martedì 3 ottobre 2017

Sunday Morning - Velvet Underground (1966)



Sono stati e sono tuttora una della band più influenti dell’epopea rock. E’ un’inoppugnabile verità che sono tra i pochi gruppi (diciamo dieci?) dei quali è impossibile sopravvalutare l’importanza. Altresì, è inesatto dire che di Lou Reed & Co. nessuno si accorse al tempo, dacché almeno fino quando furono sotto l’ala di Andy Warhol un più che discreto frastuono mediatico ne salutò le gesta e soltanto negative concomitanze impedirono il decollo commerciale del primo album. Sebbene destinati alla gloria solo post mortem furono comunque un prodotto degli anni ’60 e non soltanto perché così dichiara il calendario. Cinici quando si invitavano i militari a mettere fiori nei loro cannoni e consumatori di pasticche e polvere bianca quando il resto del mondo si dilettava con hashish e LSD, fu comunque quel clima culturale a generarli. Rispetto ad esso furono marginali ma non estranei.


Nella sua esilarante carriera di candido truffatore, sorta di idiot savant dell’arte moderna, Andy Warhol ha fatto un sacco di cose. Le tre per cui più è ricordato sono: i suoi quadri (che tutti conoscono), i suoi film (che nessuno sano di mente ha mai guardato per intero), l’aver scoperto i Velvet Underground (tanto universalmente noti ormai che qualche anno fa qui in Italia si poté sentire un loro brano ridotto da “Mamma ENEL” a musichetta da consiglio per gli acquisti). E infatti, qual è l’unica canzone dei Velvet Underground, cioè della band più anti-pop degli anni ’60, che tutti conoscono? Ovviamente Sunday Morning, canzone che di quello spot era la protagonista e che, musicalmente parlando, rivaleggia in fatto di imperfettibile grazia ed innocenti (?) assonanze con i Temptations di My Girl; mentre la sua soffusa tenerezza ha la stessa scioltezza del Nick Drake più intimista (citazione non casuale viste le onde di viola elettrica di John Cale, l’avventurosa viola – ma anche basso e tastiere – dei Velvet, che andranno ad arricchire nel 1970 Bryter Later, secondo album dello schivo cantautore inglese). La canzone, nel suo quieto incedere da folk metropolitano, si adagia in apertura di un disco, The Velvet Underground & Nico, debutto adulto dei Velvet del 1967, che tra storie selvagge di sesso e droga apre la via che porterà i primi tre album dei Velvet – tutti e tre – tra i dischi fondamentali per rappresentare un decennio di musica. Un’opera che vive in un perfetto equilibrio fra tensione e rilascio, laddove il malevolo ascendere fra accelerazioni e stasi di canzoni come l’incubotica Heroin, che quanto ad atmosfera allucinata e disturbante scabrosità fa il paio con la quasi coeva The End di doorsiana memoria, il passo ansiogeno ed il martellamento à la Bo Diddley (fatto di anfetamine ed incazzato alquanto) di I’m Waiting For The Man, il rock a rotta di collo di Run Run Run, che pare cantata da un Bob Dylan infettato dal punk rock ante-litteram di Stooges ed MC 5, il raga e la sottile perversione di Venus In Furs, la parata di chitarre scintillanti e circolari di All Tomorrow’s Party, marcia funebre chiusa in bottiglia dalla tristezza claustrofobica, i violini impazziti di The Black Angel’s Death Song, dove Lou Reed decanta brividi in chiunque l’ascolti, il mood bipolare di European Song, tra armonia, rumori ambientali e feedback  ed il beat quasi byrdsiano (in realtà un plagio di Marvin Gaye) della contagiosa There She Goes Again, convivono in geniale contrasto d’umore con la dolcezza struggente della ninnananna triste di I’ll Be Your Mirror, con l’intima e seducente malia di Femme Fatale, ispirata alla figura di Edie Sedgwick (1) e cantata da Nico con voce siderale e senza tempo, e con la scampanellante, infinita delicatezza, fragile e traditrice, di Sunday Morning e del suo carillon, a raccontare il ritorno a casa la domenica mattina, dopo sabati notte di perdizione. In realtà il carillon era una celeste trovata abbandonata nello studio, che John Cale pensò bene di utilizzare da par suo per il nostro appagamento dei sensi (e non ringrazieremo mai abbastanza questo geniale giovane gallese per la felice intuizione), costruendo un delizioso, incessante controcanto che sparge sulla song una trama di note principesche. “E’ una canzone su come ti senti dopo essere rimasto sveglio tutta la notte del sabato” racconta Sterling Morrison, chitarrista della band “Ti trascini verso casa mentre la gente sta andando in chiesa la domenica mattina. Il sole è alto e tu ti senti come Dracula, mentre nascondi i tuoi occhi”. E’ anche una canzone sull’inadeguatezza esistenziale, la carta vetrata dell’alienazione mimetizzata in amniotiche atmosfere, una canzone in cui la crudezza poetica di Reed si sposa con le acute intuizioni di Warhol.  "Andy mi disse, ‘Perché non la trasformi in una canzone sulla paranoia?’ Ho pensato che fosse grande così ho composto il verso ‘Guarda la fuori, il mondo è intorno a te, lì c’è sempre qualcuno che ti spia’. Io penso che la definitiva testimonianza di paranoia stia nel fatto che il mondo si interessa troppo ai fatti tuoi. Ne è uscita una canzone graziosa e paranoica”, commenterà compiaciuto Lou Reed, all'alba di una domenica mattina dopo una nottata passata a provare in studio. Durante tutto il lungo percorso del disco (quasi cinquanta minuti nel ’67: se non è un record, di certo poco ci manca), il nostro si rivela come l’aedo dei bassifondi, un affabulatore che si tira la vita come un gioco ai dadi, spesso truccati, ma che certo saprà indirizzarvi se desiderate un tatuaggio osceno sul bicipite. 
I Velvet Underground e Lou Reed: un binomio che evoca in noi l’immagine di una macchina rubata che ci scarica in corsa tra vicoli sudici e bagnati d’urina della wild side, una New York cinica e disperata dove l’urto omicida di una rappresentazione born to kill colpisce duro come un sasso dal cavalcavia, assaltando il rock alla giugulare ed iniettando nelle sue vene con una siringa usata la musica feroce e slabbrata di un album dannato come The Velvet Underground & Nico e che un anno dopo rincarerà la dose con quel plumbeo e traumatico luogo di alienazione fisico-spirituale che risponde al nome di White Light White Heat. Insomma, un putrefatto mondo di poesia colta e maudit che traccerà un lungo arco pronto a raggiungere quasi ogni nota della musica di domani.
La storia dei Velvet Underground è stata raccontata in decine di libri, fino al più insignificante dettaglio, e qualunque enciclopedia rock ne fornisce adeguato ed esteso sunto. Sono però conscio che ci sono sempre in giro giovani virgulti da educare e che ai meno giovani piace il “come eravamo”; in Italia più che altro “il come saremmo potuti essere”, visto che Reed e soci qui da noi cominciarono a conquistare una popolarità, anche se di culto, solo a metà del decennio successivo a quello del loro esordio e oggi qualsiasi diciottenne che venga fulminato dal rock ‘n’ roll li guarda con l’ardore del culto e la devozione che si riserva ai santi. Non si pensi comunque che nella natia America, ancora strettamente abbracciata a parole come pace, amore e flower power, e nella più evoluta Inghilterra il viale del successo sia stato percorso molto più velocemente se Brian Eno, in uno dei suoi più celebri aforismi sulla band, così recita: “Mentre erano in attività i Velvet Underground hanno venduto dischi ad uno sparuto drappello di discepoli, ma quei pochi che ne acquistarono uno hanno poi formato una band”. E lui sapeva di cosa stava parlando: aveva fondato i Roxy Music.
Durante la prima metà degli anni settanta, in opposizione a west coast, progressive e hard rock, un vario schieramento composto da David Bowie, Mott The Hoople, T. Rex in Gran Bretagna, New York Dolls oltreoceano e Can “alle porte del cosmo che stanno su in Germania”,  fu inevitabile che dai Velvet traesse ispirazione. I proseliti poi si moltiplicarono con l’esplosione del punk, tutti scagliati a terra come tanti San Paolo sulla via di Damasco. Non si contano infatti i nomi, fra quelli che su entrambe le sponde dell’Atlantico fecero la storia della new wave, che ai Velvet Underground non debbono qualcosa: gente come Television (e Tom Verlaine), Patty Smith, Talking Heads, Feelies, Joy Division, Cure, Jesus and Mary Chain, Dream Syndicate, Spacemen 3 (e qui mi fermo) senza i Velvet sono semplicemente inimmaginabili. Inconcepibile altresì l’esistenza di due pietre angolari del rock della seconda metà degli anni ’80, R..E.M. e Sonic Youth. Il gruppo di Athens ha qualcosa più che un vago debito di riconoscenza nei confronti proprio di canzoni come Sunday Morning e dell’intero del terzo album dei Velvet e del suo malinconico pop chitarristico (che a ben guardare è quello che ispirò la Postcard e di conseguenza la moltitudine di etichette epigone, Creation in testa). I secondi hanno metabolizzato il terroristico maelstrom di Sister Ray facendone un architrave di suono che li ha eletti numi tutelari di tanto noise (noize?).
Diceva bene David Fricke a conclusione del saggio accluso al libretto di Peel Slowly And See, opera quasi omnia sul lavoro in studio del gruppo edito nel ’95: “Trent’anni dopo il primo spettacolo, l’importanza e l’influenza dei Velvet Underground sono fatti non più oggetto di dibattito quando si parla di rock ‘n’ roll. Ma ogni giorno c’è ancora qualcuno, da qualche parte, che ascolta per la prima volta una loro canzone o un loro album – e ne percepisce l’unicità. Sfidando le regole e la sorte, i Velvet scelsero la maniera più lenta e difficile per cambiare il rock ‘n’ roll: un convertito alla volta. Il gruppo non c’è più. Ma la musica è ancora qui. E la rivoluzione continua”.
Arrivato sin qui, però, realizzo di non aver avuto molto rispetto per quell’ipotetico diciottenne neofita, dando per scontato che chiunque legga queste righe sappia un tot di cose sulla band. Rimediamo subito. Ovviamente tutto non cominciò nel 1967 con una banana ed un carillon. Lewis Allen Reed nasce il 2 marzo 1943 a Brooklyn, nell’ovattata tranquillità di una famiglia dell’alta borghesia ebrea, ma cresce a Freeport, Long Island. La sua gioventù non ancora “vellutata” la passa  studiando pianoforte classico per poi innamorarsi, intorno ai 14 anni, del rock’n’roll e del doo-wop. Appena quindicenne riesce a pubblicare un 45 giri con due canzoni autografe a capo di tali Shades. Nel 1964, ventenne, è alla Syracuse University dove studia letteratura con Delmore Schwartz (2), poeta maledetto che eserciterà su di lui una duratura influenza. Contemporaneamente si fa le ossa nel mondo della musica componendo zuccherose canzoncine pop che seguivano le mode del momento per i tipi della Pickwick Records.
Il primissimo embrione dei Velvet viene alla luce quando Lou fa comunella con il proprio compagno di stanza, certo Holmes Sterling Morrison, la cui presenza a fianco di Reed ci penserà la storia a valutare in tutta la sua importanza. Costui, anch’egli di Long Island, vanta una formazione classica che gli fa prefigurare per sè ben altro futuro che non i percorsi lastricati di blues e rock ‘n’ roll che invece lo travieranno. I due danno il via ad una nutrita trafila di esibizioni nei piccoli locali newyorchesi, fondando e sciogliendo diverse band estemporanee, la cui proposta consiste in alcune composizioni di Reed che hanno come tratto distintivo delle armonie molto semplici, pochi striminziti accordi, ma testi che vanno decisamente controcorrente rispetto alla musica beat imperante in quel periodo.
Ancor più fatale è l’incontro, sempre nel 1964, con John Cale, un ventiquatrenne studente di composizione che dal natio Galles si era da qualche mese trasferito a New York per studiare musica classica al conservatorio di Tanglewood con Leonard Bernstein (3) e dedicarsi all'arte sperimentale. Partecipa ai progetti del movimento avanguardista Fluxus e alle sperimentazioni minimaliste di compositori d’avanguardia come John Cage (4) e La Monte Young (5). Di quest’ultimo Cale riesce ad assicurarsi la collaborazione, assieme ad altri compositori di musica d'avanguardia (Marion Zazeela, Tony Conrad, e Angus Maclise), per il suo gruppo d'avanguardia Dream Syndicate, ensemble per due voci, violino, viola e percussioni di cui solo dal 2001 sono iniziate ad emergere sparute e centellinatissime testimonianze discografiche. In ogni caso importante esperienza propedeutica per Cale che con Conrad divide un appartamento e proprio da lui viene introdotto al rock ‘n’ roll tramite la conoscenza di questi con Hank Williams.   Cale inizia a nutrire un fattivo interesse per la musica rock e quando scopre che anche in Reed alberga la sua stessa attitudine di sperimentatore musicale, oltre ad esserne piacevolmente sorpreso, pensa che sia l’occasione giusta per dare una decisa sterzata ad un beat che rischiava di diventare cliché. Il sodalizio tra Reed e Cale muove finalmentemente le acque e la necessità di un gruppo che si esibisca dal vivo spinge i due ad implementare la propria azione. Su istigazione di un produttore della Pickwick, Cale e Conrad, assieme a tal Walter De Maria, si uniscono a Lou e iniziano a registrare e ad esibirsi dando vita ad una fantomatica band chiamata The Primitives, creata all’uopo per promuovere un nuovo sforzo creativo di Reed per la solita Pickwick, il singolo The Ostrich. Dopo i primi sgangherati concerti (oddio, concerti è sicuramente una parola molto grossa, trattandosi più propriamente di fortunose mini-esibizioni in cui i quattro volonterosi ragazzi cercano di farsi largo a spallate nel music-biz della Grande Mela con la stessa scortesia con cui si arraffa un taxi in una giornata di pioggia), diventa evidente che The Ostrich non scalerà mai le charts di Billboard e così come erano nati i Primitives vengono “terminati” senza troppi rimpianti. I primi semi sono comunque stati piantati e teneri germogli iniziano a fiorire quando Lou fa ascoltare a John un paio sue composizioni, Heroin e Venus In Furs, decisamente inadatte ad affiancare il dozzinale catalogo Pickwick. Sulle prime tra i due, una coppia di galletti sempre pronti a beccarsi, ci sono alcune diffidenze, ma superatele Reed e Cale stringono amicizia e quando Conrad lascia l’alloggio al 56 di Ludlow Street, Cale invita Reed a trasferirvisi. Lì mettono a punto una significativa intesa musicale assemblando una serie di composizioni che andranno a costituire il futuro repertorio dei Velvet. Nel progetto Reed coinvolge anche il suo vecchio compagno di college e chitarrista Sterling Morrison ed il percussionista Angus MacLise alla batteria. Due ragazze (una delle quali sarà la musa ispiratrice per lo scorbutico ed introverso Berlin, concept dalle atmosfere malate e capolavoro di Reed del 1973) sono le prime, improbabili compagne della coppia nei Falling Spikes, ribattezzati anche, di tanto in tanto, Warlocks. 
La definitiva scelta del nome, Velvet Underground, nome strano, criptico, un imprimatur che si addice come meglio non si potrebbe ad un gruppo che conquisterà il mondo adottando come tratto distintivo una minacciosa innocenza, viene ispirata dal titolo dell'omonimo libro scritto dal giornalista Michael Leigh (6) e pubblicato nel settembre del 1963. Il romanzo descrive il sottobosco sessuale underground americano dei primi anni sessanta, e leggenda vuole sia stato prestato dall'ex Dream Syndicate Tony Conrad, al suo amico intimo John Cale, dopo averne trovata una versione tascabile abbandonata per strada, in una pozzanghera. A Reed e Morrison piace quel nome dall’efficacia ipnotizzante, per la sua assonanza con il cinema underground ed anche perché si concilia più che perfettamente con la poetica erudita e malata delle loro prime composizioni, come ad esempio Venus In Furs canzone ispirata all'omonimo romanzo scritto dall’ austriaco Leopold von Sacher-Masoch (7) ed inzuppato di riferimenti al masochismo e alle perversioni sessuali più varie.
Nel mese di luglio del 1965, scaricate le due ragazze, la band è bell’e confezionata e servita sul piatto della storia: Lou e Sterling alle chitarre, John diviso tra viola, basso e tastiere e l’inaffidabile Angus MacLise alle percussioni. Ogni tanto. Quando non se ne dimentica o lo ritiene opportuno. I resoconti sui primi tormentati mesi del gruppo sono pullulanti di aneddoti su questo personaggio originale ed eccentrico a dir poco: eccellente musicista sotto il profilo esecutivo ma assolutamente scoraggiante quando si tratta di operare in un contesto organizzato come quello che un gruppo con ambizioni professionali richiede. Capace di arrivare con mezz’ora di ritardo alle prove o ad un concerto e di continuare a suonare per mezz’ora dopo che i compagni hanno smesso, per mettersi in pari.
 Ad ogni buon conto, il 29 luglio la band entra in sala (al Ludlow Street) per registrare i primi brani The Black Angel’s Death Song, Venus In Furs, Heroin e Wrap Your Troubles In Dreams. Manco a dirlo MacLise è assente. Subito dopo Cale parte per un breve viaggio a Londra; in valigia ha una copia del nastro da consegnare a Marianne Faithfull, sua amica e compagna di Mick Jagger, nella speranza che lei lo passi al cantante degli Stones, grimaldello che potrebbe aprire loro la porta di una casa discografica: il rendez vous con Jagger non avviene e alla fine quelle registrazioni rimarranno chiuse in cassaforte fino al al 1995, quando verrà deciso di riportarle alla luce inserendole nel già citato box set antologico del gruppo Peel Slowly And See.
Cale torna alla base con dischi di Who e Kinks pieni di suoni distorti e feedback, nonché di testi che ricordano in maniera inquietante i resoconti di vita nei bassifondi che scrive Reed. Ottima cosa e pessima allo stesso tempo: ottima perché i Velvet realizzano di non essere soli, pessima perché temono di essere raggiunti e sembrare poi epigoni. Urge darsi una mossa. Inizia così la consueta trafila di concerti nei vari locali di New York: il loro primo ingaggio, l'11 dicembre 1965, i Velvet lo ottengono grazie al manager e giornalista musicale Al Aronowitz, personaggio di spicco che può esibire una discreta mallevadoria nella New York musicale che li contatta per un concerto alla Summit High School nel New Jersey e soprattutto far loro da manager.  Accettare denaro per suonare è però una cosa nemmeno ipotizzabile per il batterista MacLise che schifa il professionismo e, duro e puro, decide ipso facto di abbandonare la band, sbattendo la porta e protestando contro quella che, a suo dire, è diventata un’inaccettabile china commerciale lungo la quale sta scendendo la band. Ci sarà una rentreé solo un anno dopo, solo per alcuni concerti e solo per fare un piacere ad un Lou Reed malato. Cadrà più tardi vittima dell’epatite. Ricoverato in ospedale e quindi impossibilitato a presenziare, la sua avventurosa ricerca di integrità e purezza finirà nel 1979 a Katmandu, in circostanze rimaste oscure.
Il rimpiazzo viene protamente suggerito da Morrison: si chiama Maureen “Moe” Tucker, sorella minore di un amico del chitarrista. Cale, scottato dall’esperienza Falling Spike, non vorrebbe ragazze in squadra, ma Maureen, minuta e delicata in apparenza, suona una batteria da pochi dollari con piglio primitivo che si amalgama alla perfezione nell’ordito tramato dagli altri; inoltre anche umanamente si integra come meglio non si potrebbe con il resto della band. Utilizzando prevalentemente le percussioni e la cassa e tralasciando del tutto rullate e piatti, il suo drumming tribale aggiunge un tocco di ulteriore angoscia al sound dei Velvet. Maureen Tucker: “Stavo in piedi per ottenere quel sond africano. Avevo un solo piatto che sembrava un coperchio schiacciato”. Come ebbe a dichiarare una volta lo stesso Lou Reed: “Esistevano solo due tipi di batteristi: Moe Tucker e tutti gli altri.”
Il 15 dicembre del 1965 è la prima volta  in cui il gruppo si esibisce come headliner: la rivoluzione sembra avere finalmente inizio. L’evento ha luogo al Café Bizarre, un locale del Greenwich Village di New York, e tra il pubblico sono presenti anche alcuni frequentatori della Factory di Andy Warhol: i registi Barbara Rubin e Paul Morrissey ed il ballerino, poeta e regista Gerard Malanga (8). Ascoltarli dal vivo e suggerire a Warhol di assumerli come possibile resident band della sua Factory è un tutt’uno. Finalmente ci siamo!
Al Café Bizarre i Velvet mettono in scena dei vetriolici set di venti minuti cadauno, spingendosi ancor più oltre nel perfezionamento di un sound spigoloso che era già unico. “Non ci consideravamo degli intrattenitori” John Cale, da What’s Welsh For Zen, scritto con Victor Bockris, Blooomsbury 1999 “Non sorridevamo mai e giravamo le spalle al pubblico. Il nostro scopo era mettere a disagio gli spettatori, farli sentire fuori posto, farli vomitare. Odiavamo tutto e tutti”. E ancora: “Come gruppo non potevamo essere una pop band. Ci interessavano l’elettronica e la sperimantazione”. Ovviamente, appena ingaggiati, sono già praticamente licenziati. Fortunatamente, il giorno prima di venir messi gentilmente alla porta dai gestori del locale per aver suonato una volta di troppo l’atonale e dissonante rappresentazione di The Black Angel’s Death Song, si presenta al Bizarre, sollecitato da Malanga, Andy Warhol, incuriosito da questa band dal sound inimitabile. Durante Venus In Furs, Malanga si esibisce per la prima volta nella danza con la frusta in cui tante altre volte si produrrà in futuro. Mai in precedenza interessatosi al rock, Warhol viene colpito da ciò che vede e sente. Prima di lasciare il locale con il suo bizzarro e pittoresco codazzo di scrittori, pittori, stelline e travestiti vari, invita i Velvet a fargli visita nel suo covo, la mitica Factory. Aronowitz non lo sa, ma ha già perso il posto.
Non è mia intenzione soffermarmi sulla centralità di Andy Warhol – qualunque cosa si possa pensare riguardo la sua multiforme e genialoide produzione – rispetto all’arte moderna. Quello che mi preme sottolineare qui è che senza l’incontro con Warhol i Velvet Underground probabilmente non sarebbero andati da nessuna parte, o comunque la loro storia sarebbe stata meno glamourous, meno appassionante, in una parola meno leggendaria.
L’Andy Warhol pittore incontrò i Velvet (è ragionevole affermare che la copertina con la banana sia oggi la sua opera più celebre; più del ritratto di Marilyn o della lattina Campbell). L’Andy cineasta, purtroppo, no. Oh, certo, Lou Reed e sodali suonavano all’Exploding Plastic Inevitable, galleggiando nello scorrere di pellicole warholiane come un feto nel liquido amniotico, ma, per quanto incredibile possa sembrare, al regista autore di alcuni dei lavori più leggendariamente provocatori e inutili della storia del cinama – qualche esempio: Blow Job (fellatio), un inquadratura fissa di trenta minuti sopra la cinta (lasciando all’immaginazione dello spettatore ciò che accadeva sotto); Sleep, sei ore e mezza di John Giorno che dorme; Empire, otto ore con la camera puntata sull’Empire State Building senza che nulla accada – mai venne in mente che avrebbe potuto più proficuamente usare un pò di celluloide per immortalare almeno uno spettacolo dei suoi protetti. Sei stato imperdonabile, Andy! Così, possiamo solo cercare di immaginare concerti che i testimoni raccontano come destrutturate orge di feedback fra abbandono e violenza, con Moe Tucker che leva in alto il mazzuolo su un tamburo che aveva visto giorni migliori e con Nico, verginea e sexy, che percuote il tamburello fra Reed, Cale e Morrison, tre luttuosi Caronti scappati dall’Ade, con lo sguardo celato da impenetrabili lenti nere nelle quali si riflette l’ambiente circostante. Grandi indossatori di occhiali da sole i nostri eroi. Utili la sera per proteggersi dall’abbagliante parco luci warholiano e ancor più utili di giorno, oltre che per tirarsela e stabilire en passant un dettato estetico del rock, per celare pupille fatte a spillo dagli stravizi chimici.
L’Andy Warhol produttore discografico, viceversa, i Velvet lo incontrarono eccome. Va detto come Warhol, stante la sua completa ignoranza sul funzionamento di uno studio di registrazione, si limitava in realtà a presenziare, sorridere, annuire ogni tanto in segno di approvazione. La sua presenza è comunque preziosa perché così Lou e soci hanno mano libera nell’agire indisturbati e senza freni inibitori. Né la Verve che tra una seduta e l’altra li mette sotto contratto, né i tecnici del suono, né Tom Wilson (che può vantare nel suo carnet le produzioni della svolta elettrica di Dylan e responsabile di aver portato il gruppo alla Verve) osano interferire. Comunque sia, l’Andy produttore una cosa la fa: già nel secondo giorno dei Velvet alla Factory, li persuade (narrano le cronache che ci volle del bello e del buono per convincerli) che sarebbe stato più che opportuno avere nella line up della band una voce ma soprattutto un figura femminile, ché Maureen Tucker, un “maschiaccio” dietro i tamburi, non poteva competere per quel ruolo. Fa così la sua maestosa comparsa sulla scena Christa Paffgen in arte Nico. Bellezza tedesca che ha del surreale (poteva competere, in fatto di avvenenza e carica erotica, con il sex symbol dell’epoca: Brigitte Bardot) e scortata da Londra a New York nientemeno che da Brian Jones dei Rolling Stones, le sue credenziali sono un’esperianza da comparsa per Fellini e aver fatto un figlio con Alain Delon. Quanto ad intonazione vocale, beh, quella è una storia un po’ diversa, ché definirla quantomeno approssimativa è senz’altro un eufemismo. La femme fatale, sebbene sopportata a malapena dal resto della band (quantunque i tre maschietti ne subiscano il fascino, e Reed e Cale in particolare ne godettero brevemente le grazie – altro motivo di frizione tra i due “galletti”), si rivela personaggio fondamentale nel multimediale baccanale dell’Exploding Plastic Inevitable, che Warhol cuce intorno alla band. Era lo show più chiaccherato del 1966 newyorkese e tra film proiettati in contemporanea su più schermi, giochi di luce e allusive danze in cui si esibiscono Malanga e la divetta Edie Sedgwick, sembrava che dovesse incarnare per i Velvet il momento magico. Non sarà così causa la completa estraneità di Warhol al mondo della discografia. Estraneità che, in sovrappiù, causerà, commercialmente parlando, più di un contrattempo (ritardi, beghe legali e accidenti vari) all’album d’esordio della band.

Ed eccoci arrivati a The Velvet Underground & Nico e a Sunday Morning in particolare. L’album viene registrato tra New York e Los Angeles (dove l’intervento della polizia – l’accusa è pornografia – mette fine dopo tre serate all’ingaggio al Trip) nel corso del 1966 e pubblicato a marzo del 1967, dopo che due singoli, All Tomorow’s Party/I’ll Be Your Mirror, pubblicato nel luglio del ’66 e proprio Sunday Morning/Femme Fatale pubblicato a dicembre dello stesso anno gli avevano fatto da battistrada. Le poche inserzioni pubblicitarie puntano tutto su Andy Warhol (sulla front cover dell’edizione originale figura solo il suo nome, in basso a destra sotto la mitica banana sbucciata che ebbe la sua parte nel ritardarne l’uscita), la stampa underground lo ignora (Rolling Stone non lo recensisce nemmeno), e le radio newyorchesi lo boicottano (per ripicca i Velvet non si esibiranno più nella Grande Mela fino al fatale ingaggio al Max’s Kansas City che preluderà al disfacimento del gruppo). Cionondimeno il disco riesce a fare capolino nei Top 200 di Billboard e a sfiorare  l’ingresso nei Top 100 di Cashbox. Ma proprio quando le vendite sembrano finalmente decollare ci si mette di mezzo l’affaire Eric Emerson. Costui, un viscido ometto che gravitava attorno alla Factory, alle prese con problemi giudiziari e di droga, per alzare qualche spicciolo pensa bene di chiederli alla Verve: la meschina scusa è che nello scatto colto in concerto sistemato sul retrocopertina lo si intravede, e nessuno gli ha chiesto il permesso. Stronzo! Comprensibilmente innervosita di fronte all’eventualità di una causa legale, l’etichetta provvede precipitosamente a ritirare il disco dai negozi. Sarà possibile rivederlo qualche mese più tardi con la foto in questione modificata, ma l’attimo fuggente è per l’appunto fuggito.
Chi non fugge ma viene inopinatamente espulsa dalla band è Nico. La scusa? Essersi presentata in ritardo ad un concerto. La verità è che Lou Reed, da quel galletto campione di egocentrismo qual’era, ne patisce l’ingombrante presenza e a malavoglia aveva consentito a farle cantare tre pezzi (Femme Fatale, All Tomorrow’s Party e I’ll Be your Mirror) in un album che pure si chiamava The Velvet Undergroun & Nico. “Nico era talmente bella che turbava il pubblico. Non era una di quelle persone con cui ti puoi identificare”. Divorzio che tutto sommato non lascerà una scia di odi e rancori, come spesso accade in analoche circostanze, tanto è vero che nello stesso anno Reed, Cale e Morrison collaboreranno a Chelsea Girl, debutto solista della bella teutonica.
Anche nel destino di Sunday Morning avrebbe  dovuto esserci la voce di Nico (la canzone, tra l’altro, viene scritta da Lou Reed proprio con in mente l’interpretazione dell’algida divina), ma il nostro, agitando il bastone del comando, sentì che doveva farla sua a tutti i costi. Il risultato è un’interpratazione dolcissima e carica di pathos, con una voce che dall’inferno punta al paradiso. Ma tutta la canzone è un’orgia di romanticismo, una ninnananna che culmina in quella breve amorosa e dolente profferta su chitarra di struggente liquidità che si espande serena e radiosa come un caldo e luminoso sole che si sostituisce al chiarore incerto dell’aurora.
Una canzone avvolta in un suono attufato che ne incrementa oniricità e quieta paranoia, facendone una delle cinque songs dagli incanti melodici più romantici del 1966, le altre quattro essendo Just Like A Woman del Dylan di Blonde On Blonde, Lady Jane degli Stones di Aftermath, Here There And Everywhere dei Beatles di Revolver e Celeste del Donovan di Sunshine Superman. Tutte canzoni dall’inarrivabile delicatezza, tutti tasselli dalla costruzione malinconica estaticamente perfetta, tutte che hanno saputo attraversare il tempo, e ancor oggi sanno stupire, affascinare e commuovere.
Quanto ai Velvet  Underground, il loro songbook si arricchirà ancora di grandi dischi e grandi canzoni, ma la grazia trasognata di Sunday Morning sarà irripetibile. Quanto a noi, come diceva Mark Twain, si può preferire il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia. Ed i Velvet sono una cattiva compagnia di cui faresti bene a non fidarti. Quindi da frequentare assolutamente. Infatti con loro, laggiù tra le fiamme eterne, non si dovrebbe stare poi così male.


(1) Edie Sedgwick (20 aprile 1943 – 12 agosto 1992) è stata una modella e attrice, nota per essere una delle ragazze portate alla fama da Andy Warhol negli anni sessanta.

(2) Delmore Schwartz era nato a Brooklyn da Harry e Rose Nathanson, ebrei immigrati rumeni. A Brooklyn passò l'infanzia e l'adolescenza, soffrendo per il divorzio dei genitori, avvenuto quando lui aveva 9 anni. Aveva un fratello minore, Kenneth, ed entrambi restarono con la madre (il padre si trasferì a Chicago, dove si risposò). Delmore studiò letteratura alla Columbia University e all’università del Wiscondin, laurendosi in filosofia alla New York University. Nel 1937, a soli 24 anni pubblicò il suo primo racconto sul primo numero della rivista Partisan Review, alla quale poi restò legato da una collaborazione durata fino alla morte prematura. Sulla stessa rivista lavorava anche Gertrude Buckman che sposò nel 1937 e dalla quale divorziò sei anni dopo. Nel 1948 sposò in seconde nozze Elizabeth Pollett, una romanziera di molti anni più giovane, in un matrimonio che naufragò presto. Oltre a lavorare per diverse riviste e a intrattenere gli amici con brillanti conversazioni sulla letteratura presso la White Horse Tavern di New York, Schwartz ebbe grande influenza sugli scrittori newyorkesi degli anni '30 e '40, insegnando in qualche corso di “scrittura creativa”, senza però godere davvero in vita di un proprio successo (con l'esclusione del primo libro, considerato straordinario da diversi intellettuali coevi), per cui capitava che si isolasse, con problemi di depressione e alcolismo, tanto che quando morì, a soli 53 anni, nell'Hotel Marlon dove abitava negli ultimi anni, ci vollero due giorni prima che la direzione dell'albergo se ne accorgesse.


(3) Dirà di lui Arthur Rubinstein:  « Il più grande pianista tra i direttori, il più grande direttore tra i compositori, il più grande compositore tra i pianisti...un genio universale ». Secondo il sondaggio tra cento famosi direttori d'orchestra pubblicato dalla rivista Classic Voice nel dicembre 2011 è considerato il secondo più grande direttore d'orchestra di tutti i tempi dietro a Carlos Kleiber e davanti a Von Karajan e Toscanini. Il pubblico rock lo ha conosciuto tramite i Nice di Keith Emerson che hanno inciso America dal musical West Side Story del 1957.


(4) John Cage (5 settembre 1912 – 12 agosto 1992), fu un compositore e teorico musicale statunitense. È considerato una delle personalità più rilevanti e significative del Novecento. La sua opera è centrale nell'evoluzione della musica. 


(5) La Monte Thornton Young (14 ottobre 1935) viene generalmente ricordato per essere stato il primo compositore minimalista. L'influenza di La Monte Young nella musica contemporanea fu di portata molto rilevante. Grazie all'esempio di John Cage, egli divenne il pioniere del minimalismo, n genere musicale destinato a sviluppare, negli anni a venire, anche la drone music.  L'estensione della durata delle sue tracce e delle sue note fu la componente più importante per gli sviluppi della new age e di alcuni stili legati al rock.


(6) Per gli strani casi della vita, qualche anno dopo la cassiera del Second Fret di Philadelphia, covo fra i più battuti dai Velvet, saluterà Reed comunicandogli: “Mio padre è appena morto. Ha scritto lui il libro da cui avete preso il nome”.


(7) Il termine masochista deriva da lui.


(8) Nato nel Bronx, dopo aver studiato poesia e regia di film underground con il leggendario Willard Maas  e la moglie Marie Menken  all'università di Cincinnati, lavora con Andy Warhol come assistente dal 1963 al 1970 e presto diventa molto influente nella Warhol Factory. In quel periodo fu attore d'avanguardia in pellicole assai provocatorie ed erotiche come Couch (1964), Vynil (1965) e The Chelsea Girls (1966): la sua bellezza ed il suo carattere altezzoso lo resero uno dei protagonisti della Pop Art . A Gerard Malanga, che a metà degli anni sessanta fu anche manager di Warhol mentre quest'ultimo girava e produceva film sperimentali, si deve la messa a punto della tecnica della serigrafia che Warhol impiegò per la realizzazione di tante delle sue immagini pop.


Mauro Rollin’ On The River Uliana

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