Con Led Zeppelin III i Led Zep dimostrarono la capacità di evolversi dall’etichetta tanto prestigiosa quanto potenzialmente e pericolosamente limitativa di “inventori dell’hard rock”. Ma è con l’ecumenismo di Stairway To Heaven del quarto album che il gruppo di Jimmy Page e Robert Plant cambia radicalmente le regole del gioco. La diversità di profondità ed il cambio di passo e di spessore sono evidenti rispetto alla pur sorprendente malia di tutta la loro precedente (e successiva) produzione. E’ un sostanziale e poderoso balzo in avanti, il culmine della loro creazione che può a ben ragione essere considerato un fulgido esempio di crossover ante-litteram. Una prima parte meditata che sfiora le corde di uno spleen mesmerico e che paga un evidente debito al folk inglese, cui si sostituisce l’andamento nervoso, tanto energico quanto dionisiaco di spasmi e furore, di una sconvolgente seconda parte, fioritura meravigliosa che incendia e santifica il rock ‘n’ roll rileggendo con energia e vigore ineguagliati la cruda energia di qualunque altro sabba elettrico. La perfezione fatta canzone.
Cosa si può dire del brano per il quale negli ultimi 50 anni si sono spese più parole? Che ancor oggi è uno dei pezzi più richiesti presso le radio FM americane? Che quando qualcuno indice un sondaggio sulla canzone più bella di tutti i tempi è immancabilmente votatissimo, quando non il più votato? Non è (più) una canzone, questa: è un’icona, un manifesto. “A sort of white and black pop-rock quasi-classical R&B-infused heavy metal folkie vaudeville-operatic Presley-ballad thing” come da impagabile definizione del giornalista Phil Sutcliffe che di proposito lasciamo in originale. Sono i Led Zeppelin messi in formalina nel 1971 e fissati per l’eternità.
Odiata dai punks, che sulla “Scala Per Il Paradiso” ci
scatarravano su (e che noi mandiamo tranquillamente a farsi fottere), comunque la si
pensi questo è l'asso di cuori nella carriera dei Led Zeppelin, la canzone che
ha fatto dello storico quartetto un gruppo a parte mandandolo in paradiso (è il
caso di dirlo) tra una miriade di spezie e profumi che emergono e si fondono
con la musica e che aprono varchi di nostalgia e nuove possibilità espressive.
La “band del dirigibile”, si sa, fu foriera di un viscerale
espressionismo, un suono capace di estasi melodiche e sfregi ultra rock, di
chiaroscuri semifolk e fanfare in libertà, sul bordo sottile fra la purissima
luce di ballate cesellate e l’ipnosi di assalti smagliati e carnivori, fantasie
guerriere in cui Robert Plant, efebico angelo biondo dallo spiazzante fascino
androgino, con la sua voce magnetica e deragliante
si inerpicava su vette himalaiane, mentre gli altri Zeppelin facevano la parte
di invasori vichinghi che saccheggiavano, violentavano, incendiavano. Giusto
per portare il discorso fuori dall’ambito del normale e dell’inevitabile.
Una band destinata a lasciare il segno, questo furono i
Led Zeppelin: quattro cavalieri dell’Apocalisse che hanno saputo fondere come
pochi altri, in una vera chiamata universale che raccoglie suoni antichi e
moderni, la tradizione anglo-scoto-irlandese con una spessa trafila di grasso
rock’n’roll. Un volo verso empirei mozzafiato ed altrettanti mozzafiato
martellamenti. Veniva così ritoccato con
orgogliosa finzione un passato musicale che pure “doveva” risaltare, essere
tappeto volante per le loro visioni bifronti. Quelle che tolsero di peso il
gruppo dalle secche della normalità e che, a ben vedere, era lo stesso
ruralismo evocativo, quel carattere real and raw in cui il passo di
chitarre elettriche e tastiere si confrontava brillantemente con reminiscenze
folk e che informava l’opera di altri gruppi coevi come Jethro Tull, Traffic,
Family: tutti meravigliosamente eclettici e tutti dediti ad un artigianato
musicale che cercava contatto/contaminazione con tutto ciò che costituiva la
Babele delle lingue affastellatesi in quegli anni magici.
Fu veramente un’esaltante epopea quella che i nostri
contribuirono a caratterizzare tra i morenti anni sessanta ed il nuovo
decennio: una manciata di anni che videro il dirigibile degli Zeppelin
sorvolare come un gigante maestoso i cieli rock, lasciando dietro di sé la
spirale di un incendiario rifferama cosmico, alternato ad un’estasi di suoni
che sapevano di corteccia e di muschio. Fu, quel volo,
uno slancio verso l’Atlantide del suono, un suono strano, un
ininterrotto e frenetico andirivieni di estri come cirri in capricciosi cieli
di primavera; un orgia di cose inaudite in cui rinnovamento e riflusso di
intenzioni andavano a confondersi in un gorgo comune che con la sua anima
paradossale era luogo dello spirito più che tratto stilistico definito. Un
suono che era miracolo dolcissimo e arazzo sanguinate, e che in definitiva era
essenza naturale dello stesso.
Per i Led Zep la salita della “Scala Per Il Paradiso”
inizia fin dal ’69, da quel magnetico primo album contenente alcune isole
bucoliche in mezzo ad un oceano di ribollente rock-blues: Babe, I’m Gonna
Leave You, stupenda e drammatica; Black Mountain Side, già nel
repertorio degli Yardbirds di Little Games (di cui Jimmy Page era stato
il chitarrista) con il titolo di White Summer che a sua volta era una
“libera interpretazione” (ehm!!) di Backwaterside di Bert Jansch, gemma
incastonata nello stupendo Jack Orion, misconosciuto gioiellino folk
datato 1966. Anche il veemente Led Zeppelin II contiene un episodio ove
la band risciacqua i panni in chiare, fresche e dolci acque, costituendo così
un quadro dai gocciolanti colori: parlo della struggente Thank You che
si immerge in un bagno di tenderness e su quel diapason Page accorda
chitarra e cuore. Ma dove l’anima folk della band romperà gli argini sarà nel
1970, all’altezza del terzo album, dove i quattro, ritiratisi in monastica
clausura nel cottage gallese di Bron-Y-Our (mancava persino la corrente
elettrica), si nutriranno dello stesso cibo per l’anima che imbandiva il desco
di Fairport Convention, Steeleye Span, Pentangle, Incredible String Band e
tutto l’esercito di bardi e druidi che sarebbe troppo lungo citare.
Ma ancor prima, Jimmy Page, nel suo girovagare come “pistolero
a pagamento” più impiegato negli studi della Londra
che stava per diventare swinging,
aveva prestato orecchio a ciò che avveniva in quelle contrade,
dove gli alti lai al passato british echeggiavano dal repertorio di
gente come Bert Jansch (grande influenza per Page), John Renbourn, Martin
Carthy e via folkeggiando. Con due delle menti
più belle di questa felice new thing del
folk il nostro si spinse anche oltre la soglia dello studio di registrazione.
Parlo di Roy Harper, grande amico della band (e dei Pink Floyd), nonché
stralunato starsailor e titolare di un songbook fatto di ballate
visionarie e folk intergalattico. Sparse nella sua corposa discografia, sono
ben 10 le canzoni ove è possibile bearsi al suono dei mosaici chitarristici di
Page e qua e là, sbirciando tra i credits dei dischi del cantautore di
Manchester, fa capolino pure il basso di John Paul Jones. L’incontro decisivo,
però, sarà quello con il menestrello scozzese per antonomasia: Mr. Phillips
Leitch in arte Donovan. Alla sua corte, Page metterà a disposizione il succo
invincibile delle sue stoccate chitarristiche già nel 1966, quando distillerà
la sua anima rock all’alambicco fiorito di Sunshine Superman. Ancora
John Paul Jones, lo schivo bassista del “dirigibile”, l’anno successivo, a
quattro mani con il mitico produttore Mickie Most, sarà alla consolle di regia,
dove, tra atmosfere folksy e intuizioni jazz,
ammanterà di un colorato tessuto pop/folk e pennellate di tinte
psichedeliche gli arrangiamenti di un altro capo d’opera donovaniano: Mellow
Yellow, raffinatissimo masterpiece dalla solare e vivace vena
creativa. L’anno che seguirà vedrà di nuovo Page dedicarsi all’assalto alle
corde della solista nella fatale Hurdy Gurdy Man, uno dei frutti più
lirici e affascinanti che gli Arcani aggirantesi intorno al ‘68 abbiano fatto
maturare in terra d’Albione ed in cui una fantasmagoria di corde torturate
intrisa di polpa rock sanguigna in salsa forte, a base di watt, decibel e
guarnizioni “lisergescenti”, riuscirà a fondersi con il linguaggio eccitante e
ultra-moderno di chitarra ritmica, basso e batteria (suonata da John Bonham… ma
guarda un po’). Si può senz’altro credere allo stesso Donovan quando affermò
che fu proprio la recording session che diede vita a Hurdy Gurdy Man la
molla che fece scattare nella mente di Page la decisione di fondare gli
Zeppelin, assorbendo da lì quella magica essenza a due facce che sarà per molto
tempo tratto distintivo del dirigibile.
E così il cerchio si chiude riportandoci a Stairway To
Heaven, un inno che, come i brani del terzo album, viene concepita
durante un secondo ritiro nel fatidico cottage gallese di Bron-Y-Our e
si materializza attraverso i riflessi folksy che i tanti troubadours
d'Oltre Manica stavano regalando al popolo del rock, correndo decisi nel Paese
di Alice ed al contempo ribadendo un sanguigno attaccamento alle proprie radici
culturali. Page e compagni si affidano ad un arpeggio da madrigale di chitarra
acustica e ad un flauto (per essere precisi un recorder, parente prossimo del
flauto) dalle struggenti suggestioni atmosferiche che disegnano fregi aurei lungo le
direttive scarne che erano state l'autostrada di tanto folk-rock. La voce di
Plant si muove con la tenera presenza di un lirismo forte e indistruttibile in
una melopea dalla rigorosa severità antica. Poi una corrente nuova inizia a
percorrere il brano, una carica prodigiosa che l'attraversa e l'accende:
vestiti per metà classici e per metà nuovissmi di un suono inventato con genio
e colto da un astrolabio unico, personalissimo. Dietro i tamburi John Bonham
inizia a squadernare una vibrante e sanguigna intensità: tinte forti e
febbricitante fascino innervano la song, mentre volano alti i fantasmi
dalla solennità, raggiungendo ineluttabilmente lo zenith nel grande libro
dell’art rock britannico. Infine
il dirigibile s’incendia: Page
punta la sei corde alla luna ed inizia a bruciare micce colorate, dando vita ad
un impetuoso ed aureolato fluire d'immagini. Pare toccato da una stella in una
notte speciale, pare abbia ricevuto per vie sconosciute il potere di vestire le
note di abiti sontuosi e tutto il gruppo sa viaggiare con lui al ritmo infinito
di un brano leggendario.
P.S.
Attorno ai miti crescono le erbacce. Diventare mito
vivente significa inevitabilmente trasportare nella propria scia un corollario
di effetti collaterali, spesso sgradevoli, e di leggende metropolitane dalla
dubbia veridicità, quando non di
autentiche e imbarazzanti miserie umane. E’ tutto il cosmo dell’artista e della
sua opera che si contamina; e nel caso di Stairway To Heaven, canzone
mito di un gruppo che mito lo è già di suo, è facile immaginare come attorno ad
essa abbia preso vita uno stupidario che farebbe invidia alla scaletta di un
pomeriggio con Barbara D’Urso.
Capitolo 2°- Miserie umane. Bisogna sempre
fare i conti con gli eredi. La vicenda più rivoltante fu infatti l’accusa mossa
al gruppo dagli eredi di Randy California, compianto chitarrista dei
californiani Spirit, i quali per soddisfare un poco giustificabile e comunque
basso, bassissimo, esercizio di avidità e cinismo loffio, non trovarono di
meglio che accusare i quattro inglesi di plagio nei confronti di Taurus,
escursione strumentale in allucinate atmosfere amniotiche, rarefatte e uterine
che il quartetto della west coast inserì nel loro omonimo 1° album del
1968. Accusa giustamente caduta proprio in questo 2016 con i Led Zeppelin
assolti dopo un estenuante processo. Basta un raffronto tra i due brani per
capire come l’improvvida iniziativa legale altro non fu che una forzatura
imbarazzante. Il che ci induce a considerazioni amare sulle bassezze di cui è
capace l’essere umano e ci porta con un pensiero affettuoso al povero Randy
California, costretto, lassù, a guardare, accidioso ed infelice, allo squallido
tentativo di lucrare sul suo lavoro che stavano mettendo in atto, quaggiù,
quegli stronzi dei suoi eredi.
Capitolo 3° - La canzone non rimane la stessa.
Innumerevoli gli artisti che si sono genuflessi davanti al brano della “signora
che è sicura che tutto ciò che luccica sia oro”. Due su tutti: Frank Zappa
che nel 1991 si inchina deferente fornendoci una calligrafica rendition
che potrete trovare in The Best Band You Never Heard In Your Life, live
album che documenta il tour del 1988, e che inopinatamente, visto il
personaggio e la sua naturale inclinazione allo sbeffeggio ed a sarcastici
commentari sociali, nulla aggiunge e nulla toglie all’originale del dirigibile.
Senza dubbio più impertinente l’improbabile omaggio/parodia in salsa reggae con
cui, sempre nel ’91, si cimentano gli irriverenti Dread Zeppelin (come dire: un
nome un programma) in 5.000.000
Tortelvis Fans Can’t Be Wrong, il loro secondo scanzonato album che in un sol colpo
sbeffeggia sia Zio Elvis (nel titolo) che gli Zeppelin, grazie ad una copertina
che fa ironicamente il verso a quella del 4° album di Page e soci. Al suo
interno simile trattamento è riservato ad altri quattro brani ledzeppeliniani: The
Song Remains The Same, When The Levee Breaks, Misty Mountain Hop e
Nobody’s Fault But Mine che per
l’occasione viene ribattezzata Nobody’s Fault Butt Mon.
E’ tutto. E che Dio salvi Jimmy Page, i
Led Zeppelin e la scala per il paradiso. Passo e chiudo.
Mauro Rollin’ On The River
Uliana
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