prima di
scrivere certe scemate”. Jacob però corrobora la tesi più diffusa tra fans
e addetti ai lavori: “Non riesco ad ascoltare dischi come Blood On The
Tracks… chi vorrebbe ascoltare canzoni che parlano di tuo padre e di tua
madre che si stanno lasciando?”
In ogni caso è lì ancora
tutto da ammirare il fascino di un portfolio sonoro dove la cura del dettaglio
è pari allo slancio passionale. Ciò che infatti emerge con prepotenza da Blood On The
Tracks è l'anima messa a nudo
di Dylan, spoglia e vulnerabile come mai era stato prima: sentimento fatto in
musica in cui Dylan si rivela cantore onirico delle latitudini più
misteriose dell’animo umano, in grado di costruire quadretti intimisti in cui
ci fa condividere il peso della sue esperienze personali, dei suoi problemi
(anche matrimoniali: “Il
mio matrimonio è stato un fallimento. Non sono stato certamente un buon marito
e neanche so cosa significhi essere un buon marito”), del suo porsi
domande esistenziali che poi erano quelle che si
ponevano molti dei giovani nel frattempo cresciuti con lui e che ancora compravano
i suoi dischi.
Dylan: «Un sacco di persone mi dicono che amano quell'album. È difficile per
me capirne il perché. Voglio dire, alle persone piace quel tipo di dolore?».
Difficile spiegare a chi non c’era cosa rappresentò Bob
Dylan per i giovani degli anni ’60 e ’70, con i quali stabilì
un’identificazione totale che andava ben oltre l’aspetto prettamente musicale;
fù e tuttora è un musicista ed un poeta come pochi e come pochi sapeva e sa
parlare a più di una generazione di ascoltatori, un meta-linguaggio
riconosciuto da tutti, come in una sorta di universale coscienza del sentire. Non si creda con questo che,
a volte, magari per troppo amore, tra l’artista ed i suoi estimatori non si
creasse un cortocircuito di incomprensioni, quando non di autentica ostilità
culturale da parte della cosiddetta “intellighenzia”. A tal proposito, rivedendo i primi anni ’70 di
Dylan al rallentatore, è facile vedere come quello non fù un periodo tranquillo
per il cantautore di Duluth. Tanto per cominciare le assurde persecuzioni
di cui fu vittima da quando decise di stabilirsi a New York: la più incredibile fu il vero e proprio stalking
che gli fece subire A. J. Weberman, “un tizio riccioluto dall'aria stramba,
con un grosso paio di occhiali appoggiati in volto”, come da descrizione di
Gabriele Benzing di Ondarock, in realtà un vero mentecatto totalmente fuori di
testa, autoproclamatosi primo "dylanologo" e sorpreso più volte a
frugare nel bidone dell'immondizia di fianco alla casa di Bob Dylan per
adempiere alla strampalata missione di scoprire nella spazzatura di Mr.
Zimmerman le prove della corruzione capitalista del suo idolo. “Finirà con
una rissa in mezzo alla strada dopo l'ennesima vessazione” ci racconta
ancora Benzing “ma il fatto è che da quando Dylan, alla fine del 1969, ha
deciso di fare ritorno nella Grande Mela, la sua vita è diventata impossibile,
perseguitato da esaltati che organizzano picchetti in nome di un sedicente
"Dylan Liberation Front". "I momenti peggiori della mia
vita sono stati quelli in cui ho cercato di riprendere contatto con il
passato" osserva Dylan in
"Chronicles" "come quando tornai a New York. Non sapevo che
cosa fare: tutto era cambiato". Poi ci furono le sferzanti critiche
all’indirizzo dei due album pubblicati nel corso del 1970: prima Self
Portrait, criticatissimo doppio accusato di frammentarietà e di essere
un’accozzaglia di canzoni assemblate a casaccio, con, in sovrappiù,
l’aggravante di alcuni inserti dal vivo provenienti dal festival dell’isola di
Wight del ‘69 non all’altezza di un nome come il suo (in particolare
un’imbarazzante Like A Rolling Stone, cantata con quello strambo timbro
vocale da country crooner assunto da Nashville Skyline in poi ed
in cui arriva persino a dimenticare le parole). "What is this shit?": l’incipit
della recensione a firma Greil Marcus dalle pagine di Rolling Stone lascia poco
spazio ai dubbi sull'impatto disastroso avuto da Self Portrait su addetti ai lavori e pubblico. Poi ancora New Morning,
definito da molti una “presunta resurrezione” in cui però l’ispirazione e la
qualità delle canzoni non erano più quelle dei tempi d’oro. Sarà necessaria la
riesumazione di reperti effettuata nel 2013 titolata Another Self Portait
1969-1971 a rimettere le cose a posto rendendo giustizia a quella fase
autodostruttiva ed iconoclasta dell’artista. In ogni caso le critiche ricevute
all’epoca lasciarono il segno nell’animo sensibile del signor Zimmerman (il
quale, diciamolo, è permaloso non poco) e sembrarono affondare la corazzata
Dylan. Che infatti non darà più notizie di sé per tre interminabili,
lunghissimi anni durante i quali resterà esiliato nella campagna vicino a
Woodstock, rifugiandosi nelle mollezze della vita agreste in compagnia di
moglie e figli. Unica eccezione nel 1971, quando, cedendo alle richieste dell’amico
George Harrison, acconsentirà di salire on stage al Madison Square Garden per
il Concert For Bangla Desh, dove, armato di sola chitarra e armonica,
regalerà al mondo una delle sue migliori performances. Quando ricomparirà nel
1973, sarà per pubblicare, al posto di un vero album “dylaniato”, la colonna
sonora di Pat Garrett & Billy The Kid, pellicola diretta da Sam
Peckimpah in cui lo stesso Dylan reciterà una piccola parte. In quell’album era
contenuta la divina Knockin’ On Heaven’s Door, ballata triste
come un vicolo illuminato dalla luna e che da sola vale l’acquisto del disco. A
quel punto però le cose si complicano ulteriormente: il nostro rompe con la
Columbia/CBS – che si vendica mettendo sul mercato un album controverso, tutto
costituito da cover che non avevano trovato posto in Self Portrait e lo
intitola provocatoriamente Dylan – e si accasa con l’Elektra/Asylum di
David Geffen, etichetta hip del momento (Eagles, Jackson Browne, Joni
Mitchell). Con la nuova griffe pubblica nel 1974 Planet Waves, il vero
album del ritorno che tutti attendevano, con la Band ad accompagnarlo in studio
come ai tempi dei Basement Tapes e che per la prima volta schizza in
testa alla classifica americana. Poi se ne va in tour con Robbie Robertson e
compagni. Da quei concerti verrà tratto il materiale di Before The Flood,
robusto doppio album live posto a suggello di quelle che chi c’era ricorda come
infuocate esibizioni piene di sangue e sudore.
Com’era improvvisamente cominciato, però, l’intervallo
con l’Asylum altrettanto repentinamente finisce: nell’estate del ’74 Dylan va
in ritiro nella sua fattoria del Minnesota ed inizia a comporre gran parte dei
brani che costituiranno l’ossatura di Blood On The Tracks.
Contestualmente il nostro fa pace con la Columbia (che addirittura acquisterà i
diritti dei due album Asylum per ripubblicarli in modo che sul mercato
esistesse un solo Bob Dylan: quello targato Columbia/CBS) ed il 16 settembre
del ’74 se ne va a New York per lavorare al nuovo disco. Lì prende possesso
degli A&R Studios (in pratica il vecchio Studio A della Columbia dove erano
stati registrati tutti i capolavori degli anni ’60) dove ritrova vecchi amici
come John Hammond Sr., l’uomo che lo aveva fatto conoscere al mondo e Paul
Griffin, tastierista che lo aveva accompagnato durante le sessions di Highway
61 Revisited e Blonde On Blonde. Con il leggendario produttore Phil
Ramone alla consolle, le registrazioni potevano avere inizio. Ma ciò che ne
uscirà non sarà la versione definitiva di Blood On The Tracks, bensì un
pugno di canzoni che verranno ricordate come le New York Sessions,
foriere di un suono scarno, solo chitarra, voce, armonica e qualche tocco di
tastiere, in un clima musicale da “buona la prima”. Sono le prime istantanee di
Blood On The Tracks che contribuiranno a creare un alone di leggenda
intorno al disco. Parte di queste registrazioni vedranno la luce parecchi anni
più tardi su Biograph cofanetto del 1985 dove troverà posto You're A Big
Girl Now, mentre nell’altro ponderoso tomo del 1991, The Bootleg
Series Vol. 1 – 3, proprio
Tangled Up In Blue verrà affiancata da If You See Her,
Say Hello e Idiot
Wind. Il fatto è che con la Columbia scalpitante e smaniosa di pubblicare il
nuovo Dylan da piazzare in bella vista sotto l’albero di Natale, con addirittura
gli acetati definitivi per la stampa dell'LP già preparati, Dylan si
riserva di passare qualche giorno con la famiglia nel Minnesota durante le
vacanze natalizie e lì succede l’imprevisto: fatte ascoltare le canzoni a suo
fratello David, questi gli manifesta più di una perplessità per quelle che lui
considera atmosfere troppo cupe. Bob aggrotta un sopracciglio, ma alla fine si
fa convincere: ritorna precipitosamente in studio e registra daccapo almeno
metà dell’album, facendosi accompagnare da musicisti locali. Quello che
finalmente raggiungerà i negozi il 20 gennaio 1975 sarà uno degli album più
belli della sua lunga carriera e una pietra miliare della storia del rock: un
disco dalle atmosfere impalpabili, un’immagine sonora seducente con quel
fascino angelico reso speciale da una scrittura insieme carnale e
meravigliosamente ricercata da incuriosire i musicofili più smaliziati;
un’opera che rilascia i suoi umori declinandosi in un suono sereno e spazioso,
a tratti immenso e dai testi tanto emancipati poeticamente da far discutere i
letterati. Bob
Dylan era tornato più grande che mai.
Per quale motivo Dylan arrivò alla
decisione tanto radicale di gettare alle ortiche senza rimpianti mezzo album
già pronto per entrare in commercio (e questo la dice lunga su che razza di
tipino fosse e, va da sé, ancora è, vedi la recentissima vicenda del Nobel) è
presto detto: aveva capito che la coraggiosa mossa era quella azzeccata, quella
che gli avrebbe permesso di avere tra le mani il grande disco che non riusciva
a licenziare dai tempi di John Wesley Harding. Quando infatti
l’autoritratto di Dylan effigiato sulla copertina di Blood On The Tracks arriva nei records
stores, il disco è già destinato alla vittoria. Basta guardare le
classifiche di vendita che certificano Blood
On The Tracks come l’album più
venduto del nostro, trainato dal singolo Tangled Up In Blue che,
va detto, probabilmente non avrebbe ricevuto l’airplay radiofonico che
ricevette se non fosse stata reincisa. Ma tutto questo a Dylan non basta: da
New York stavano arrivando folate di un vento nuovo che qualcuno già chiamava
punk e lui lo percepisce, annusa l’aria e capisce che the times they are
a-changing. Si sa che diventa uno strano uccello, insieme diurno e
notturno, bulimico da crepare; moltiplicando le sue giornate per due, è un Bob
Dylan che sta bruciando, come non gli accadeva da anni, di una passione
artistica incontenibile. Frequenta il CBCG’s dove suona Patti Smith che lo
colpisce al punto da celebrarne la performance in Isis, brano che andrà
a completare il programma di Desire, il successivo album prossimo a
venire; suona con Jack Elliott, si ubriaca con Phil Ochs, e con il vecchio
amico Bob Neuwirth favoleggia di un’idea che lo ossessionava da anni: quella di
tornare on the road e attraversare gli States per celebrare l’America e
lo spirito del rock ‘n’ roll, come sembrano suggerire i versi conclusivi di Tangled
Up In Blue: “Così
ora sto tornando di nuovo indietro, devo raggiungerla in qualche modo.
Tutte le persone che conoscevamo sono
un’illusione per me ora. Alcuni sono
matematici, altre sono mogli di
carpentieri. Non so come sia iniziato
tutto, non so cosa facciano delle
proprie vite. Ma io sono sempre sulla
strada diretto verso un altro incrocio.
Abbiamo sempre provato le stesse cose solo che le vedevamo da un punto di vista
differente. Aggrovigliati nella
tristezza”.
Senza
nessun battage pubblicitario e senza nessun
executive in giacca e cravatta che imponeva loro di rendersi
presentabili, un incredibile circo di santi, vagabondi, ubriachi, poeti
e musicisti stava per (ri)conquistare gli States: “Sarà come come un tuono
fragoroso che rotola per l’America” Perché? “Perché credo sia quello che
devo fare. Andare in tour è nel mio sangue”. La Rolling Thunder Revue era ormai alle
porte.
Mauro Rollin On The River Uliana
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