Quattro eroi blue collar per antonomasia. Questo furono i Creedence Clearwater Revival e John Fogerty, un gruppo che sembrava uscire da un road movie ed uno storyteller visionario e schiettamente realistico al contempo, pugnace e carico di compassione per la gente più umile, e che sparò in faccia al mondo un pugno di canzoni più intelligenti di quanto non dicano la camicia a quadri ed il look da cow boy del loro autore. E allora vi dirò di Bayou Country, album imbevuto di radici country-soul-blues e vibrante di piacere per il ritmo che dalla stagione dei grandi bluesmen di Chicago e dei fantastici cantanti soul di casa Stax e Atlantic sembrava essersi perso per strada. In particolare vi racconterò le nerissime dilatazioni rock blues di Penthouse Pauper, dove su di un tappeto ritmico di micidiale elasticità si libera una scorribanda di guizzanti stilettate e scariche elettriche, suonate da un uomo che torturava le chitarre quando Steve Ray Vaughan si faceva ancora rubare le merendine.
Una cosa è certa: dei Creedence Clearwater Revival e di John Fogerty, il ranger con note e silenzi, si è sempre parlato con parsimonia. Poca analisi, righe smunte e il Gran Concerto della Critica attento a non sprecarsi in grandi discorsi, ma bensì diligentemente in coda all’ovvietà, infiorando note e appunti di parole rade e tesi scontate. C’è una profonda ingiustizia dietro questo distacco: perché il gruppo ed il suo mentore hanno un ruolo grande e fiammeggiante sul teatro del rock più fiero e penetrante. Basta immergersi con avvedutezza e lucidità nell’oceano del suono Fogerty per accorgersene. Insomma, è tempo di sistemare le virgole in un campo pieno d’ombre e luoghi comuni, con l’obiettivo di far svanire all’orizzonte il noioso blaterare che ha accompagnato quella musica mordace e quella voce senza posa.
“Creedence Clearwater Revival rappresenta qualcosa di profondo,
vero, puro; un qualcosa attraverso cui la luce filtra di continuo”. Sembrerebbe lo sproloquio di un mistico, ed invece è ciò che si
sentiva rispondere chi chiedeva lumi sul significato di quel nome stravagante
dal Sig. John Cameron Fogerty, persona sanissima di mente, paladino della
working class – “Vedo le cose attraverso gli occhi della classe
lavoratrice” avrebbe dichiarato a Time nel 1969 e all’universo blue
collar egli dedicherà alcuni
dei suoi brani più veementi e carichi di colore – sinceramente antidivo, forse un po’ populista, misantropo quanto basta, fermamente socially conscious: “Socialmente consapevole è qualcosa di più che
impegnato politicamente – spiega il nostro – ti dà sempre nuove possibilità. E’ come nel baseball: sei sotto prima dell’ultimo inning ma hai ancora la possibilità per
vincere”.
E’
ad una manciata di grezzi tesori, ad un'insaziabile sete di spiritualità, alle
inquietanti visioni del millennio di lì a venire che Fogerty ci propone, alla
sua inesausta ricerca di cunicoli segreti che collegano la realtà quotidiana
con dimensioni misteriche e trascendenti, alla sua voglia di scagliare frecce,
al suo gusto di tagliuzzare la palandrana all’Estabilishment, di rubare il cappello allo Zio
Sam e riempirglielo d’arsenico
che appartiene l’essenza
magica e pugnace del nostro uomo (Fortunate Son, Bad Moon Rising, Penthouse Pauper, Effigy sono confetti al cianuro la cui
preterintenzionalità ha provocato le ire e gli strali di bacchettoni e
benpensanti). E ad essi dobbiamo necessariamente rivolgerci se vogliamo
comprendere quanto grande e sfaccettata sia la sua (loro) arte.
Un grande mausoleo discografico, insomma, un
museo del Louvre che si erge irreale nel cuore del bayou, con Baron Samedì al
posto di Belfagor e che immagino a forma di alligatore. Un misterioso
tempio pagano eretto al centro di un viscido e strisciante rettilario in onore
di storie tenebrose, di inquietanti ballate e di una masnada di rock’n’roll back to basic. Questo il poco
rassicurante edificio in cui vi invito ad entrare; ed esaminando il materiale
esposto nelle sue teche vedrete che non mancheranno di emergere motivi di
eccezionale interesse.
Scegliamo di iniziare dal 1969, anno
creedenciano senza tema di smentita. 3 albums e 4 singoli, tutti sparati al N° 1 delle charts americane (e non solo di quelle), sono un
imprimatur difficilmente contestabile. E' Bayou
Country, tempestivo successore del 1° omonimo album pubblicato nel
'68 e primo dei tre licenziati da John Fogerty & pards in quegli incredibili 12 mesi, a
segnare il cambiamento diventando il manifesto dell'estetica creedenciana: tra
i suoi solchi viene certificato l'atto di nascita dello "swamp rock" o rock della palude, un'intuizione
destinata a modificare radicalmente l'approccio sonoro del gruppo. Lunghe
improvvisazioni, esposizione di più modi di comporre e soprattutto
l'instaurazione di quei famosi dialoghi ancestrali, quel fosco ritmo bayou che si
dipana tra il gris-gris di Dr. John e le notti della
Louisiana. Ed è incontestabilmente con quest’album sontuoso che il destino di colui che era
stato definito “autore e poeta laureato in pop music” si compirà. Già durante le registrazioni
del primo disco, infatti, John Fogerty si era proiettato sul nuovo progetto che
sarebbe diventato l’autentico turning point programmatico per il nuovo corso della
band di Berkley. “Avevamo finito di registrare il primo album
proprio quel pomeriggio e stavamo provando per suonare la sera dopo all’Avalon. - ricorda John -
Suonavamo e non pensavamo a ciò che facevamo ma proprio lì, in quel momento, mi
venne l’idea e cominciai a scrivere il pezzo; nessuno capì che stavo
scrivendo una canzone, tutti pensavano che stessimo provando e scherzando un po’. Così è nata Proud Mary e nel giro di una settimana
e mezza tutto l’album. Alla fine mi scoppiava la testa e ho pensato: non è
possibile che io abbia fatto tutto questo”.
E’
da queste semplici premesse e spontaneità d’approccio che Bayou
Country, rappresentazione in disco di uno scenario di mistero e piccoli
brividi assolutamente originale, viene dato alle stampe nel gennaio 1969,
giusto per non pubblicare un album dietro l’altro senza soluzione di continuità, come i
forsennati ritmi produttivi e la straripante creatività di John Fogerty
avrebbero richiesto. Straripante creatività e prove tecniche di leadership, o
di talento, se preferite, giacché il nostro già andava assumento
letteralmente e sempre di più il controllo del gruppo, arrivando a costruire
con caparbietà persino tutte le parti vocali (anche i backing vocals, intendo),
dando inizio alla trasformazione dei conflitti di personalità, fino a quel
momento latenti in seno al gruppo, in giochi di potere che avvolgeranno la band
come una nube di tossiche e cattive vibrazioni, accompagnandola fino al giorno
del suo scioglimento. “Apparentemente, anche i Beatles sembravano
formare un squadra omogenea, in cui c’era un equilibrio tra i diversi contributi – spiegherà con più di una punta di veleno John
nel 1997 – In realtà, tuttavia, covavano anche dei conflitti e talvolta la
gelosia serviva da pungolo creativo. All’interno dei Creedence, il talento era ripartito
meno bene tra i quattro membri. Tutte le canzoni, l’interpretazione e gli arrangiamenti venivano da
me. Cantavo tutte le parti vocali. Ci fu il famoso incidente del ristorante
italiano, alcune ore dopo che ebbi registrato tutte le voci in Proud Mary. Gli
altri faticavano a mandar giù questa situazione. Salvo che non sapevano cantare.
E’ semplice”.
Parole dure, sferzanti, che, piaccia o meno, vengono confermate
dai fatti: ché la disparità nella forza caratteriale e nel genio lucido e non trattenibile assopiscono l’orgoglio
degli altri tre e John detterà legge dal primo all’ultimo solco, non solo strepitando a pieni
polmoni, ma andando in paradiso tra una miriade di spezie e profumi che
emergono e si fondono con la musica e che diventano marchio di fabbrica della
band. Sarà infatti la prima volta dai tempi dei Golliwogs in cui egli
riprenderà a suonare l’armonica
a bocca, che gli aprirà varchi di nostalgia e nuove possibilità espressive, e
soprattutto sarà, grazie al trattamento che fa subire al suo songwriting con un
brano come Proud Mary,
brano simbolo nella carriera del gruppo, col suo irresistibile appeal
radiofonico, un successo incredibile di pubblico e critica che farà decollare
il progetto e decreterà l’affermazione
di Bayou Country.
Bisogna dire che tutto sembrò avvenire ineluttabilmente, come se l’album precedente avesse preparato il terreno per
questo, visto che ci si trova tutto quello che farà dello storico quartetto un
gruppo a parte. E’
il segno del cambiamento: tra i solchi di Bayou
Country, con la nascita dello swamp rock, oltre al suono del gruppo, verrà modificato il suo rapporto con la cultura del flower power, allora ritenuta vera ed unica
essenza del politically
correct in musica.
“Aggirarsi tra quelle cosa era cool – racconta John - Comunque c’era qualcosa che mi tormentava dentro. Avevo
bisogno di cambiare pelle – questo spiega sicuramente i miei numerosi
riferimenti al voodoo. Dopo il successo di Suzie Q. avrei
potuto, all’età di ventidue anni, essere tentato di sfruttare una formula ma,
prima ancora che uscisse il primo album, avevo già iniziato a scrivere il
secondo, Bayou Country. La mia prima moglie lo può
dire, non dormivo la notte, vivevo in una specie di trance, bevevo moltissimo
caffè e non avevo neppure la chitarra con me, fissavo il muro dell’appartamento e cercavo di attraversare quell’orizzonte proiettandomi in un altro universo.
Dopo i Beatles e i Beach Boys, sapevo che, se l’immaginario coincideva con la musica, io potevo
creare non solo un mondo, ma anche un mito”.
Da sempre John aveva subito il fascino della musica del sud degli
States, musica nata nelle paludi della Louisiana, a New Orleans, a Baton Rouge,
nei bayous (dall’indiano Choctaw Bayuk), spettrali e malsane pozze
acquitrinose battute del vento ed infestate da famelici alligatori che
contornano il delta del Mississippi. Lì, tra impenetrabili intrichi di
mangrovie dove la luce del sole filtra a malapena, lo spirito di Slim Harpo
convive con quello di Baron Samedì, principe del voodoo e signore del terrore, dando
vita ad una musica misteriosa, inquietante, intrisa di atmosfere messianiche e
riti pagani. Un sud sonoro mitizzato che trovava nuove posizioni sulla
scacchiera dell’esistenza
dei nostri eroi: con i riflessi di vecchi 78 giri e le ombre eterne del blues
dei campi, con l’eco
di spettri neri e lucenti che suggerivano musica essenziale e con una
chitarra e un’armonica
allo sbaraglio che disegnavano fregi aurei, lungo le direttive scarne e
strappacuore che erano state l’autostrada
di tanto rock’n’roll seminato on the road e che John, con più di
un’invenzione
e ricamo personale, fece suo. Quasi un viaggio iniziatico il cui approdo
sembrava essere lo stesso fatale ed emblematico crossroads di Robert Johnson.
E se il
rock’n’roll era sudista, egli decise che anche lui
sarebbe stato sudista: “Perché – sentenzia -
tutto quello che ho imparato veniva dal sud. Tutti i grandi dischi o la gente
che li aveva fatti, in qualche maniera proveniva da Memphis o dalla Louisiana o
da qualche posto lungo le rive del Mississippi. Il mio sogno di vivere lì è durato
tutta la mia vita”.
Come mirabilmente osserva Joel Selvin nella sua colorata e ardente
presentazione di Bayou Country,
acclusa nel booklet di Box On
The Bayou, cofanetto di sei CD ed opera archeologica di grande valore
filologico sull’epopea
della band, nato ufficialmente con l’intento di ordinare i molti materiali sparsi
negli anni: “Egli cominciò a districare Proud Mary, Born On The Bayou e Keep On Chooglin’ dalla bruma dei romanzi di Mark Twain che aveva
letto a scuola, dagli scoloriti B-movies in bianco e nero di cacciatori di
coccodrilli nelle scure paludi Cajun e da Will Rogers che cantava del capitano
di un battello a vapore. Nell’orecchio della sua mente sentì il Mississippi
boogie di Bo Diddley e la voce fangosa di Howlin’ Wolf. Vide James Garner suonare sul battello
bisca in Maverick. Sentì il tremulo vibrato della chitarra di Pop Staples e l’agile soul di Booker T. & the M.G.’s. Conobbe Elvis Presley ed i gialli dischi
della Sun Records e bevve dal Mississippi River, una forza mitica nella storia
d’America”. Le stesse sante acque, se ci è concesso chiosare, da cui John
esce battezzato.
Bayou Country fu registrato agli RCA studios di Hollywood, dove più celebri
suole si erano già posate. Fu lì infatti che gli Stones officiarono il rituale
dardeggiante di Satisfaction:
una mitica session da Hall Of Fame e un inno di chitarre e calore che non
misero in soggezione più di tanto John e pards, né gli impedirono di giocare
felice tra quelle stanze leggendarie, da cui la sua ispirazione
eccentrica squadernò un ecclettismo salutare. Con un occhio che guardave la
Mason-Dixon Line e l’altro
che rovistava tra i canneti del blues, egli frastornò l’ambiente rock con un disco di irripetibile
fulgore: il fiore del southern rock tirato fuori dalla sua pelle, tenuto per il
tallone e immerso negli acquitrini della Louisiana. Finiti completamente gli
interscambi con la schiuma della psichedelia e con i fermenti bohemiens delle
strade di San Francisco. C’è
una corrente nuova che percorre Bayou
Country, una carica prodigiosa che l’attraversa e l’accende: e con quel ritmo, con i vestiti per
metà classici e per metà nuovissimi di un suono inventato con genio, John
arricchiva la sua ispirazione eccentrica con lunghe tirate bagnate di fango e
illuminate di luna, spiate e colte attraverso un prisma unico, assolutamente
personale, evidenziando una sanguigna intensità che saliva dal profondo dell’anima con i suoi umori blue. Nascono così brani
di febbricitante fascino e tinte forti come Born
On The Bayou e creature fuori
dal comune come Penthouse
Pauper. Capolavori come Proud
Mary, un brano che è tutto e niente, ma dall’atmosfera regale e con la tenera presenza di un
lirismo forte e indistruttibile, e melopee mortifere come Graveyard Train, canto d’amore e disperazione che riafferma la lezione
del blues più sdrucito. Meraviglie fatte di country appassionato quali Bootleg e ritorni al castello del rock più
nero e alla frenetica voglia di ritmo come Keep
On Chooglin’ e Good Golly Miss
Molly. E’
il momendo d’oro
dell’artista
maturo: senza puntigli trendistici, senza febbri di rinnovamento, ma con un
suono sporco e penetrante che ben si muove nello sbrindellato cosmo della sua
ispirazione. Il blues ha solidificato, John punta la Rickenbaker verso la luna
(quella blu, se ci s’intende)
e all’armonica
è uno spettacolo; pare sia stato toccato dallo spirito di Baron Samedì, pare l’officiante di un rito voodoo e titolare di un
carisma straordinario che gli permette di vestire idee, sogni, immagini di
abiti sontuosi che incantano tutti; e tutto il gruppo sa viaggiare assieme a
lui, con fiera sicurezza, al ritmo sanguigno di uno degli album cardine degli
anni ‘60.
“Ci chiesero cosa avremmo fatto dopo il primo
album. -
è il ricordo di John - La
musica che io amavo veniva dal profondo sud. Mi piacevano le storie di voodoo,
di serate umide e misteriose. Suzie
Q. non ci differenziava
granché dagli altri gruppi. Proud
Mary cambiò di
velocità, cambiò la storia. Veniva definito il nostro suono, il nostro
universo. Il progetto iniziale era quello di creare una sorta di territorio
musicale pieno di paludi, alligatori e fantasmi. Era il ’68 e si cominciavano a vedere le forme che
avrebbe avuto lo stile Creedence”. Il gioco è dunque totale, l’artificio completo; Bayou Country è l’album che batte il tempo della nuova situazione,
che chiude il cerchio del suono nuovo a tutti i costi e sbollisce i sacri
calori della psichedelia che si infilavano un po’ di straforo nel disco precedente, dando modo
alle songs dei Creedence di arricchirsi di ulteriori interferenze ed influenze
dal passato. C’è
tutto un mondo che ora ruota tra le mani di John: una dimensione popolata
di Cajun Queens e hoodoos, di battelli “keep on burnin’, rollin’ down the river” e New Orleans, in un collage che sbuccia la mela
della tradizione colpendo due bersagli contemporaneamente: riuscire deciso e
pieno d’inidicazioni,
senza correre troppo nel Paese di Alice, e continuare a banchettare con il
vecchio blues. Laggiù, nel delta, a dondolar note da una veranda sul bayou o in
un bordello di Storyville a soffiar d’armonica con smania violenta e con la voce che
si contorce. E’
tutto il cosmo dell’artista
e dell’uomo che
si fa diverso, regalando all’ascoltatore
momenti di pura evasione mentale ed al contempo sensazioni di sanguigno
attaccamento alle proprie radici culturali. Tutto ciò senza che né John né gli
altri avessero mai fatto conoscenza diretta con quell’ambiente: “Anche se non ci avevo mai messo piede, vivevo
nel loro mondo – spiega John -
Ascoltavo dei dischi, trattenevo delle parole, cercavo di immaginare che cosa
potesse essere la loro vita. Fantasmizzavo un’esistenza ed un ambiente. Non c’è nulla di nuovo in questo. I ragazzi di oggi lo
fanno ancora. Ascoltano la musica nella loro camera con la luce abbassata. Io
non avevo bisogno nemmeno della luce perché avevo un amplificatore con delle
lampadine che diffondeva nella stanza un misterioso chiarore. Sono andato
laggiù per la prima volta dopo l’uscita di Bayou Country. Il
bayou è qualcosa di affascinante, inquietante e tremendo. E’ una cosa che l’uomo non può né capire né distruggere perché
cresce troppo velocemente”. E poi continua: “In quel viaggio non preparai assolutamente
nulla. La prima volta, sono arrivato a New Orleans, ci ho passato due giorni
perché è una città che amo – soprattutto il French Quarter. Poi sono
risalito fino a Hattiesburg, che non è nel Delta. Avevo mancato il bersaglio.
Sono rimasto lì cinque o sei giorni e poi sono tornato a casa. Il mio secondo
periplo l’ho preparato molto meglio. Ho letto libri più completi sull’argomento, libri sul blues e sulla storia della
regione. La prima cosa che ho imparato è stata che è più comodo partire da
Memphis. Sono andato a Clarksdale, la città più importante del Delta, e lì ho
comprato dei dischi in vinile che ho registrato su cassetta per poterli
ascoltare in macchina. Prendevo appunti su dei blocchetti. Avevo con me anche
una macchina fotografica. Senza saperlo, lavoravo come un giornalista. Spiavo
le cose. La signora Hill pensava che facessi delle ricerche per scrivere un
libro. Gestisce il Riverside Hotel di Clarksdale sin dall’inizio degli anni ’50. Un tempo John Lee Hooker era il suo socio.
Prima, era l’ospedale della città, quell’ospedale che nel novembre del 1937 rifiutò di
accogliere Bestie Smith dopo il suo incidente stradale, perché era nera. E lei
morì. Poi è diventato un albergo che aveva tra i suoi clienti Ike Turner, che
suonava con i Kings Of Rhythm e che risiedeva lì prima di partire per Memphis
per registrare Rocket 88, considerato il primo pezzo rock’n’roll della storia. Era così che accadevano le
cose. Io cercavo di capire come e perché fosse nata questa musica. Non sono
ritornato con una risposta scientifica, ma so che se all’epoca eri nero e dovevi scegliere tra diventare
un musicista e lavorare in un campo di cotone dall’alba al tramonto, con una temperatura di più di
quaranta gradi, la scelta era evidente. Ecco perché c’erano così tanti bravi musicisti. Eppure questo
non spiega tutto, non spiega perché questa musica sia così avvincente. Forse c’è un rapporto con la terra o con l’aria, non lo so. Suonavano il blues anche in
altre regioni degli Statu Uniti, in Texas, nei piedmonts della Georgia, ma
quello suonato nel Delta era più intenso e ispirato di altri. Nella musica di
Robert Johnson c’è una dimensione metafisica, ma anche un rapporto con il
sovrannaturale. Lui viveva nell’ossessione di qualcosa, e si sente. E numerosi
musicisti di quell’epoca e di quella regione possedevano un potere di cui ignoro la
natura. E, nella misura in cui erano molto coscienti di questo potere, temevano
che si ritorcesse contro di loro. Questo elemento ha influito molto nelle mia
creazione con i Creedence. Essere là, dove erano stati quegli artisti
leggendari, camminare dove loro camminavano, mi ha dato molta ispirazione. E’ curiso vedere come tanti grandi musicisti
provengano da un’area così piccola… una sorta di Terra Santa”.
“Non sapevamo se le cajun vibrations avrebbero
smesso di parlarci – puntualizza Stu Cook, l'occhialuto bassista – Nessuno di noi in vita sua era mai stato in
Louisiana o nel bayou. John ha adottato il concetto del Mississippi River e noi
lo abbiamo fatto nostro. Le nostre influenze musicali sono blues, country ed i
primi artisti rock’n’roll come Elvis, Fats Domino, Little Richard, Ricky Nelson, Jerry
Lee Lewis e così via”.
“La cosa funzionò molto bene per noi – conclude Clifford, l'uomo dietro i tamburi – Il suono della voce di John ed il nostro modo
di suonare insieme ci faceva apparire come dei ragazzi della Louisiana. Persino
la stessa gente della Louisiana pensava che fossimo loro conterranei”.
Per chi scrive non è assolutamente facile parlare di Bayou Country, dato l’amore che mi lega a questo pezzo di plastica
nero (niente CD a quei tempi!), che potrebbe farmi apparire poco obiettivo. Questo
disco è stato infatti l’inizio
di tutto. Letteralmente. E Proud
Mary in esso contenuta, il
brano che mi convinse con tanta irresistibile rapidità, costituisce il mio
primo e decisivo heavy
petting con il rock. Già
avevo provato ad appendere il mio cuore al pop genialoide dei quattro di
Liverpool, al rock
postribolare di Jagger e Richards, alle suggestioni agresti dello Zimmerman
post incidente motociclistico, alle geniali allucinazioni di Hendrix; ma la
molla che mi fece entrare in un negozio di dischi per acquistare il mio primo
pezzo di vinile è stata Proud
Mary dei Creedence Clearwater
Revival, nell’estate
di un 1969 ormai lontano e appeso al reame sempre più sconfinato dei ricordi. E
ad ottobre, già tra i banchi di scuola, fresco reduce dai loro ultimi
singles – Bad Moon Rising/Lodi, Green River/ Commotion – visto che i 45 giri non erano più sufficienti a
saziare la mia sete di musica e che l’idea che esistesse una dimensione più estesa del
mio gruppo preferito mi eccitava, eccomi pronto al salto di qualità, e per la
modica cifra di –
udite! udite! - £. 2.700 (bei tempi, eh?) a conquistare il mio piccolo trofeo:
quell’enorme
padellone di 30 cm. di diametro che mi soggiogava ed esaltava al contempo.
Sembrava una gran cosa; la copertina con le facce dei quattro in primissimo
piano e l’ancor
più intrigante lettura dei tempi di durata dei brani mandavano lampi di
Fillmore West ed irresistibili tepori californiani. Uno shock culturale. La
definitiva consacrazione del mio personale mito. Graveyard Train 8’32”! Keep On Chooglin’ 7’40”! E Born
On The Bayou?! 5’10”!!! Di oltre un minuto più lunga che nel 45
giri!! Sicuramente poco a che fare con trastulli da ragazzini da ascoltare in
spiaggia col mangiadischi. Sembrava piuttosto avere, quello strano oggetto, obiettivi
diversi e tessere una rete più ampia. Roba da non prendere alla leggera,
insomma. Osservando poi quei volti effigiati con effetti flou, al timore
reverenziale si aggiungeva la curiosità ed il mistero: quale era John Fogerty?
A giudicare dalla voce, quello con barba e baffi. Ed il fratello Tom? Senza
dubbio quello con gli occhiali, vista l’evidente somiglianza. Il biondo era certamente
Doug Clifford, mentre quello coi baffi, in basso a sinistra, aveva una faccia
da Stu Cook. Andò così. Veramente! E mi ci vollero alcuni mesi a pane e Ciao
2001 (all’epoca
il magro convento dell’editoria
musicale dello stivale –
dei miei stivali? - non passava altro) per realizzare che non ne avevo
azzeccato nemmeno uno!!!
Tornato a casa eccitato, misi il disco sul piatto e dai rachitici
altoparlanti del mio Loewe Opta simil-mobile bar con braccetto di mezzo chilo
uscirono dei ganci tremendi. Un’esperienza
di teletrasporto direttamente ai piedi del Golden Gate, per poi perdersi
oniricamente tra i cieli perennemente cobalto di California e i suoi assolati
deserti rosso mattone: due strappi di Keep
On Chooglin’, giusto l’inizio di Penthouse
Pauper ed il favoleggiato
incontro per la corona dei pesi massimi rock’n’roll
era già bell’é
finito, con uno spietato K.O. tecnico a favore di Fogerty & C.
Fuori dal comune è certo la materia di cui è fatta Penthouse Pauper: spirito rock in odore di Memphis sound marchiato
a fuoco dalla passione per il suono southern (se ne sono accorti, nel 1980,
anche i Molly Hatchett di Beatin’ The Odds, senza peraltro uguagliarne la sensualità,
persa in un incedere squadrato e pesante) e le spinte rhythm’n’blues
che le danno le coordinate del pezzo indispensabile. Ha la stessa intensità
emotiva di Suzie Q., la varietà di esecuzione di Ninety Nine And Half (Won’t Do) e la carica dirompente dei concerti. Qui la
voglia di torturare le corde delle chitarre che pervadeva il precedente album
non è più trattenibile: sincopata e funky quella di Tom, lancinante e tesa a
far slalom tra gli accordi quella di John, un solista spavaldo e ribollente che
si muove sul filo del virtuosismo e che dialoga con irruenza e caparbietà
rugosa e flessibile, avendo ormai raggiunto la piena maturità dei suoi mezzi
espressivi, ma che cerca soprattutto di dare un’impronta precisa al brano che risulta così una
tra le sue prove più impegnative. Due chitarre entrambe amalgamate in un’atmosfera soulful, ma assorbite per intero in un
sound diretto, cristallino, duro ed elettrico, mentre la sezione ritmica, con
una serie interminabile di stacchi, controtempi e rullate, sembra frutto di un
party tra le pareti degli Stax Studios con la prole degenere dei Muscle Shoals.
E poi la voce: un cantato di incontenibile
levatura tecnico-stilistica e di terragna funkyness lirica, ad innervare un
brano da ascrivere come momento magico di questo nuovo corso musicale
creedenciano. “If I was a ball player I wouldn’t play no second string”, canta Fogerty in una sorta di gioco del “se fossi”, palesando per la prima volta con un
riferimento diretto la sua grande passione per il gioco del baseball ed
arricchendo la sua dizione di istantanee oscillazioni sensitive, ondulanti e
carnali nelle loro preziose sfumature costruite da simmetrie trascinanti e mai
ambigue o gratuite; poi aggiunge, in ossequio alla tradizione verginale delle
dodici battute e all’affermazione
del suo individualismo esecutivo,“If I were a guitar player, oh Lord, I’d have to play the blues”, per poi, ineffabile, concludere caustico e sferzante qualche verso
dopo (e lascio a chi legge il piacere della
traduzione): "If I
were a politician I could prove that monkey talk". M-I-C-I-D-I-A-L-E!!! John Fogerty:
chi tocca muore!
Possiede le stimmate del capolavoro, Penthouse Pauper, qualora non
lo si fosse capito. Per via del suo rifare in superficie il volto del rock e
del rhythm’n’blues e della “musica per tutti” più in generale; per via della libertà
affermata in ogni sua riga; per via degli schemi azzannati e deglutiti attimo
dietro attimo e per il correre felice degli strumenti lanciati fuori orbita.
Odio graduatorie e stellette di merito, ma qui siamo al cospetto di un
indispensabile documento artistico e culturale, composizione e performance
centrali del songbook della band, in cui vengono unite mirabilmente ricerca e
tradizione, creatività e buon gusto. Un discorso in musica ove suoni, colori,
emozioni, un senso di grande potenza sonora tenuto sotto controllo perfetto,
mai meno che affascinante, ed il fluire delle idee in continuo divenire sono il
presupposto per l’immortalità
dello spirito. Importante non solo per il suono e la pianificazione armonica
dell’insieme,
ma anche per la sapiente rivisitazione delle nevralgiche coordinate
rock-R&B che la formazione ha saputo compiere. Grandissimo. Non c’è da aggiungere altro.
Mauro Rollin On The River Uliana
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