martedì 3 ottobre 2017

God Save The Queen - Sex Pistols (1977)




Quanto è durato davvero il punk? Estremizzando al massimo, potremmo dire più o meno quaranta minuti, il tempo in pratica del debutto dei Sex Pistols Never Mind The Bollocks. E’, questo disco, un meraviglioso oltraggio, nonché il momento più alto ed il canto del cigno di un movimento che partito dal malcontento giovanile nella New York della “blank generation” era attecchito a Londra diventando vera e propria isterica ribellione, di cui presto sarebbero rimaste solo le ferite, le fratture, i solchi diagonali. Le nuove generazioni avevano ripreso ad usare il rock come una rivoltella e il nichilismo duro e inaccessibile di un manipolo di anarchici e anticristi, di giovani fiori nella spazzatura, diventò propriamente manifesto estetico con God Save The Queen, inno dell’insubordinazione di classe con la voce farsesca e violenta di Johnny Rotten, i testi grondanti accusa ed un suono saturo sposato a ritmiche parossistiche.



“Il rock ‘n’ roll è la forma espressiva più schifosa, volgare e malefica, è un afrodisiaco pestilenziale, è la musica preferita da tutti i delinquenti della terra” (Frank Sinatra, 1957)
Buongiorno, mondo. E molto cordialmente fuck you a tutti. E’ il 27 maggio 1977 quando, per la gioia del vecchio Frank e della sua gastrite, God Save The Queen vede la luce e, nonostante il boicottaggio delle stazioni radio, scodella i Sex Pistols sulla vetta della Top Ten. Il nichilismo è il nuovo verbo. Il "no future" la sua parola d'ordine, diffusa coram populi da quattro irriverenti mocciosi tutti - con la sola eccezione del bassista Glen Matlock – disagiati e alle prese con situazioni personali e familiari tormentate, e per questo desiderosi di esternare il loro odio e il loro scontento. Come scrive Jon Savage nel suo saggio sulla band "il gruppo era legato ad un doppio vincolo: individui intelligenti all'interno di una cultura proletaria che non dava valore all’intelligenza, d’altro canto incapaci di affrancarsi da quella cultura per mancanza di possibilità. Il risultato? Una frustrazione terribile". Dando voce alle angosce, ai turbamenti e alla rancorosa incazzatura di una generazione frustrata, i Sex Pistols impersonarono simbolicamente e sostanzialmente l’essenza di una ribellione, musicale e non, che tra il '76 e il '78 tutti avremmo imparato a conoscere come “punk”. Sono trascorsi più di quattro decadi da quei giorni incendiari, tuttavia la loro portata storica è andata via via aumentando con il trascorre degli anni e le loro istanze sono, soprattutto oggi, più giustificate e attuali che mai, avendo conservato un valore sociale che non ha perso una sola oncia della sua consistenza: con le loro provocazioni, le loro invettive incazzate e i loro concerti fuori controllo, Johnny Rotten e compagni non hanno solo rivoluzionato l'approccio al rock, ma anche alla cultura tout-court (se preferite chiamatela pure sottocultura), all’estetica e alla realtà, diventando un modello attitudinale attraverso cui le ingiustizie e le storture di un mondo sinistro e irredimibile vengono gridate in faccia allo spettatore con furibonda incisività e senza mezze misure.
Oggi, i Sex Pistols hanno ormai messo d’accordo tutti (o quasi) e il popolo del rock li ha elevati al rango di icone immortali che possono guardare dritto negli occhi gente come i Velvet Underground, i Rolling Stones, i Roxy Music o David Bowie. Non soltanto hanno trovato felice e diuturna collocazione nel pantheon degli eroi musicali quali esponenti supremi dei rabbiosi giorni del punk, ma anche come una band seminale che ha esteso un influenza, che definire enorme sarebbe un eufemismo, su tutto il maelstrom che avrebbe agitato il futuro del rock. E si badi bene che non si tratta di un’immagine retorica ma assolutamente reale: infatti il 24 febbraio 2006, nonostante il gesto di “punkitudine” suprema consistito in uno sprezzante "gran rifiuto" a partecipare ad una kermesse che consideravano simbolo di tutto ciò contro avevano sempre combattuto, il gruppo è entrato materialmente, anche se in contumacia, a far parte della Rock’n’Roll Hall of Fame insieme a tutti gli altri grandi sacerdoti del rock.  Un onore ed un invito che però i quattro ormai maturi rockers non ebbero esitazioni a declinare, deridendo la Hall Of Fame, ribattezzata nella circostanza Hall Of Shame (gioco di parole da fame cioè "fama" a shame, "vergogna"). Non contenti, per rendere ancor più apertis verbis la loro sdegnosa ricusazione, i nostri fecero pervenire al museo una comunicazione traboccante di ingiurie, oltraggiandolo con la frase Hall of Fame, kiss this!" (“Hall of Fame, bacia questo” intendendo con “questo”… beh avete capito, no?). Secondo Jones: “Se volessi essere messo in un museo non sarebbe certo la Hall of Fame; perché non lo vogliono i fans, ma le persone che ti portano a farlo o che sono già dentro di esso”.
Allo stesso modo, il loro Never Mind The Bollocks è oggi sempre presente in ogni trattazione sui principali album-cardine della storia del rock - per intenderci, quelli che tracciano una linea netta tra un prima e un dopo - a dimostrazione che partendo da pochi accordi rabbiosi e suonati velocissimamente si poteva arrivare molto, molto lontano.
Nell’anno del quarantennale di God Save The Queen, quel gruppo insolente e sfrontato, dal suono spigoloso e distorto, sembra essere  dunque stato irrevocabilmente accettato, "storicizzato". Medesimo destino accomuna le Pistole Del Sesso ad altri trasgressivi rivoluzionari come i soliti Rolling Stones e Velvet Underground, Elvis “The Pelvis” e tanti altri giovani, rumorosi e mocciolosi: guardati con sospetto all’epoca e venerati oggi. Può essere dunque facilmente immaginata la mia incredulità mista a diffidenza quando, facendo zapping davanti alla TV, mi sono imbattuto in un programma sugli insetti, mandato in onda da Focus, in cui un Johnny Rotten, ormai definitivamente Lydon, era l’entusiasta anfitrione. C’è un senso di deja vù in tutto questo: una storia che abbiamo sentito millanta volte che accomuna non soltanto i protagonisti del rock, ma anche quelli dell’arte e della letteratura: scandalosi ed eversivi negli anni verdi, ma poi a mano a mano accettati e, come dire, “istituzionalizzati”.
Però, volendo andare un po’ più a fondo, possiamo osservare come nel caso dei Sex Pistols la rilevanza delle loro provocazioni non sia stata ancora del tutto assorbita. Allo stesso modo in cui ancora oggi il panorama dell’arte non ha completamente metabolizzato le coraggiose sfide poste da alcune tra le più provocatorie avanguardie, analogamente Johnny Rotten e soci, pur senza mettere in discussione la loro storicità ormai data per acquisita, spesso suscitano ancora animate discussioni e si collocano nei confronti della storia del rock ‘n’ roll come un caso dalla singolarità unica, un’incongruenza che sconvolge tutti i parametri per la definizione di un canone estetico del rock condotta su basi squisitamente sonore e armoniche. Il tutto, nonostante i nostri abbiano rilasciato per i posteri un pugno di regisrazioni che definire esigue sarebbe un eufemismo. Non si ricorda, infatti, in tutta la storia del rock un'altra formazione che sia assurta ad un empireo di tale fama, pur potendo vantare un songbook così striminzito: quattro singoli e un album, tappa fondamentale e indispensabile, è il lascito (perlomeno quello che veramente conta) di questi quattro iconoclasti nichilisti, un’eredità destinata a lasciare un segno fortissimo per il futuro del rock universale. Quello che avanza, sono solo avanzi (per l'appunto): uno sparuto drappello di inediti, alcune cover, il tutto parcellizzato in un nutrito drappello di raccolte postume, live album e bootleg, tutti grossomodo ufficiali e tutti grossomodo inutili, che oltretutto il più delle volte si sono dimostrati al limite dell’ascoltabilità, potendo esibire registrazioni dalla dubbia qualità, a dir poco. 
Estremamente breve è stata anche la carriera del gruppo, consumatasi come un fiammifero nell’arco di poco più di due anni, e che è possibile sostanzialmente inquadrare in due date: il 6 novembre del 1975, giorno dell’esordio su di un palco, e il 14 gennaio 1978, data dell’ultimo concerto dato dalla band nella sua formazione completa. I più attenti fra gli esegeti non mancheranno senz’altro di osservare come la band sia rimasta, seppur formalmente, in attività per ulteriori dodici mesi; è vero, anche se, onestamente, quello che è accaduto in tale lasso di tempo - con l’estenuante trafila delle lunghe e logoranti battaglie legali tra John Lydon e Malcolm McLaren – con tutto ha a che vedere tranne che con la musica. 
La vicenda dei Sex Pistols, quantunque di breve durata, è densa di date, di eventi, di protagonisti, nonché di relazioni e scambi culturali (senza escludere un alto tasso di rivalità) tra Londra e New York. Le scarse uscite discografiche sono ovviamente i principali capitoli di questa storia intensa ed icastica, ma esse sole non consentirebbero mai di comprendere appieno il significato sociale e politico di uno sconvolgimento e sovvertimento delle regole vissuti sul campo (e sul palco) dai protagonisti del punk settantasettino. Fuorviante e decisamente superficiale, quindi, considerare i Sex Pistols soltanto un gruppo musicale. Furono infatti molto di più: un progetto eversivo a tutto tondo che accomunava band e pubblico, tanto per cominciare, una battaglia estetica (le spille da balia, l’improbabile trucco e le ancor più improbabili capigliature della punk generation), un canone comportamentale (il pogo e gli sputi sul palco) e una trafila di slogan. Ovviamente il riferimanto è al “no future” di God Save The Queen che Johnny Lydon, novello Orlando Furioso, brandisce come un’implacabile durlindana a menar fendenti per far prendere coscienza agli incazzati di tutto il mondo conosciuto, o Problems dove il titolo della canzone ci  viene sputato in faccia e catatonicamente ripetuto ad libitum da un canto alienato, oppure ancora il demoniaco destroy, suggello rauco ed inquietante posto in calce alla barricadera Anarchy In The U.K., grezza e adrenalinica, che possiede l’autorevolezza dell’inno e che già nell’incipit esibisce uno scioccante e provocatorio "I am an anti-christ, I am an anarchist". Furono comunque soprattutto i portabandiera di una scuola musicale e di un modo di pensare e agire di immenso rilievo storico e culturale.  Intimamente legate alla storia dei Sex Pistols giova ricordare, inoltre, le vicende di un nutrito manipolo di anarchici e anticristi loro coevi. I nomi dovreste conoscerli: Clash, Damned, Siouxie & The Banshees, Stranglers e tanti altri fiori nella spazzatura nati nello stesso ambiente e partecipi degli stessi eventi.
Si rende necessaria a questo punto soltanto un ultimo ragionamento: spesso viene posta la questione riguardante quanta importanza si debba attribuire ai Sex Pistols per la comparsa ed il successivo planetario consenso di cui avrebbe goduto il punk. La prima considerazione che mi sento di fare è questa: occorre ammettere che quello delle Pistole del Sesso sul punk sia stato un imprimatur pesantissimo, intendendo dire con questo che senza Rotten e soci, quel ginepraio, musicale e non, che oggi è il punk non ci sarebbe mai stato nella forma in cui c'è stato e, dunque, esso non sarebbe giunto fino a noi per come lo intendiamo (o, più probabilmente, non sarebbe affatto giunto fino a noi).
Ma ora andiamo agli anni ’70, precisamente nella Londra del 1971. La prefazione alla storia del quartetto londinese porta la firma di un venticinquenne Malcolm McLaren quando, insieme alla compagna Vivienne Westwood (più tardi noto impresario il primo e celebre stilista la seconda), apre Let It Rock, un negozio con annesso laboratorio di sartoria specializzato nel confezionamento e nella commercializzazione di abiti vintage, situato al civico 430 di King's Road. McLaren era un studente d’arte alquanto stravagante che, nel corso degli anni 60, era stato attratto da alcune frange della corrente politico-artistica detta Situazionismo, facendone proprie tesi e istanze. E se pensiamo che una delle tesi del movimento promuoveva il compiere azioni assurde e provocatorie come mezzo per cambiare la società, tanti avvenimenti (o “situazioni”, è proprio il caso di dirlo) che vedranno protagonisti i Sex Pistols acquisteranno maggior senso.
Nei primissimi anni 70, il nostro viene ghermito dalle spire della passione per il rock'n'roll degli anni 50 e, contemporaneamente, inizia a sviluppare una viscerale repulsione per tutto ciò che odora di flower power e cultura hippie: intuendo che si fosse ormai esaurita la carica propulsiva della musica dei figli dei fiori, si propone come obiettivo precipuo quello di affrettarne la scomparsa.
Con queste idee, il giovane McLaren l’anno seguente ribattezza il negozio Too Fast To Live, Too Young To Die: uno slogan che si rifà al mito di James Dean e al culto della velocità e delle bande di bikers. McLaren e la Westwood cominciano a creare abiti sempre più aggressivi e scandalosi e presto nel negozio si possono incontrare personaggi di grosso calibro dell’universo musicale londinese: i Kinks, Jimmy Page, Iggy Pop.
Nell’estate del '73, McLaren vola negli Stati Uniti dove entra in contatto con i New York Dolls (dei quali nel 1975 diventerà il manager) rimanendo fulminato dalla loro eccitante miscela di T. Rex, Rolling Stones, Aerosmith, Alice Cooper e rock ‘n’ roll primigenio. Rientrato alla base decide di gettare alle ortiche il filone teddy boys: pur conservando ancora tracce, se pur labili, del culto dei roaring fifties, il locale viene ribattezzato Sex indirizzandosi verso il mercato degli articoli bondage e feticisti. Ed è proprio il mondo contiguo ai due stilisti il luogo dove comincerà a montare il brodo di cultura che darà vita al punk, Sex Pistols compresi. 
A questo proposito, spesso l’idea comune è che tutto il movimento settantasettino sia stato un hype abilmente creato dal burattinaio Mc Laren e dalle sue marionette di nome Sex Pistols. La storia ci ha raccontato una vicenda profondamente diversa: innanzitutto l'idea di mettere in piedi il gruppo non non partì da McLaren, bensì dal futuro chitarrista Steve Jones. Il ragazzo, all’epoca diciassettenne, strimpellava in una band di belle speranze chiamata Strand. Con lui un altro giovane sbarbato e futuro membro dei Sex Pistols: il batterista Paul Cook. Lascio all’imaginazione del lettore la sequela di scorribande in fumosi pub di periferia e scalcagnate prove con cui tentare di costruirsi un repertorio. Capendo come gli Strand non stessero andando da nessuna parte, Steve Jones decide di giocare la carta Malcolm McLaren. In testa alla want list di Jones c’è Glen Matlock, un giovane frequentatore di Sex, e dopo molteplici insistente il nostro convince McLaren ad organizzare l’incontro. Glen è un bassista che possiede buone doti strumentali, unite ad una sana voglia di arrivare ed il suo operoso contributo porta gli Strand ad organizzarsi in maniera più professionale: prove più serie e regolari ed una fattiva ricerca di un valido cantante la cui mancanza affligge la band. Quasi ovvi i nomi dei gruppi cui gli Strand guardano: in primis gli Who e a seguire Small Faces, Kinks, e primi Rolling Stones.
Palesemente ancora disinteressato al progetto di Jones, nell’inverno del '74 McLaren attraversa per la seconda fiata l’Atlantico alla volta ancora di New York. Nella Big Apple trova i New York Dolls reduci dal secondo album Too Much, Too Soon che, come si evince fin da un titolo che più emblematico non si potrebbe – Troppo e Troppo Presto  certifica un momento di frustrazione per  la band di David Johansen. L’album viene accolto tiepidamente anche dalla critica e a poco varrà il tentativo di McLaren di rilanciare l’immagine del gruppo con l’abbigliamento di Sex, visto l’inarrestabile declino delle Bambole che inizierà di lì a pochi mesi, fino allo split definitivo certificato, dopo due anni di accanimento terapeutico e di irreversibile allontanamento dallo stardom, proprio nel 1977.
Riguardo McLaren, comunque, la trasferta newyorkese si dimostra proficua e rivelatrice: frequentando locali come  il CBGB (1) e il Max’s Kansas City egli tocca con mano il vento nuovo che sta spazzando le strade della Lower East Side: la frequentazione con Richard Hell e soprattutto la freschezza in action di Ramones, Television e Patti Smith, rivelano a McLaren che c’è veramente un clima nuovo e frizzante nell’aria, un sentore di qualcosa di grande che sta accadendo nel rock ‘n’ roll. Ma soltanto nel crogiolo londinese quel "qualcosa" sarebbe assurto a piena coscienza di sé, diventando quella rivoluzione giovane, ribelle e scandalosa che sarà il punk. Si potrebbe dire che il punk è esploso a Londra perché, in qualche modo, era già presente nell'immaginario collettivo inglese. Lo scaltro manager non può assolutamente mancare di far proprio a tutti i costi questo nuovo fenomeno musicale underground. Eccitatissimo rientra a Londra con il cervello che gli scoppia di idee e l’entusiasmo di un bambino che ha appena scoperto dove si trova il laboratorio di Babbo Natale. La prima mossa è quella di dedicarsi anima e corpo agli Strand che già hanno ricevuto il battesimo del palco. La questione della mancanza di un cantante all’altezza continua ad essere spinosa e Steve Jones non può continuare a ricoprire un ruolo troppo cruciale per essere lasciato al primo disponibile: meglio fare un passo di lato ed abbandonare il microfono nelle mani di qualcuno più qualificato. Lui si sarebbe concentrato sul miglioramento della sua tecnica alla chitarra. Nei desiderata di McLaren il posto d’onore è occupato da Richard Hell o Syl Sylvain dei New York Dolls. Il secondo viene anche messo in contatto con Jones e gli altri, ma tutto sfuma in un nulla di fatto.
Il problema trova definitiva soluzione con la comparsa sulla scena di un singolare personaggio, un altro frequentatore abituale di Sex che è solito farsi vedere in giro assieme al suo inseparabile compagno di “merende” Sid. Di nome fa John Lydon ed il fatto di essere uno  scapestrato e disadattato il giusto, apparentemente pare non porre problemi al resto della band. Possiede anche un’indole introversa ed i suoi gusti musicali sono quanto di più inconsueto si possa trovare in una Londra in odore di punk rock. Spaziare infatti dal reggae a Captain Beefheart è quanto di più meravigliosamente incoerente si possa trovare tra il rockologo medio dei tardi settanta. Mettendo sul piatto della bilancia le proprie capacità di sconcertante istrione sin dalla prima audizione, John Lydon muta quasi subito pelle per trasformarsi in Johnny Rotten (rotten significa marcio, riferito alla sua dentatura cariata, una delle immagini iconiche del punk inglese), l’animale da palcoscenico che con le sue doti innate e il suo magnetismo organizzerà un piccolo teatro disadorno in cui si metterà in scena l’assurdo, allo squassante ritmo di un rock riportato alla sua più nuda essenzialità. Manca solo il nome: sarà McLaren a sguainare in faccia al mondo una sconcezza pungente e destinata ad implementare lo scandalo ed offendere il comune senso del pudore. Le Pistole del Sesso. Poteva la provocazione superare un tale limite? Potrà, potrà ed ai bigotti e ai benpensanti non mancheranno di lì a non molto né preoccupazioni né ragioni per gridare allo scandalo. Quanto ai motivi per scagliare anatemi all’indirizzo della band, li forniranno loro in abbondanza i quattro Pistols. C’è comunque del metodo nell’ennesima sfida irrispettosa, laddove il "Sex" è un riferimento promozionale al suo negozio, mentre le pistole… beh, le pistole sono esattamente quello cui state pensando anche voi. Ad ogni modo, Ladies and gentlemen, here’s the Sex Pistols, finalmente pronti per la loro sgangherata rivoluzione musicale.  
Non è un amore a prima vista quello tra gli affiliati di questo drappello di ribelli, tra loro la tensione è latente ed il gruppo sembra essere sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Steve Jones a proposito del suo primo incontro con Johnny Lydon: «Entrò con i capelli verdi. Pensai che aveva una faccia veramente interessante. Il suo look mi piacque. Aveva indosso una t-shirt con su scritto 'Odio i Pink Floyd’. Johnny aveva qualcosa di speciale, ma quando parlò, capii che era un vero coglione.» Matlock era fatto segno di sospetto e diffidenza da parte degli altri, per via della sua aria da ragazzo troppo "normale", Lydon era fatto segno di altrettanto sospetto e diffidenza per ragioni esattamente opposte. Le scintille più pericolose si sarebbero presto innescate proprio tra Matlock e Lydon: il primo era l’uomo del pentagramma e incarnava l’anima più “pop” del gruppo, il secondo ne era l'antitesi. Il primo diventerà l'autore della maggior parte delle musiche, il secondo dei testi. Comunque sia, a McLaren non dispiaceva affatto questa perenne tregua armata, giudicandola una vitale contrapposizione che si rivelerà perfettamente funzionale ai fini di un gruppo situazionista come i Pistols. Sarebbe stata proprio la tensione tra gli opposti a dar vita alla loro fragile alchimia e a renderli immortali.
Va in ogni caso riconosciuto che se i Sex Pistols diventarono uno dei gruppi che cambiarono e stravolsero gli orizzonti del rock, gran parte del merito fu dell’innato istrionismo e del magnetico carisma di John Lydon, che sul palco esaltava naturalmente le sue doti di trascinatore dal fascino sciamanico. I suoi salmi blasfemi e le sue cadenze furiose, allucinate e mattoidi, l’impeto e la veemenza della voce, hanno reso Lydon uno dei gridi più schizofrenici e identificabili della storia del rock: insieme alla sua maschera grottesca e alle sue inconfondibili pose, sono ciò che convertiva qualsiasi spettacolo dei musicisti in un rito pagano esteticamente memorabile ed officiato con un ardore quasi epico. Sin dalle prime performances, i Sex Pistols indicarono la via di un inedita fruizione del rock e sconvolsero il parametro che regolva l’interazione tra musicisti e pubblico: si fomentavano l'avversione e il dissidio piuttosto che cercare l’applauso, e le situazioni che man mano si sviluppavano sul palco assumevano più rilevanza  che non la mera performance sonora.
Coadiuvato da Vivienne Westwood, McLaren dava sostegno al gruppo implementando di continue provocazioni le esibizioni live: arricchì il già provocatorio guardaroba di Johnny Rotten con la celebre maglietta "anarchy", sulla quale campeggiava l’effige di Carl Marx e suscitò un vero scalpore da autore escogitando l’ancor più celebre maglietta "destroy", che affiancava all’anticristo un’enorme  svastica. Era una spregiudicata e facinorosa anarchia di icone e significati che metteva in risalto contemporaneamente tanto la militanza del gruppo quanto la sua sfuggente ambiguità politica, attirando su di sé il consenso e la riprovazione tanto dell’estrema destra che dell’estrema sinistra. Benché l'ostentazione di simbologie naziste da parte di un gruppo non fosse un inedito assoluto (si possono contare i casi di Stooges e poi New York Dolls), nessuno mai come McLaren aveva trasferito nell'estetica del rock questa istigazione allo scontro, osando spingerla ad un livello difficilmente superabile.
Il 6 novembre 1975 il gruppo sale on stage per la sua prima data live e con la sfrontatezza che per sempre li contraddistinguerà affrontano il pubblico armati di un repertorio di sole cinque canzoni. E’ in quest'occasione che John Lydon si esibisce indossando la celebre t-shirt dei Pink Floyd con sopra scritto a mano "I hate". Dichiarando odio eterno alla stagione del "peace and love", i Sex Pistols si ergono a rumorosi portavoce di una guerra intestina mai vista in precedenza tra diverse generazioni rock e si mettono a capo della loro personale rivolta contro le fastose rockstar miliardarie e quelli che loro considerano i dinosauri del progressive.  Infatti, il “noi contro di loro” dei Sex Pistols è più un antagonismo a livello estetico che politico. Gli slogan provocatori e gli stessi simboli politicamente scorretti sono funzionali più che altro alla definizione di un diverso canone estetico del rock ‘n’ roll, che non ad imporre una diversa teoria circa un nuovo ordine sociale. I draghi contro cui ergono barricate e si scontrano con piglio sfrontato non sono quelli che lacerano la società, ma piuttosto le consuetudini che regolano l’estabilishment musicale, il "sistema" da cui si dissociano e cui riservano il loro livore. I traditori che detestano non stanno in parlamento o negli uffici ministeriali, ma suonano su palchi giganteschi e firmano contratti miliardari negli uffici delle majors.  I Pink Floyd, ai loro occhi, vengono identificati come la summa di tutto ciò che aveva voltato le spalle alla purezza del rock’n’roll e che si era dimenticato della genuina immediatezza e dell’impeto eversivo di quella musica. I Sex Pistols restano comunque la quintessenza dell’incoerenza: nascono e combattono sulle barricate come anti-rockstar ma, allo stesso tempo, cadono nel tranello e si trasformano nelle vestali di nuove mitologie, per alla fine trasfigurarsi proprio in quelle rockstar che tanto avevano avversato. Vogliono ridurre in macerie gli apparati dell’industria discografica, ma poi non ci penseranno due volte a restare invischiati con gli stessi apparati, servendosene a man bassa pro domo loro. In una certa qual maniera, si potrebbe addirittura concludere che la rumoreggiante insurrezione capeggiata da McLaren e dal gruppo sia stata fasulla, costruita a tavolino da un manager scafato e cucita addosso a quattro teddy boys che non avevavo nulla da perdere. Si, è vero, i Sex Pistols fecero tutto ed il contrario di tutto, compreso accettare di rimanere legati a doppio filo allo smaliziato cinismo di McLaren, con l'impudenza dei vent'anni e con l’impeto di chi davanti a sé non vedeva poi tanti sbocchi. No future, appunto, proprio come la gioventù di una Gran Bretagna in crisi nera e coi bilanci in rosso degli ormai calanti anni 70. Eppure, in seno al microcosmo rock, quella chiamata alle armi è stata indiscutibilmente autentica e con tante ripercussioni.
Nell'ottobre 1976 prende il via la carriera discografica dei nostri: il gruppo varca per la prima volta la porta di una sala di registrazione per fissare su nastro alcuni demo con il produttore Dave Goodman e da queste session, insieme alle successive del gennaio 1977, sarebbe venuto alla luce quello che gli esegeti più certosini conoscono come Spunk, un album feticcio circolato clandestinamente sin dal 1977 e finalmente ristampato in cd nel 1996.
Negli stessi mesi, i quattro cominciano fatalmente a entrare in un contatto sempre più conflittuale con i media: all’aumentare dello  schierarsi della stampa contro il gruppo, si ha un corrispondente aumento dei vantaggi tratti da quest'ultimo. E così avviene il primo dicembre 1976, quando i Sex Pistols partecipano come ospiti al popolare talk show televisivo di Bill Grundy. Il giorno seguente, la band è sulle prime pagine di tutti i tabloid inglesi in seguito alle provocazioni e al comportamento irriguardoso nei confronti del conduttore (il quale, va detto, li stuzzicò non poco provocandone la reazione e mal gliene incolse).
In contemporanea si accasano con la Emi: venuta alla luce nel faticoso mondo dell’underground e svezzata nell’angusto habitat di bettole di periferia, la veemente proposta musicale dei Sex Pistols si prepara ad ordire la propria trama destabilizzante e ad esondare nel resto del mondo, conquistando il mercato del rock mondiale e trasformandosi in un nuovo fenomeno musicale fragoroso e anarchico. Infatti, proprio dello scompiglio e dell'anarchia i Pistols faranno apologia nel loro primo singolo, uscito nel novembre 1976: Anarchy In The UK è una delle sortite più infuocate che il rock abbia mai concepito, e sarà destinata ad essere ricordata come il  primo vero anthem del movimento punk. Da novembre 1976 ad ottobre 1977 la band immette sul mercato dei singoli tutti gli inni fast’n’furious su cui costruirà la propria leggenda: a maggio ’77 God Save The Queen/Did You Go Wrong, a luglio Pretty Vacant/No Fun, in ottobre Holiday In The Sun/Satellite, tre scintille che faranno decollare la sommossa su entrambe le sponde atlantiche. I tempi erano maturi per l’uscita del primo attesissimo album che però continuava ad essere procrastinata per motivi che vedremo qui di seguito.
Come accennato, i Pistols, wonder of the year in Inghilterra e quindi già strafamosi, si accasarono alla EMI. Nonostante fosse sostanzialmente pronto fin da molti mesi prima dell'uscita, l’album di debutto ebbe una gestazione estremamente travagliata causa le paure e le incertezze della casa discografica che, dopo i primi 45 giri – che pure schizzarono in testa alle vendite – scelse di rompere il contratto appena stipulato, versando come penale un fiume di denaro a vuoto nelle casse della band (e del suo manager), piuttosto che avere a che fare con quelle che i più consideravano vere e proprie degenerate istigazioni su vinile sempre più gratuitamente provocatorie da parte di una band di pericolosissimi sobillatori. Ancor più clamoroso il caso dell’A&M, che pagherà senza batter ciglio senza nemmeno far pubblicare loro alcunché. Successe che il 10 marzo 1977, in un evento tenuto provocatoriamente all'esterno di Buckingham Palace, i Sex Pistols firmarono un contratto con la A&M Records. Poco dopo, nella sede della casa discografica, Sid Vicious (nel frattempo subentrato a Matlock) si fece beffe del direttore generale dell'etichetta, insudiciandone l'ufficio e vomitando sulla sua scrivania. Non si era mai visto nulla del genere. Su pressione della direzione, degli artisti e dei distributori, la A&M ruppe il contratto con i Pistols sei giorni dopo. In maggio il gruppo firmò il terzo e ultimo contratto discografico accasandosi con la Virgin Records.
I singoli schiumanti di rabbia prodotti dal gruppo, che immancabilmente restavano appiccicati alla vetta delle classifiche come insetti su una striscia moschicida in barba a tutti i boicottaggi e le censure, ma soprattutto i comportamenti provocatori e sovversivi dei quattro Pistols erano inaccettabili oltraggi per le istituzioni britanniche e per tutti i perbenisti: nell'anno del giubileo si prendevano gioco della Regina con dichiarazione del tipo: "Non è un essere umano", indossavano magliette che riproducevano la svastica e con queste se ne andavano tranquillamente a passeggiare nel quartiere ebraico di Londra, umiliavano in diretta gli anchor men televisivi, si facevano arrestare e si facevano odiare. Tutto questo, ovviamente, era acqua riversata a fiumi al mulino di una gioventù sottoproletaria inglese vittima di un disagio che oggi tutti quanti conosciamo fin troppo bene e assetata di qualunque cosa suonasse come “anti”. Erano di fatto ingestibili. In poche parole: perfetti per inscenare una rivoluzione. E rivoluzione (vera o presunta) sarà.
Il 1977 è dunque l'anno santo in cui deflagra, soprattutto a livello mediatico, il pandemonio sedizioso dei rebel without a cause del punk: nell'anno in cui passa a miglior vita Elvis Presley, che del rock'n'roll era stato simbolo ed icona, la musica giovane per antonomasia sembra trasfigurarsi in un’inedita estetica, e fa breccia nel cuore di una nuova discendenza di irruenti e facinorosi musicanti. Il baccanale capeggiato dai Sex Pistols è quasi assimilabile a un secondo big bang del rock’n’roll, un nuovo rinascimento nella sua versione aggiornata agli anni 70.
Libretto rosso di questa rivoluzione è Never Mind The Bollocks, unico vero disco sulla lunga distanza dei Sex Pistols, che viene finalmente edito nell'ottobre 1977, preceduto dall'uscita dei singoli cui si è accennato più sopra. Una bomba totalmente refrattaria ai vani tentativi di disinnesco e alle insidie del mercato che fa un sol boccone della concorrenza e balza presto nell’olimpo delle classifiche inglesi, fatalmente predestinato ad assurgere all’empireo riservato agli album più popolari della storia del rock. Il disco mette nella turbina il lato più scioccante del rock duro fino ad allora ascoltato. Ciò che erutta dai solchi ha qualcosa d’inquietante, come se finalmente si fosse scoperto e portato a compimento un discorso, come se la sorgente di tanto disagio giovanile fosse stata finalmente portata alla luce.
Con Chris Thomas (che aveva prestato la sua opera anche ai Beatles del White Album) alla consolle, è un disco epocale, un rock album come è raro ascoltare, un imponente monumento al nuovo verbo punk che si erge maestoso al centro della storia del rock. Tra i suoi solchi almeno tre canzoni universalmente riconosciute come veri e propri generation anthem: le già citate God Save The Queen, Anarchy InThe UK, e Pretty Vacant, nominando le quali so per certo di fare un torto al resto del programma.
Non mi sono precipitato ad acquistare al disco appena uscito, lo confesso. L’ho fatto dopo qualche mese, forse un anno, perché avevo deciso di attendere che sull’hype creato dai media intorno alla band si depositasse almeno un po’ di polvere; insomma avevo deciso di vederci (o meglio sentirci) più chiaro, libero da condizionamenti di sorta. Del resto, la cosa andava presa con  le proverbiali molle ed adeguata cautela se, a dar ascolto a questi quattro anarco-qualunquisti e a tutti i loro seguaci integralisti della carta stampata, spuntati improvvisamente come funghi dopo una nottata di pioggia, ai poveri tapini come il sottoscritto non restava altro che fare un bel rogo di tutti i dischi di Pink Floyd, Yes, Jefferson Airplane, Grateful Dead e via settanteggiando che stavano alla base della mia sudata formazione musicale. Ma come, non ero ancora riuscito a raggiungere quella California tanto sognata e già mi si diceva “Contrordine compagno, butta tutto nel cesso e rifatti le orecchie!”. Ma figuriamoci! Non mi è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello. E non per questioni anagrafiche (tra il sottoscritto e il Marcio non c’è nemmeno un anno e mezzo di differenza), ma perché l’ardore iconoclasta e gli anatemi in musica per me non hanno e mai avranno senso. Credo di aver fatto bene. Lo conferma il fatto che da qualche lustro ormai di queste cose non si discute più nei salotti rock. Non da oggi infatti i tempi sono diventati maturi per uno sdoganamento del capro espiatorio progressive come di altre musiche tipiche dei sessanta–settanta (country rock, west coast sound o jazz rock). E questo è un dato acquisito. Comunque sia tale discorso ci porterebbe fin troppo lontano e non intendo qui dilungarmi in questioni di filologia e filosofia musicale applicate al rock. Una cosa però la voglio dire: e cioè che appena portato a casa e ascoltato il disco, uno dei luoghi comuni più petulanti e reiterati divulgato dai media veniva clamorosamente sfatato e la prima cosa che mi venne in mente fu: “Cazzo, e questi sarebbero quelli che non sanno nemmeno tenere in mano gli strumenti?”
Già, perché contrariamente a quanto può essere percepito ad un ascolto superficiale, anche sotto il profilo squisitamente strumentale Never Mind The Bollocks è un album oggettivamente ineccepibile, pieno di dettagli, rifiniture e con un magistrale lavoro in fase di produzione, degno della reputazione di un gruppo di primaria grandezza quali i Pistols sono. Gli ortodossi del punk potrebbero obiettare che il disco è forse ripulito troppo in fase di missaggio. Forse, ma dal punto di vista musicale resta cazzuto e affilato, e sebbene le divagazioni sonore non escano mai più di tanto dal seminato per tutta la sua durata, risulta tutt’altro che un monolito intransigente e riesce a tener desta l’attenzione del fruitore dall'inizio alla fine, disvelando particolari nuovi ad ogni ascolto.  Intervistato nel 1992, Kurt Cobain ne tesse gli elogi dichiarando che prima di allora mai aveva sentito un disco che potesse vantare un produzione di tale eccelso livello.
La chitarra di Steve Jones che sventaglia instancabilmente su tutto è l’architrave di un wall of sound distorto e abrasivo. Gli assolo sono ovviamente centellinati col contagocce come si conviene a un disco punk della prima ora ma, diversamente da quella della maggioranza dei chitarrristi punk, la sua sei corde non esita a volgere lo sguardo verso l'hard-rock, e non ha nemmeno timore alcuno di scontrarsi con la giovane ma già ottusa ortodossia punk, marchiando a fuoco un corredo di memorabili riff chitarristici. Dentro la forza di quelle poche ma potenti sequenze di accordi ritroviamo racchiusi, in una forma quasi minimalista, due decenni di chitarra rock'n'roll, passando dal duck walk di Chuck Berry alla Satisfaction di Keith Richards, dal glam di Marc Bolan a quello parallelo di Johnny Thunders e New York Dolls.
John Lydon, ghigno sfrontato e ugola sciacquata al bourbon che brucia poesia della strada, si staglia stupefacente e tellurico con una prestazione vocale dalla sgraziataggine volutamente fastidiosa dal primo all’ultimo solco, dando prova di grande funambolismo vocale e sfoggiando nei testi una sferzante arguzia nel mettere sulla graticola di un sarcasmo mordace le incartapecorite istituzioni inglesi (ma non solo, ce n’è veramente per tutti) senza riguardo per niente e nessuno.
Sembra di averlo davanti Rotten, l’anti-cristo che ci vomita in piena faccia la sua risata satanica all'inizio di Anarchy In The UK, il guastatore che ci spernacchia senza alcun ritegno, che ci provoca, che vuole renderci nervosi o che, con gli occhi spiritati e l'aria di un pazzo appena uscito da una seduta di elettroshock, ci prende per il culo facendo il moccioso che pesta i piedi. Il suo canto è un isterico urlo di guerra che non ha pietà nemmeno per le regole linguistiche. Rotten con due spallate e ficcandoti un dito in un occhio si installa senza troppi riguardi nel gioco: il suo grido strepitante e storpiato dallo slang e dai difetti di pronuncia è perfetto per la situazione. Se qualche giovane neofita tra chi legge avesse voglia di approfondire e sapere che cos'è stato il punk, ci sono alcuni dischi che dovrebbe assolutamente ascoltare e Never Mind The Bollocks... Here's The Sex Pistols dovrebbe essere il cima alla lista.
Fin dall’inizio veniamo annichiliti dalla stordente triade di apertura: Holidays In The Sun accende le polveri e infiamma fin da subito gli animi con la ferale marcia militare del suo incipit, in cui sembra che il reggimento Sex Pistols arrivi in missione a salvare la Terra, Bodies  è subito clangore simil-metal e poi cori malati e scordati, il tutto a velocità parossistiche come se Chuck Berry venisse sepolto sotto slavine di bitume, No Feelings è il più eccitante scompiglio mai udito dalla venuta di Elvis a farla da padrone in qua (ed è pure orecchiabile). Il suono dei Sex Pistols è solido, compatto, epico e di squassante impatto. E' l’urto sonoro di un grande gruppo rock 'n' roll. Da scolpire negli annales, Anarchy In The UK, in cui, attraverso un estenuante lavoro di molteplici sovraincisioni stratificate una sull’altra, si raggiunge un maestoso sinfonismo rock che conferisce alla canzone una presenza innodica impressionante.
Ma tutto il disco è fatto di materiale che brucia: ci sono l’acrimonia biliosa, il rancore nevrotico e soprattutto l’energia di canzoni che non smettono mai di pensare pur correndo a perdifiato. A partire dalla velenosa Liar, stoccata rancorosa all’indirizzo di Malcom McLaren che contiene il più lungo assolo di chitarra consentito ad un gruppo punk, passando per l’ossessiva Problem, delirio da disfida pogo all'ultimo sangue. Con Seventeen, grondante di un’inglesità che la pervade in toto – la linea melodica, i cori: hey Jam, siete sintonizzati? – si prende un po’ di fiato, mentre nella superba Submission, dopo un attacco da antologia che sfiora addirittura il doom dei Black Sabbath, si ha perfino l’ardire di sfoggiare un accenno di reggae-rock. In New York  fanno capolino – udite! udite! – un tappeto di accordi Keith Richards-oriented (non distanti da quelli centrali di Jumpin’ Jack Flash, se proprio morite dalla voglia di saperlo), tanto per rimettersi in pari con gli odiati Rolling Stones e in Pretty Vacant affrontano a muso duro il tema incandescente della disoccupazione dilagante ("Siamo così carinamente, oh così carinamente/ Disoccupati/ ma ora.../ Non ce ne importa!") al ritmo di uno dei rock ‘n’ roll più elettrizzanti e fisici mai suonati. Stesse coordinate stilistiche sono quelle di cui è improntata E.M.I. che altro non è che un sonoro (moooolto sonoro) calcio in culo all’etichetta che ebbe la sventura di incrociare la strada dei nostri. E’ una riottosa invettiva tutta nervi e rapidità all’indirizzo di quel mercato che, almeno inizialmente, avevano cercato in tutti i modi di combattere, pur non riuscendo mai a rinnegarlo completamente.
Tra le pietre d’angolo di Never Mind The Bollocks c’è infine God Save The Queen che parla l’idioma di un punk senza compromessi. Un luogo musicale dove l’adrenalina scorre a fiumi tra un muro di chitarre puntute e un testo che disvela velleità barricadere e disillusione nichilista. E’ la canzone del “no future” e sarà la reiterazione finale dello slogan a mezzo di un coro che ne esalta il retrogusto epico a consegnarla definitivamente alla storia del rock.
In God Save The Queen il cielo è plumbeo e l’aria che si respira è quella di un'atmosfera da tregenda; il pennello avvelenato di Rotten tinteggia un quadro dalle tinte fosche in cui vengono messe a nudo le debolezze ed i condizionamenti di una maggioranza benpensante fatta di tabloid, sinistra salottiera, estrema destra e semplici teste di cazzo, che si aggrappa disperatamente alle mitologie nazionali per mascherare il proprio ineluttabile decadimento. Il 1977, il mitico 1977, con le sacrosante incazzature dei kids inglesi, le canzoni che raccontano la vita di strada avvolgendola di epos e grezzo humor, ha trovato il suo brano simbolo e l’ha spedito in cima a tutte le classifiche con un potente calcio nel sedere.
Il 1977, fantastica ed irripetibile coincidenza, è però anche l’anno del giubileo della regina e con God Save The Queen i quattro (cinque, contando anche il marpione McLaren) non si fanno ovviamente trovare impreparati e sono sul pezzo come un avvoltoio sulla carcassa di uno gnu. Il loro pacchetto regalo è in realtà un pacco bomba che deflagra fra le stanze di Backingham Palace sotto forma di un sarcastico e corrosivo anti-inno (nazionale) pieno di caustica ironia e urticante scherno che alla fine si ritrova ad ammantarsi, per negazione, della rilevanza di un cantico guerriero e generazionale. God Save The Queen fu in ogni caso avvertita come un proditorio oltraggio nei confronti della Regina Elisabetta II e venne bandita ipso facto da tutti i programmi della BBC, in particolare da Radio 1. Vane le rimostranze di Rotten che in seguito affermò: «Ci è stata dichiarata guerra dall'intero paese senza una ragione!»
Il 27 maggio 1977 – dopo i rifiuti di E.M.I e A&M – il singolo è finalmente in commercio, sorretto dal più imponente battage pubblicitario mai allestito dalla Virgin. Nonostante il boicottaggio radiofonico e di molti negozi e malgrado gli operai della fabbrica cui era stata commissionata la stampa si fossero rifiutati – per ragioni “etiche” – di lavorare il prodotto, il singolo scala le classifiche fino al secondo gradino ed è l'unica voce fuori dal coro nella frenesia generale per il giubileo: i risultati sono però alterati dalla decisione del British Market Research Bureau di escludere dal calcolo, solo per quella settimana, le rivendite della catena Virgin, con il chiaro intento di impedire che i Sex Pistols siano in vetta alle charts durante le celebrazioni dei venticinque anni sul trono della Regina. Ci fu solo una stazione ad aver il coraggio di annunciare la canzone al primo posto, ma non ne consentì la messa in onda per non essere correa con l’azione eversiva dei quattro guastatori che aveva l’evidente intento di scompigliare la festa di Sua Maestà e sudditi devoti.
I Pistols e McLaren, con l’appoggio della Virgin, comunque organizzano un evento speciale per “onorare” alla loro maniera il venticinquesimo della sovrana: il 10 giugno 1977, il giorno stesso del Giubileo, organizzano un concerto sul battello Queen Elizabeth che naviga sul Tamigi passando davanti a Westminster e alla sede del Parlamento, proprio mentre a terra si svolgono i festeggiamenti con tanto di fuochi d’artificio, frizzi, lazzi e cotillions. Inutile dire che il giubileo della perniciosa compagnia si risolve in un carnevale di follia collettiva che sottende l'inquietudine del momento. Dopo sette pezzi (Anarchy In The U.K., God Save The Queen, I Wanna Be Me, Pretty Vacant, No Feelings, Problems e No Fun), e dopo una rissa che coinvolse Jah Wobble (futuro bassista dei Public Image Ltd.) e un cameraman, l’abbordaggio della polizia interrompe l’irriguardoso happening. Delle oltre centocinquanta persone sul barcone, solo undici – tra le quali McLaren e la sua compagna Vivienne Westwood – vengono portate in questura. L’episodio non viene granché pubblicizzato dalla stampa, ma al termine della settimana giubilare ben 200.00 copie di God Save The Queen erano state vendute. 
Nonostante l’agiografia ci abbia da sempre raccontato che la canzone sia stata creata appositamente per il Giubileo, la band ha sempre recisamente negato tale teoria. Paul Cook disse: «Non è stata scritta specificatamente per il Giubileo della regina. Non eravamo informati di questo all'epoca, non era un'opera studiata a tavolino per venire fuori e scioccare tutti». Johnny Rotten spiegò poi il significato del testo dicendo: «Non si scrive una canzone come God Save the Queen perché si odiano gli inglesi. Si scrive una canzone come questa perché si amano e si è stanchi di vederli maltrattati». I Sex Pistols infatti inizialmente avevano pensato di intitolare la canzone No Future, ma il solito Malcolm McLaren, conscio della succulenta occasione che gli si sarebbe presentata su un piatto d’argento dato l'imminente Giubileo d'Argento della regina, convinse la band a cambiare il nome del singolo in God Save the Queen, e ne ritardò furbescamente l'uscita per farla artatamente coincidere con la manifestazione. Comunque sia quel «No future» (tradotto "Nessun futuro"), lo slogan reiterato con compiaciuta rabbia alla fine della canzone,  è diventato una sorta di marchio di fabbrica del movimento punk rock. C’è in ogni caso un’ambiguità che è stata colta nel significato attribuito a queste due semplici parole, nel senso che la perentoria affermazione non vuole in alcun modo sostenere una mancanza di futuro a livello individuale, bensì la fine di ogni velleità imperialista o comunque egemone alla base del sogno inglese. Dietro la rabbia, la disillusione e la pungente ironia, nella musica dei Sex Pistols incombe una sensazione di tragico: non si tratta soltanto delle tribolazoni degli emarginati, dell’affanno che attanaglia l’esistenza dei reietti, ma anche la rappresentazione di una depressione strisciante e dello smarrimento dato dal mal di vivere. Dal "no future" conseguiranno molte fascinazione del dark, e lo squassamento della tragedia colpirà con la realtà di un gancio alla mascella prima con Sid Vicious poi con Ian Curtis.
Quantificare l’apporto che diedero le pistole del Sesso alla storia del rock è praticamente impossibile. I loro seguaci non avrebbero mai compreso appieno la terribile combinazione del punk, fraintesa dai benpensanti per scherzo della natura, scegliendo la strada della sola denuncia sociale (una minoranza saccente) o quella della pedissequa  imitazione stilistica (la pletora montante di poseurs con le creste), e i Sex Pistols sarebbero diventati le magliette ricordo di Sid Vicious. No future, nessun futuro. Per il punk non ce ne poteva essere uno. E non ce ne sarebbe stato. Già nell’estate del ’77, il marcio Rotten si esibiva in uno show alla Capital Radio con una scaletta di Captain Beefheart, Can e dub, mutandosi anzitempo in Mr. Lydon e battezzando l’avvento del post punk. E intervistato dalla stessa emittente dichiarerà di amare anche Neil Young e Tim Buckley.
"Ci piace il rumore, è la nostra scelta. E’ ciò che vogliamo. Ce ne freghiamo dei capelli lunghi” ebbe a dire un giorno il Marcio. Mentre Frank Zappa ebbe ad affermare: "I punk dicono: ok, noi suoniamo distorto e veloce e allora? Ecco, a me piace quel: e allora?". Never Mind The Bollocks è appunto un gigantesco: "E allora?". E allora, one-two-three-four e dito medio pronto a inalberarsi verso chi dovesse chiedervi di abbassare il volume.




(1) « Per quelli che non hanno visitato il posto, pensate al bagno di casa vostra ma solo un po' più grande, coperto di graffiti e con puzza di piscio praticamente ovunque per il fatto che il proprietario Hilly Cristal lasciava i suoi cani liberi di scorrazzare nel locale, una cosa che il compianto Joey Ramone trovava spassosa » Il regista Alan Parker.

Mauro Rollin On The River Uliana

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