giovedì 28 settembre 2017

Penthouse Pauper - Creedence Clearwater Revival (1969)




Quattro eroi blue collar per antonomasia. Questo furono i Creedence Clearwater Revival e John Fogerty, un gruppo che sembrava uscire da un road movie  ed uno storyteller visionario e schiettamente realistico al contempo, pugnace e carico di compassione per la gente più umile, e che sparò in faccia al mondo un pugno di canzoni più intelligenti di quanto non dicano la camicia a quadri ed il look da cow boy del loro autore. E allora vi dirò di Bayou Country, album imbevuto di radici country-soul-blues e vibrante di piacere per il ritmo che dalla stagione dei grandi bluesmen di Chicago e dei fantastici cantanti soul di casa Stax e Atlantic sembrava essersi perso per strada. In particolare vi racconterò le nerissime dilatazioni rock blues di Penthouse Pauper, dove su di un tappeto ritmico di micidiale elasticità si libera una scorribanda di guizzanti stilettate e scariche elettriche, suonate da un uomo che torturava le chitarre quando Steve Ray Vaughan si faceva ancora rubare le merendine.











Una cosa è certa: dei Creedence Clearwater Revival e di John Fogerty, il ranger con note e silenzi, si è sempre parlato con parsimonia. Poca analisi, righe smunte e il Gran Concerto della Critica attento a non sprecarsi in grandi discorsi, ma bensì diligentemente in coda all’ovvietà, infiorando note e appunti di parole rade e tesi scontate. C’è una profonda ingiustizia dietro questo distacco: perché il gruppo ed il suo mentore hanno un ruolo grande e fiammeggiante sul teatro del rock più fiero e penetrante. Basta immergersi con avvedutezza e lucidità nell’oceano del suono Fogerty per accorgersene. Insomma, è tempo di sistemare le virgole in un campo pieno d’ombre e luoghi comuni, con l’obiettivo di far svanire all’orizzonte il noioso blaterare  che ha accompagnato quella musica mordace e quella voce senza posa.
Creedence Clearwater Revival rappresenta qualcosa di profondo, vero, puro; un qualcosa attraverso cui la luce filtra di continuo. Sembrerebbe lo sproloquio di un mistico, ed invece è ciò che si sentiva rispondere chi chiedeva lumi sul significato di quel nome stravagante dal Sig. John Cameron Fogerty, persona sanissima di mente, paladino della working class – Vedo le cose attraverso gli occhi della classe lavoratrice avrebbe dichiarato a Time nel 1969 e all’universo blue collar egli dedicherà alcuni dei suoi brani più veementi e carichi di colore – sinceramente antidivo, forse un po’ populista, misantropo quanto basta, fermamente socially conscious: Socialmente consapevole è qualcosa di più che impegnato politicamente – spiega il nostro – ti dà sempre nuove possibilità. E come nel baseball: sei sotto prima dellultimo inning ma hai ancora la possibilità per vincere.
E’ ad una manciata di grezzi tesori, ad un'insaziabile sete di spiritualità, alle inquietanti visioni del millennio di lì a venire che Fogerty ci propone, alla sua inesausta ricerca di cunicoli segreti che collegano la realtà quotidiana con dimensioni misteriche e trascendenti, alla sua voglia di scagliare frecce, al suo gusto di tagliuzzare la palandrana all’Estabilishment, di rubare il cappello allo Zio Sam e riempirglielo d’arsenico che appartiene l’essenza magica e pugnace del nostro uomo (Fortunate Son, Bad Moon Rising, Penthouse Pauper, Effigy sono confetti al cianuro la cui preterintenzionalità ha provocato le ire e gli strali di bacchettoni e benpensanti). E ad essi dobbiamo necessariamente rivolgerci se vogliamo comprendere quanto grande e sfaccettata sia la sua (loro) arte.
Un grande mausoleo discografico, insomma, un museo del Louvre che si erge irreale nel cuore del bayou, con Baron Samedì al posto di Belfagor e che immagino a forma di alligatore. Un misterioso  tempio pagano eretto al centro di un viscido e strisciante rettilario in onore di storie tenebrose, di inquietanti ballate e di una masnada di rock’n’roll back to basic. Questo il poco rassicurante edificio in cui vi invito ad entrare; ed esaminando il materiale esposto nelle sue teche vedrete che non mancheranno di emergere motivi di eccezionale interesse. 
Scegliamo di iniziare dal 1969, anno creedenciano senza tema di smentita. 3 albums e 4 singoli, tutti sparati al N° 1 delle charts americane (e non solo di quelle), sono un imprimatur difficilmente contestabile. E' Bayou Country, tempestivo successore del 1° omonimo album pubblicato nel '68 e primo dei tre licenziati da John Fogerty & pards in quegli incredibili 12 mesi, a segnare il cambiamento diventando il manifesto dell'estetica creedenciana: tra i suoi solchi viene certificato l'atto di nascita dello "swamp rock" o rock della palude, un'intuizione destinata a modificare radicalmente l'approccio sonoro del gruppo. Lunghe improvvisazioni, esposizione di più modi di comporre e soprattutto l'instaurazione di quei famosi dialoghi ancestrali, quel fosco ritmo bayou che si dipana tra il gris-gris di Dr. John e le notti della Louisiana. Ed è incontestabilmente con quest’album sontuoso che il destino di colui che era stato definito autore e poeta laureato in pop music  si compirà. Già durante le registrazioni del primo disco, infatti, John Fogerty si era proiettato sul nuovo progetto che sarebbe diventato l’autentico turning point programmatico per il nuovo corso della band di Berkley. Avevamo finito di registrare il primo album proprio quel pomeriggio e stavamo provando per suonare la sera dopo allAvalon. - ricorda John - Suonavamo e non pensavamo a ciò che facevamo ma proprio lì, in quel momento, mi venne lidea e cominciai a scrivere il pezzo; nessuno capì che stavo scrivendo una canzone, tutti pensavano che stessimo provando e scherzando un po. Così è nata Proud Mary  e nel giro di una settimana e mezza tutto lalbum. Alla fine mi scoppiava la testa e ho pensato: non è possibile che io abbia fatto tutto questo.
E’ da queste semplici premesse e spontaneità d’approccio che Bayou Country, rappresentazione in disco di uno scenario di mistero e piccoli brividi assolutamente originale, viene dato alle stampe nel gennaio 1969, giusto per non pubblicare un album dietro l’altro senza soluzione di continuità, come i forsennati ritmi produttivi e la straripante creatività di John Fogerty avrebbero richiesto. Straripante creatività e prove tecniche di leadership, o di talento, se preferite, giacché il nostro già  andava assumento letteralmente e sempre di più il controllo del gruppo, arrivando a costruire con caparbietà persino tutte le parti vocali (anche i backing vocals, intendo), dando inizio alla trasformazione dei conflitti di personalità, fino a quel momento latenti in seno al gruppo, in giochi di potere che avvolgeranno la band come una nube di tossiche e cattive vibrazioni, accompagnandola fino al giorno del suo scioglimento. Apparentemente, anche i Beatles sembravano formare un squadra omogenea, in cui cera un equilibrio tra i diversi contributi – spiegherà con più di una punta di veleno John nel 1997 – In realtà, tuttavia, covavano anche dei conflitti e talvolta la gelosia serviva da pungolo creativo. Allinterno dei Creedence, il talento era ripartito meno bene tra i quattro membri. Tutte le canzoni, linterpretazione e gli arrangiamenti venivano da me. Cantavo tutte le parti vocali. Ci fu il famoso incidente del ristorante italiano, alcune ore dopo che ebbi registrato tutte le voci in Proud Mary. Gli altri faticavano a mandar giù questa situazione. Salvo che non sapevano cantare. E semplice.
Parole dure, sferzanti, che, piaccia o meno, vengono confermate dai fatti: ché la disparità nella forza caratteriale e nel genio lucido e non trattenibile assopiscono l’orgoglio degli altri tre e John detterà legge dal primo all’ultimo solco, non solo strepitando a pieni polmoni, ma andando in paradiso tra una miriade di spezie e profumi che emergono e si fondono con la musica e che diventano marchio di fabbrica della band. Sarà infatti la prima volta dai tempi dei Golliwogs in cui egli riprenderà a suonare l’armonica a bocca, che gli aprirà varchi di nostalgia e nuove possibilità espressive, e soprattutto sarà, grazie al trattamento che fa subire al suo songwriting con un brano come Proud Mary, brano simbolo nella carriera del gruppo, col suo irresistibile appeal radiofonico, un successo incredibile di pubblico e critica che farà decollare il progetto e decreterà l’affermazione di Bayou Country.
Bisogna dire che tutto sembrò avvenire ineluttabilmente, come se l’album precedente avesse preparato il terreno per questo, visto che ci si trova tutto quello che farà dello storico quartetto un gruppo a parte. E’ il segno del cambiamento: tra i solchi di Bayou Countrycon la nascita dello swamp rock, oltre al suono del gruppo, verrà modificato il suo rapporto con la cultura del flower power, allora ritenuta vera ed unica essenza del politically correct in musica.
Aggirarsi tra quelle cosa era cool – racconta John - Comunque cera qualcosa che mi tormentava dentro. Avevo bisogno di cambiare pelle questo spiega sicuramente i miei numerosi riferimenti al voodoo. Dopo il successo di Suzie Q. avrei potuto, alletà di ventidue anni, essere tentato di sfruttare una formula ma, prima ancora che uscisse il primo album, avevo già iniziato a scrivere il secondo, Bayou Country. La mia prima moglie lo può dire, non dormivo la notte, vivevo in una specie di trance, bevevo moltissimo caffè e non avevo neppure la chitarra con me, fissavo il muro dellappartamento e cercavo di attraversare quellorizzonte proiettandomi in un altro universo. Dopo i Beatles e i Beach Boys, sapevo che, se limmaginario coincideva con la musica, io potevo creare non solo un mondo, ma anche un mito.
Da sempre John aveva subito il fascino della musica del sud degli States, musica nata nelle paludi della Louisiana, a New Orleans, a Baton Rouge, nei bayous (dall’indiano Choctaw Bayuk), spettrali e malsane pozze acquitrinose battute del vento ed infestate da famelici alligatori che contornano il delta del Mississippi. Lì, tra impenetrabili intrichi di mangrovie dove la luce del sole filtra a malapena, lo spirito di Slim Harpo convive con quello di Baron Samedì, principe del voodoo e signore del terrore, dando vita ad una musica misteriosa, inquietante, intrisa di atmosfere messianiche e riti pagani. Un sud sonoro mitizzato che trovava nuove posizioni sulla scacchiera dell’esistenza dei nostri eroi: con i riflessi di vecchi 78 giri e le ombre eterne del blues dei campi, con l’eco di spettri neri e lucenti che suggerivano  musica essenziale e con una chitarra e un’armonica allo sbaraglio che disegnavano fregi aurei, lungo le direttive scarne e strappacuore che erano state l’autostrada di tanto rock’n’roll seminato on the road e che John, con più di un’invenzione e ricamo personale, fece suo. Quasi un viaggio iniziatico il cui approdo sembrava essere lo stesso fatale ed emblematico crossroads di Robert Johnson.
 E se il rock’n’roll era sudista, egli decise che anche lui sarebbe stato sudista: Perché  sentenzia - tutto quello che ho imparato veniva dal sud. Tutti i grandi dischi o la gente che li aveva fatti, in qualche maniera proveniva da Memphis o dalla Louisiana o da qualche posto lungo le rive del Mississippi. Il mio sogno di vivere lì è durato tutta la mia vita.
Come mirabilmente osserva Joel Selvin nella sua colorata e ardente presentazione di Bayou Country, acclusa nel booklet di Box On The Bayou, cofanetto di sei CD ed opera archeologica di grande valore filologico sull’epopea della band, nato ufficialmente con l’intento di ordinare i molti materiali sparsi negli anni: Egli cominciò a districare Proud Mary, Born On The Bayou e Keep On Chooglin’ dalla bruma dei romanzi di Mark Twain che aveva letto a scuola, dagli scoloriti B-movies in bianco e nero di cacciatori di coccodrilli nelle scure paludi Cajun e da Will Rogers che cantava del capitano di un battello a vapore. Nellorecchio della sua mente sentì il Mississippi boogie di Bo Diddley e la voce fangosa di Howlin Wolf. Vide James Garner suonare sul battello bisca in Maverick. Sentì il tremulo vibrato della chitarra di Pop Staples e lagile soul di Booker T. & the M.G.s. Conobbe Elvis Presley ed i gialli dischi della Sun Records e bevve dal Mississippi River, una forza mitica nella storia dAmerica. Le stesse sante acque, se ci è concesso chiosare, da cui John esce battezzato.
Bayou Country fu registrato agli RCA studios di Hollywood, dove più celebri suole si erano già posate. Fu lì infatti che gli Stones officiarono il rituale dardeggiante di Satisfaction: una mitica session da Hall Of Fame e un inno di chitarre e calore che non misero in soggezione più di tanto John e pards, né gli impedirono di giocare felice  tra quelle stanze leggendarie, da cui la sua ispirazione eccentrica squadernò un ecclettismo salutare. Con un occhio che guardave la Mason-Dixon Line e l’altro che rovistava tra i canneti del blues, egli frastornò l’ambiente rock con un disco di irripetibile fulgore: il fiore del southern rock tirato fuori dalla sua pelle, tenuto per il tallone e immerso negli acquitrini della Louisiana. Finiti completamente gli interscambi con la schiuma della psichedelia e con i fermenti bohemiens delle strade di San Francisco. C’è una corrente nuova che percorre Bayou Country, una carica prodigiosa che l’attraversa e l’accende: e con quel ritmo, con i vestiti per metà classici e per metà nuovissimi di un suono inventato con genio, John arricchiva la sua ispirazione eccentrica con lunghe tirate bagnate di fango e illuminate di luna, spiate e colte attraverso un prisma unico, assolutamente personale, evidenziando una sanguigna intensità che saliva dal profondo dell’anima con i suoi umori blue. Nascono così brani di febbricitante fascino e tinte forti come Born On The Bayou e creature fuori dal comune come Penthouse Pauper. Capolavori come Proud Mary, un brano che è tutto e niente, ma dall’atmosfera regale e con la tenera presenza di un lirismo forte e indistruttibile, e melopee mortifere come Graveyard Train, canto d’amore e disperazione che riafferma la lezione del blues più sdrucito. Meraviglie fatte di country appassionato quali Bootleg e ritorni al castello del rock più nero e alla frenetica voglia di ritmo come Keep On Chooglin e Good Golly Miss Molly. E’ il momendo d’oro dell’artista maturo: senza puntigli trendistici, senza febbri di rinnovamento, ma con un suono sporco e penetrante che ben si muove nello sbrindellato cosmo della sua ispirazione. Il blues ha solidificato, John punta la Rickenbaker verso la luna (quella blu, se ci s’intende) e all’armonica è uno spettacolo; pare sia stato toccato dallo spirito di Baron Samedì, pare l’officiante di un rito voodoo e titolare di un carisma straordinario che gli permette di vestire idee, sogni, immagini di abiti sontuosi che incantano tutti; e tutto il gruppo sa viaggiare assieme a lui, con fiera sicurezza, al ritmo sanguigno di uno degli album cardine degli anni ‘60.
Ci chiesero cosa avremmo fatto dopo il primo album. - è il ricordo di John - La musica che io amavo veniva dal profondo sud. Mi piacevano le storie di voodoo, di serate umide e misteriose. Suzie Q. non ci differenziava granché dagli altri gruppi. Proud Mary cambiò di velocità, cambiò la storia. Veniva definito il nostro suono, il nostro universo. Il progetto iniziale era quello di creare una sorta di territorio musicale pieno di paludi, alligatori e fantasmi. Era il 68 e si cominciavano a vedere le forme che avrebbe avuto lo stile Creedence. Il gioco è dunque totale, l’artificio completo; Bayou Country è l’album che batte il tempo della nuova situazione, che chiude il cerchio del suono nuovo a tutti i costi e sbollisce i sacri calori della psichedelia che si infilavano un po’ di straforo nel disco precedente, dando modo alle songs dei Creedence di arricchirsi di ulteriori interferenze ed influenze dal passato. C’è tutto un mondo che ora ruota tra le mani di John: una dimensione  popolata di Cajun Queens e hoodoos, di battelli keep on burnin, rollin down the river e New Orleans, in un collage che sbuccia la mela della tradizione colpendo due bersagli contemporaneamente: riuscire deciso e pieno d’inidicazioni, senza correre troppo nel Paese di Alice, e continuare a banchettare con il vecchio blues. Laggiù, nel delta, a dondolar note da una veranda sul bayou o in un bordello di Storyville a soffiar d’armonica con smania violenta e con la voce che si contorce. E’ tutto il cosmo dell’artista e dell’uomo che si fa diverso, regalando all’ascoltatore momenti di pura evasione mentale ed al contempo sensazioni di sanguigno attaccamento alle proprie radici culturali. Tutto ciò senza che né John né gli altri avessero mai fatto conoscenza diretta con quell’ambiente: Anche se non ci avevo mai messo piede, vivevo nel loro mondo  spiega John - Ascoltavo dei dischi, trattenevo delle parole, cercavo di immaginare che cosa potesse essere la loro vita. Fantasmizzavo unesistenza ed un ambiente. Non cè nulla di nuovo in questo. I ragazzi di oggi lo fanno ancora. Ascoltano la musica nella loro camera con la luce abbassata. Io non avevo bisogno nemmeno della luce perché avevo un amplificatore con delle lampadine che diffondeva nella stanza un misterioso chiarore. Sono andato laggiù per la prima volta dopo luscita di Bayou Country. Il bayou è qualcosa di affascinante, inquietante e tremendo. E una cosa che luomo non può né capire né distruggere perché cresce troppo velocemente. E poi continua: In quel viaggio non preparai assolutamente nulla. La prima volta, sono arrivato a New Orleans, ci ho passato due giorni perché è una città che amo soprattutto il French Quarter. Poi sono risalito fino a Hattiesburg, che non è nel Delta. Avevo mancato il bersaglio. Sono rimasto lì cinque o sei giorni e poi sono tornato a casa. Il mio secondo periplo lho preparato molto meglio. Ho letto libri più completi sullargomento, libri sul blues e sulla storia della regione. La prima cosa che ho imparato è stata che è più comodo partire da Memphis. Sono andato a Clarksdale, la città più importante del Delta, e lì ho comprato dei dischi in vinile che ho registrato su cassetta per poterli ascoltare in macchina. Prendevo appunti su dei blocchetti. Avevo con me anche una macchina fotografica. Senza saperlo, lavoravo come un giornalista. Spiavo le cose. La signora Hill pensava che facessi delle ricerche per scrivere un libro. Gestisce il Riverside Hotel di Clarksdale sin dallinizio degli anni 50. Un tempo John Lee Hooker era il suo socio. Prima, era lospedale della città, quellospedale che nel novembre del 1937 rifiutò di accogliere Bestie Smith dopo il suo incidente stradale, perché era nera. E lei morì. Poi è diventato un albergo che aveva tra i suoi clienti Ike Turner, che suonava con i Kings Of Rhythm e che risiedeva lì prima di partire per Memphis per registrare Rocket 88, considerato il primo pezzo rocknroll della storia. Era così che accadevano le cose. Io cercavo di capire come e perché fosse nata questa musica. Non sono ritornato con una risposta scientifica, ma so che se allepoca eri nero e dovevi scegliere tra diventare un musicista e lavorare in un campo di cotone dallalba al tramonto, con una temperatura di più di quaranta gradi, la scelta era evidente. Ecco perché cerano così tanti bravi musicisti. Eppure questo non spiega tutto, non spiega perché questa musica sia così avvincente. Forse cè un rapporto con la terra o con laria, non lo so. Suonavano il blues anche in altre regioni degli Statu Uniti, in Texas, nei piedmonts della Georgia, ma quello suonato nel Delta era più intenso e ispirato di altri. Nella musica di Robert Johnson cè una dimensione metafisica, ma anche un rapporto con il sovrannaturale. Lui viveva nellossessione di qualcosa, e si sente. E numerosi musicisti di quellepoca e di quella regione possedevano un potere di cui ignoro la natura. E, nella misura in cui erano molto coscienti di questo potere, temevano che si ritorcesse contro di loro. Questo elemento ha influito molto nelle mia creazione con i Creedence. Essere là, dove erano stati quegli artisti leggendari, camminare dove loro camminavano, mi ha dato molta ispirazione. E curiso vedere come tanti grandi musicisti provengano da unarea così piccola una sorta di Terra Santa.
Non sapevamo se le cajun vibrations avrebbero smesso di parlarci – puntualizza Stu Cook, l'occhialuto bassista – Nessuno di noi in vita sua era mai stato in Louisiana o nel bayou. John ha adottato il concetto del Mississippi River e noi lo abbiamo fatto nostro. Le nostre influenze musicali sono blues, country ed i primi artisti rocknroll come Elvis, Fats Domino, Little Richard, Ricky Nelson, Jerry Lee Lewis e così via.
La cosa funzionò molto bene per noi  conclude Clifford, l'uomo dietro i tamburi  Il suono della voce di John ed il nostro modo di suonare insieme ci faceva apparire come dei ragazzi della Louisiana. Persino la stessa gente della Louisiana pensava che fossimo loro conterranei.
Per chi scrive non è assolutamente facile parlare di Bayou Country, dato l’amore che mi lega a questo pezzo di plastica nero (niente CD a quei tempi!), che potrebbe farmi apparire poco obiettivo. Questo disco è stato infatti l’inizio di tutto. Letteralmente. E Proud Mary in esso contenuta, il brano che mi convinse con tanta irresistibile rapidità, costituisce il mio primo e decisivo  heavy petting con il rock. Già avevo provato ad appendere il mio cuore al pop genialoide dei quattro di Liverpool, al rock postribolare di Jagger e Richards, alle suggestioni agresti dello Zimmerman post incidente motociclistico, alle geniali allucinazioni di Hendrix; ma la molla che mi fece entrare in un negozio di dischi per acquistare il mio primo pezzo di vinile è stata Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, nell’estate di un 1969 ormai lontano e appeso al reame sempre più sconfinato dei ricordi. E ad ottobre, già tra i banchi di scuola, fresco reduce dai loro ultimi singles  – Bad Moon Rising/Lodi, Green River/ Commotion  visto che i 45 giri non erano più sufficienti a saziare la mia sete di musica e che l’idea che esistesse una dimensione più estesa del mio gruppo preferito mi eccitava, eccomi pronto al salto di qualità, e per la modica cifra di – udite! udite! - £. 2.700 (bei tempi, eh?) a conquistare il mio piccolo trofeo: quell’enorme padellone di 30 cm. di diametro che mi soggiogava ed esaltava al contempo. Sembrava una gran cosa; la copertina con le facce dei quattro in primissimo piano e l’ancor più intrigante lettura dei tempi di durata dei brani mandavano lampi di Fillmore West ed irresistibili tepori californiani. Uno shock culturale. La definitiva consacrazione del mio personale mito. Graveyard Train 832! Keep On Chooglin 740! E Born On The Bayou?! 5’10”!!! Di oltre un minuto più lunga che nel 45 giri!! Sicuramente poco a che fare con trastulli da ragazzini da ascoltare in spiaggia col mangiadischi. Sembrava piuttosto avere, quello strano oggetto, obiettivi diversi e tessere una rete più ampia. Roba da non prendere alla leggera, insomma. Osservando poi quei volti effigiati con effetti flou, al timore reverenziale si aggiungeva la curiosità ed il mistero: quale era John Fogerty? A giudicare dalla voce, quello con barba e baffi. Ed il fratello Tom? Senza dubbio quello con gli occhiali, vista l’evidente somiglianza. Il biondo era certamente Doug Clifford, mentre quello coi baffi, in basso a sinistra, aveva una faccia da Stu Cook. Andò così. Veramente! E mi ci vollero alcuni mesi a pane e Ciao 2001 (all’epoca il magro convento dell’editoria musicale dello stivale – dei miei stivali? - non passava altro) per realizzare che non ne avevo azzeccato nemmeno uno!!!
Tornato a casa eccitato, misi il disco sul piatto e dai rachitici altoparlanti del mio Loewe Opta simil-mobile bar con braccetto di mezzo chilo uscirono dei ganci tremendi. Un’esperienza di teletrasporto direttamente ai piedi del Golden Gate, per poi perdersi oniricamente tra i cieli perennemente cobalto di California e i suoi assolati deserti rosso mattone: due strappi di Keep On Chooglin, giusto l’inizio di Penthouse Pauper ed il favoleggiato incontro per la corona dei pesi massimi rock’n’roll era già bell’é finito, con uno spietato K.O. tecnico a favore di Fogerty & C.
Fuori dal comune è certo la materia di cui è fatta Penthouse Pauper: spirito rock in odore di Memphis sound marchiato a fuoco dalla passione per il suono southern (se ne sono accorti, nel 1980, anche i Molly Hatchett di Beatin’ The Odds, senza peraltro uguagliarne la sensualità, persa in un incedere squadrato e pesante)  e le spinte rhythm’n’blues che le danno le coordinate del pezzo indispensabile. Ha la stessa intensità emotiva di Suzie Q., la varietà di esecuzione di Ninety Nine And Half (Won’t Do) e la carica dirompente dei concerti. Qui la voglia di torturare le corde delle chitarre che pervadeva il precedente album non è più trattenibile: sincopata e funky quella di Tom, lancinante e tesa a far slalom tra gli accordi quella di John, un solista spavaldo e ribollente che si muove sul filo del virtuosismo e che dialoga con irruenza e caparbietà rugosa e flessibile, avendo ormai raggiunto la piena maturità dei suoi mezzi espressivi, ma che cerca soprattutto di dare un’impronta precisa al brano che risulta così una tra le sue prove più impegnative. Due chitarre entrambe amalgamate in un’atmosfera soulful, ma assorbite per intero in un sound diretto, cristallino, duro ed elettrico, mentre la sezione ritmica, con una serie interminabile di stacchi, controtempi e rullate, sembra frutto di un party tra le pareti degli Stax Studios con la prole degenere dei Muscle Shoals.
E poi la voce: un cantato di incontenibile levatura tecnico-stilistica e di terragna funkyness lirica, ad innervare un brano da ascrivere come momento magico di questo nuovo corso musicale creedenciano. If I was a ball player I wouldnt play no second string, canta Fogerty in una sorta di gioco del “se fossi”, palesando per la prima volta con un riferimento diretto la sua grande passione per il gioco del baseball ed arricchendo la sua dizione di istantanee oscillazioni sensitive, ondulanti e carnali nelle loro preziose sfumature costruite da simmetrie trascinanti e mai ambigue o gratuite; poi aggiunge, in ossequio alla tradizione verginale delle dodici battute e all’affermazione del suo individualismo esecutivo,If I were a guitar player, oh Lord, Id have to play the blues, per poi, ineffabile, concludere caustico e sferzante qualche verso dopo (e lascio a chi legge il piacere della traduzione): "If I were a politician I could prove that monkey talk". M-I-C-I-D-I-A-L-E!!! John Fogerty: chi tocca muore!
Possiede le stimmate del capolavoro, Penthouse Pauper, qualora non lo si fosse capito. Per via del suo rifare in superficie il volto del rock e del rhythm’n’blues e della “musica per tutti” più in generale; per via della libertà affermata in ogni sua riga; per via degli schemi azzannati e deglutiti attimo dietro attimo e per il correre felice degli strumenti lanciati fuori orbita. Odio graduatorie e stellette di merito, ma qui siamo al cospetto di un indispensabile documento artistico e culturale, composizione e performance centrali del songbook della band, in cui vengono unite mirabilmente ricerca e tradizione, creatività e buon gusto. Un discorso in musica ove suoni, colori, emozioni, un senso di grande potenza sonora tenuto sotto controllo perfetto, mai meno che affascinante, ed il fluire delle idee in continuo divenire sono il presupposto per l’immortalità dello spirito. Importante non solo per il suono e la pianificazione armonica dell’insieme, ma anche per la sapiente rivisitazione delle nevralgiche coordinate rock-R&B che la formazione ha saputo compiere. Grandissimo. Non c’è da aggiungere altro.


Mauro Rollin On The River Uliana

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