giovedì 19 ottobre 2017

New Year's Day - U 2 (1983)




Chi scrive odia le classifiche dei migliori – album, film, canzoni, fate voi –  e le stellette di merito. Quindi non dirò mai che New Year’s Day è la più bella rock song licenziata da Bono & Co., anche se in fondo lo penso e probabilmente continuerò a pensarla così. Il fatto è che è una delle più belle canzoni tout court, roba che dal sacco di qualunque musicista esce una volta ogni cinque anni. Gemma preziosa e imprescindibile di un album di pathos e di sangue come War, è la canzone che da un senso compiuto ad un aggettivo abusato fino alla nausea come epico.
Ci sono molti modi, tutti validi e nessuno censurabile, per avvicinarsi a questi Dubliners che hanno riscritto le sacre grammatiche del rock. Il primo è continuare a riscaldarsi al fuoco indimenticabile dei primi anni, nel nome dell’amore, l’ultimo è comprendere che i passaggi di tempo portano con sé ascese e inciampi, notti buie e giorni radiosi e che dunque chiedere sempre il massimo non ha senso, non è giusto. Ognuno ha le sue istruzioni per l’uso, per volare con gli U2. Con o senza cinture, con o senza nostalgie. Ma comunque sempre con loro, senza dubbio. Il profilo dei primi U2 era quasi eroico. Quattro guerrieri bibilici. Facce contadine scolpite dall’Irlanda che cantavano di cieli rosso sangue. Come dei profeti dell’apocalisse. Emotivi e drammatici, enfatici di una teatralità tipicamente anni ’80. I dischi e il successo internazionale arrivano presto per gli U2, e il boss dell’Island, Chris Blackwell, non sarà costretto a mentire al mondo affermando che “gli U2 sono l’unico vero gruppo rock moderno perché sono i soli ad aver creato un seguito, una fede, una nuova forma di culto”. Poi sono diventati adulti senza diventare vecchi. Miracolo dell’arte, regalo assoluto alla musica. Per sempre giovani, come cantava Dylan. Per sempre U2, dicono altri. Anche quelli che li amano di meno ma non vogliono (o non possono) farne a meno. 
Si dice che gli irlandesi siano cocciuti, gli U2 lo provano con la loro storia. Una storia, quella discografica, che dopo alcuni singoli giunge ai primi due album, Boy e October, troppo ingenui ed innocenti per non riscuotere il nostro affetto. A quel tempo, un po’ superficialmente, i nostri appaiono come un gruppo straordinariamente convenzionale. Questi quattro ragazzi irlandesi dimostrano di aver imparato a suonare degli strumenti per raggiungere tre obiettivi: distrarsi dell’eterno sovraccarico d’energia, far risollevare i loro compatrioti e sfondare le porte ancora chiuse del rock. Dopo aver fatto, nel giro di un anno, due o tre tournée nei club londinesi, hanno subito raggiunti i primi due e, verosimilmente, si sono avvicinati al terzo. Erano gli inizi degli anni ’80, un periodo in cui il rock ‘n’ roll era stato dato per disperso, quando lo sguardo pallido e timido di un ragazzo, sorta di Gesù Bambino crocefisso (ma potrebbe essere anche una versione bambina del nuovo sciamano del rock, riproducendo una posa classica di Jim Morrison) apparve sulla copertina di Boy, esordio esemplare per osservare il punk trasfigurarsi in new wave. Boy non ha niente di una modesta balbuzie. Perché gli U2, nello spazio di alcuni singoli, hanno avuto il tempo di trovare un suono deciso e personale. Tra il 1980 ed il 1981 sentire una chitarra come quella che apriva I Will Follow, per lungo tempo uno dei loro cavalli di battaglia on stage, era una rarità e altrettanto impossibile era sentire un cantante che sciorinava canzoni con aria da sciamano, come era successo soltanto con Jim Morrison. Il problema iniziale degli U2 è quello di un gruppo assolutamente brillante, giustamente fiducioso in se stesso, ma che scopre la propria personalità quasi casualmente. La presenza di Steve Lillywhite come produttore li aiuta a scoprirsi più fragili e meno grandiosi di quanto essi stessi non credano. Ed è proprio questa breccia involontaria che li rende appassionanti. Gli U2 o la timidezza espressionista. Il mistero si dirada e la marcia prosegue. Gli U2 non attingono a nessun culto. E’ il genere di gruppo che può solo andare verso la popolarità.
L’esordio di Boy ruppe il ghiaccio e gli U2, con l’ingenuità tipica dell’età (allora avevano vent’anni a testa, poco meno o poco più), tentarono di bissare il clamore suscitato dal loro primo disco senza cambiare molto: stesso produttore (Steve Lillywhite, che diventerà famoso per il suo big drum sound, un grande suono di batteria), stessa formula, stessa passione. Il risultato, come spesso succede quando si cerca un bis su tempi brevi, fu un disco bello a intermittenza: October, che aveva però il pregio di individuare alcune caratteristiche non comuni ai gruppi rock ‘n’ roll di quel periodo. Oltre al furore ritmico e chitarristico, cominciavano a emergere i testi di Bono e una certa predisposizione a interpretare il proprio ruolo con assoluta fermezza. L’album che ha fatto la differenza è stato War. L’ho scritto nell’introduzione a questo saggio: non amo le classifiche e le stellette di merito, ma ciò non mi impedisce di reputare a livello strettamente personale War, The Joshua Tree ed Achtung Baby i tre capolavori assoluti degli U2, e l’essenza di ciò che dovrebbe essere il rock ‘n’ roll a certi livelli. War è duro, granitico ma, come direbbe il loro manager Paul McGuinnes, ha il coraggio di esporsi alle contraddizioni e non a caso apre con la tormentata Sunday Bloody Sunday. War è il disco della svolta per gli U2 ed è il disco che li porta al diretto confronto con le lordure del mondo. Dalla sua pubblicazione, è il 1983, l’attitudine esplicita degli U2 diventa un naturale marchio che si proporrà, anche se mitigato rispetto all’irruenza iniziale, negli album successivi.
Nel 1983 la band irlandese, per la prima volta con consapevolezza e forza assolute, cerca di incontrarsi con la storia. Nel loro viaggio in cerca di un’identità, gli U2 hanno provato ripetutamente a sentirsi parte del corso degli eventi e War è stato un disco che provava ad affrontare un intero mondo ferito dalla guerra e dai conflitti. E’ proprio War, con tutti i suioi riferimenti alla Polonia, all’Ulster, ai conflitti in generale, l’album che arriva più vicino all’appuntamento con la storia. War è stato anche un album di reazione alla musica (pop) dei primi anni ottanta e contiene la forza, l’energia, quella magica coesione che è tipica di ogni rock ‘n’ roll band al suo stato migliore. L’impatto, la fiducia, il futuro e il coraggio di sentirsi unici e, nello stesso tempo, l’urgenza di dire qualcosa sono sono l’essenza stessa del rock ‘n’ roll, che è quella di intervenire sulla realtà, che poi è stata una caratteristica costante e coerente degli U2 sempre pronti a sobillare, sostenere, condividere questa o quella causa. La convivenza con questa loro propensione ha, dunque, radici lontanissime. La loro carriera, infatti, era iniziata proprio calamitando l’interesse sugli scottanti problemi della loro nazione, quell’Irlanda protagonista di una guerra che risaliva a secolari cause economiche e religiose. L’Ulster era alla ricerca di un’indipendenza che non avrebbe mai trovato e gli U2 hanno mostrato una notevole sensibilità al problema, anche se vengono da Dublino e non da Belfast, espandendo la loro interpretazione oltre i confini nazionali tramite la musica. Tutto il mondo vedeva in loro i cantori della speranza, rinnovando una tradizione che sembrava averne chiuso il discorso molti anni prima, negli anni ’70. Attraverso un crescendo di situazioni che li hanno voluti sempre più inseriti in un contesto umanitario, gli U2 hanno raggiunto le grandi masse mondiali, e sono stati indicati sempre più come guide spirituali. Live Aid è stata la più grande vetrina musicale degli anni ’80, anche se sorretta da una buona causa, ed è lì che che molti artisti hanno acquistato credibilità presso il pubblico, inclusi gli U2. E’ lì, difatti, che hanno potuto mostrare tutto il loro attraente fascino per una gioventù alla ricerca di modelli sul quale edificare un mito per alcuni versi sproporzionato. Ma anche questo genere di risposta da parte dell’audience non è una novità per il mondo del rock ‘n’ roll. Nel cosmo musicale vi è sempre stato un gruppo catalizzatore delle folle giovanili, e nessuno è riuscito, meglio di loro, a rappresentare gli anni ’80, che sembravano destinati ad una superficialità ed una indifferenza priva di precedenti, intensificando un risveglio delle coscienze su problemi di gravità internazionali. Venendo a New Year’s Day, vediamo di ordinare alcuni appunti. Che sia il piccolo capolavoro dell’album declinato con la consueta nonchalance penso che il lettore l’abbia capito. Peana scritto in apoggio al movimento sindacale polacco Solidarnosc di Lech Walesa (ma il tutto era partito da una canzone scritta da Bono per la moglie), la canzone alimenta ancora una volta l’aspetto prettamente politico della band. La ritmica, guidata dalle poderose linee di basso di Adam Clayton (che ha trovato il bandolo della matassa casualmente durante un soundcheck, lavorando intorno al tentativo di riprodurre gli accordi di - udite! udite! - Fade To Gray dei Visage) ed il drumming preciso ed implacabile di Larry Mullen, colpisce allo stomaco, anche se, pur non avendone la rigida freddezza, richiama imperiosamente la pesantezza angosciosa dei Joy Division, mentre le incisive armonie di chitarra di The Edge, che arabesca accordi all'unisono col pianoforte, mostrano che gli album dei Television non sono passati inosservati a Dublino. Calda e vigorosa, la voce di Bono cerca di sbarazzare dalla musica degli U2 tutto ciò che può renderla maligna, furba, obliqua, per liberare un flusso passionale, contagioso e sublime. Tutto, nel loro caso, si realizza nel superare ogni genere, nel non cadere nella tentazione di rotolare con la ruota delle mode, nel fare della propria musica un qualcosa di unico e d’inimitabile. Gli U2 si impegnano a fondo in un rock denso e stridente, con una estrema ortodossia melodica e con un risultato miracolosamente trionfante. Laddove altri si sarebbero impantanati in una melassa imbarazzante, gli U2 riescono a trovare un soffio, una poesia e una purificazione. Per concludere, nulla ci sembra più adatto che chiosare con una dichiarazione di Bono che così si espresse nell'1983, subito dopo la pubblicazione di War: "Sarebbe stupido iniziare a tracciare linee di battaglia, ma penso che il fatto che New Year's Day abbia conquistato la vetta della la Top Ten abbia suscitato una delusione tra gli acquirenti di dischi. Non penso che New Year's Day fosse un singolo pop, certamente non nel modo in cui Mickie Most potrebbe definire un singolo pop come qualcosa che dura tre minuti e tre settimane nella classifica. Non credo che avremmo potuto scrivere quel tipo di canzone ".
A certificare la centralità di New Year's Day rispetto al songbook dei quattro irlandesi, c’è lo scrupoloso esame del momento della band proposto dalla versione Deluxe Edition di War, un doppio CD che ordina puntigliosamente gli appunti inediti di quelle registrazioni. All’interno del secondo dischetto vengono gelosamente conservate, come in uno scrigno da lasciare in eredità ai posteri, ben quattro takes della canzone. La prima è la versione editata per il mercato dei singoli che nulla aggiunge a quanto già sapevamo, anzi semmai toglie quasi due minuti alla canzone, sottostando alla tagliola pretesa dal sistema discografico e dalle stazioni radio. Più interessante è lo USA Remix che, pur esibendo le ben note virtù che tutti han mostrato di gradire, si fregia di un intro dal pigro portamento, per poi aprirsi all’ingresso dell’energia elettrica dove un lavoro sulle chitarre stupisce quanto basta per quanto differisce dall’originale: echi, fraseggi ritmici, effetti elettronici, metalliche risonanze, intrecci insoliti alla 6 corde di un The Edge onnipresente e più ispirato e convinto che mai, nonché la voce from the outer space di Bono che nasconde streghe fra le corde vocali, sono i colori caldi e persuasivi che cambiano i connotati alla canzone. Quando però arrivano i quasi dieci minuti del Ferry Corsten Extended Vocal Mix lo shock è quasi totale. Il DJ di Rotterdam opera a cuore aperto sulla canzone dandogli quell’aspetto di trance track per il quale è famoso. Nonostante il trattamento sia alquanto radicale il risultato non dispiace nemmeno ad un purista come il sottoscritto. Gli U2, insomma, tanta e tale è la loro personalità, pur mutando pelle e mandando fischi ad un nuovo pubblico restano comunque se stessi e non cadono nell’autoparodismo. Per capirci, pur facendo implacabile terrorismo sonoro, restano comunque gli U2 e non si risolvono fra inganni da basso impero e storta ironia terapeutica, trasfigurandosi in una sorta di Alien Sex Fiend per le masse danzanti. E questo è un bene. A chiudere la partita il Ferry Corsten Extended Radio Mix che altro non è che la versione del precedente mix confezionata per le radio, opportunamente dimezzata nei tempi di durata. E’ tutto Houston. Passo e chiudo.


Mauro Rollin' On The River Uliana


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