Abituati a muoverci negli spazi
ristretti e nei percorsi obbligati dell’attualità che continuamente ci incalza,
restiamo paralizzati – quando vogliamo aprire gli occhi – di fronte allo
scenario aperto di una produzione musicale di proporzioni immani. Un
orizzonte sconfinato che avevamo
dimenticato o neppure immaginavamo che esistesse. Confusi e schiacciati, fino al timor panico, dalla assoluta libertà di
scelta fra uno sterminato plateau di note di dimensioni inimmaginabili. Affondare
in questo oceano dovrebbe significare fare una scoperta che ci aiuti a capire
meglio l’antropologia di tutto ciò che oggi captano le nostre orecchie, se solo
si rinunciasse per un attimo al bizzarro pregiudizio che vuole solo il presente
degno di assurgere agli onori delle prime pagine, dove l’azione immateriale
della “kultura”, con il cinismo che la contraddistingue, continua a praticare
quel processo di assimilazione forzata che tende a cancellare ogni memoria. E tanto più di questa attualità se ne decantano qualità e peculiarità,
tanto più l’opera livellatrice dell’informazione riesce a lobotomizzare le
nostre menti, fino al punto di rendere ogni “quando” un “sempre”
indifferenziato. Invece che testimoni di ogni evento sonoro e pellegrini di
ogni tempo, siamo così diventati vedenti senza un passato su cui posare gli
occhi e viandanti senza più una storia su cui posare i piedi. Condannati
a consumare simulacri – immagini dell’oggi e suoni del domani – in un corto
circuito d’informazioni al quale la storia e la tradizione non servono che da
lontano pretesto. Per sopravvivere e sfuggire all’eutanasia di
una disinformazione cloroformizzante, non si può quindi che rintanarsi nelle
superstiti occasioni di rivisitazione che il mercato dell’editoria sempre più
raramente ci concede, sorpassando a destra la feroce regola che ci
vorrebbe obbligati a viaggiare nello
strano deserto popolato della contemporaneità e del suono medio dell’ambiente.
Non suoni questa come la solita,
tediosa litania da nostalgico, vecchio rocker; ma quanti appassionati hanno la
memoria che oltrepassa la barriera – oserei dire ideologica – del 1977, che già
appartiene al giurassico, quando più probabilmente non di dieci o più anni
spostata in avanti? Quanti? E quanti acquirenti? Un conto è infatti conoscere,
magari apprezzando, se pur in linea teorica, un conto è entrare in un negozio
ed acquistare. Talvolta è supponenza, talvolta semplice questione anagrafica.
Pertanto, nel pieno rispetto di
chi per mestiere si arrabatta a scoprire l’ultima moda del momento, noi di Noize
On The Bayou tenderemo ad un diverso focus, attraverso il quale - nel
nostro piccolo e con molta modestia e dedizione - sarà nostro precipuo
obiettivo fornire una chiave di lettura “altra” di tutto il magma sonoro che
quotidianamente ci avvolge. Ovviamente, questo significherà anche fare un
elenco di quanta produzione discografica, anche di altissimo livello, è rimasta
sommersa dal corso del tempo, e stimolare così il recupero. Ciononostante non
sarà, Noize On The Bayou, una rivista passatista. Non sarà una rivista
che lascerà cadere una maschera pseudo
avanguardista per rivelare la sua intima vocazione al passato. Semplicemente
noi il passato lo tireremo fuori dalle secche di un instabile e sospettoso rapporto
con il nuovo pubblico, senza perdere di vista, nemmeno per un istante, i vitali
messaggi, le geniali anticipazioni, le oscure profezie estetiche e morali,
insomma, tutti gli sviluppi creativi che il microcosmo delle sette note saprà
offrirci.
Già il nome dovrebbe contribuire
ad identificarci. Noize (rigorosamente con la “zeta”, come usa nella
suburbia), rumore, vale a dire ciò che dagli anni novanta è iniziato ad
assurgere al rango di nuovo oggetto di culto, segnando un’epoca storica: dai
Sonic Youth ai Nirvana, fino alle avanguardie iconoclaste guidate da John Zorn,
per poi passare a ciò che venne definito post-rock per giungere. Il nostro
rumore però si sciacqua nel bayou, pozza acquitrinosa della zona del delta del
Mississippi che, oltre a dare i natali a un numero non disprezzabile di alligatori,
è anche la culla delle dodici battute del down home blues da cui tutto sarebbe
in seguito derivato (jazz, rock’n’roll, hip-hop e metal compresi). Una rivista
strabica dunque, in cui non solo ogni commistione sarà lecita, ma diverrà
pratica non più tabù cercare contatto/contaminazione con tutte le musiche e le
epoche possibili.
Noize On The Bayou è anche – va detto – parafrasi di Born On The Bayou,
contrassegno stilistico di un gruppo quale i Creedence Clearwater Revival, una
faccenda strettamente personale di amore cinquantennale che ha portato chi ha
avuto la malsana idea di concepire questa rivista ad eleggere (imporre) il loro
leader John Fogerty al rango di spiritual guidance. Dunque qualcosa di
estremamente consapevole e mirato. Attenzione! Nello spirito più che nella
lettera. Infatti la politica di Noize On The Bayou non sarà
orientata ad alcun stile musicale, né si rivolgerà a specifiche generazioni di
musicisti. Noi infatti pensiamo che il raccontare di musica non debba essere
una faccenda a compartimenti stagni, ove i vari generi raramente interagiscono
e i fruitori si dividono in tribù da stadio. E’ insomma nostra intenzione
appropriarci dell’attitudine del conoscere che ha informato di sè almeno gli
ultimi 35 anni di rock, ed oggi tanto diffusa da essere pratica comune sui
dischi ma un po’ meno sulla carta stampata.
Accanto a nomi grandi e
fiammeggianti, troveranno così posto falde di musica poco frequentata. Bravi e
sconosciuti beautiful losers o stars reinghiottite dall’anonimato. Sono
questi, anzi, i nomi che ci “acchiappano” di più. E lì fuori esistono miliardi
di musicisti eccellenti che altro non aspettano che qualcuno rilevi e divulghi
la loro statura di artisti. Tutto ciò nonostante la stragrande maggioranza
della stampa di settore si ostini a parlare in maniera pressoché esclusiva di
ciò che gli viene passato dall’industria.
Non c’è dunque bisogno alcuno di
uno spunto di attualità per parlare di Creedence Clearwater Revival (noblesse
oblige), Korn, Seldom Scene, Metallica, Dave Grohl, Afghan Whigs, Pixies, Roy
Wood, Robert Johnson, King Crimson, Subsonica, Incredibile String Band perché
sono più attuali che mai e la loro influenza è presente ovunque.
Piuttosto, sarà per Noize On
The Bayou ragione di vita dare un senso al termine crossover, il cui
significato è in definitiva (molto semplicemente) non vedere (perché non
esistono) confini tra i generi musicali. Nostro sforzo quotidiano sarà dunque
raccontare una storia creando un’atmosfera, un gusto, un mood, piuttosto che
dimostrare qualcosa. Darvi conto, insomma, di quel melting pot di suoni
e di culture che è il principale fondamento di tutta la musica che oggi
ascoltiamo.
La nostra ossessione è che un
certo tipo di memoria storica possa finire in un tremendo “cul de sac”, venire
totalmente rimossa. Timori giustificati se pensiamo a certa stampa cosiddetta
specializzata, con molte responsabilità nell’abbrutimento attuale dell’estetica
e dell’etica musicale, a certi “critici laureati” e nuovisti ad oltranza che
tendono all’effimero ed allo sradicamento di tutto ciò che è stato fatto non
venti o trenta anni prima, ma magari solo a distanza di qualche mese. Nani
presuntuosi e supponenti che nemmeno si vergognano della spazzatura edonista e
superficiale con cui riempiono ogni giorno le proprie orecchie e pagine.
Raccogliere e non spezzare il filo
della memoria, dunque. Vedere la musica non soltanto come fatto epocale,
transitorio, giovanile, ma capace di accompagnarci lungo tutto l’arco
dell’esistenza. Il nostro sogno/intento? Essere luogo d’incontro tanto per
coloro che volentieri strapperebbero una trentina d’anni al calendario del
rock’n’roll (o del jazz o di qualsiasi altra musica), quanto per coloro che
passano notti insonni alla ricerca del nuovo che avanza. Col vostro sostegno
l’arduo cimento non sarà impossibile.
Che gli spiriti del bayou siano
con voi.
Mauro Rollin’ On The River
Uliana
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