martedì 3 ottobre 2017

Moonchild - King Crimson (1969)




Senza dar troppo peso alle critiche ideologiche riservate negli anni al genere da parte di certa stampa più sensibile alle istanze post “punkiste”, si tenterà qui di far risuonare nuovamente suoni ed emozioni proprie dell’art-rock, perdendosi nella più beata contemplazione di un mosaico musicale molto vario e affascinante. Per farlo, esporremo in vetrina della merce apprezzatissima sul mercato, marchiata King Crimson. Del resto, i “Crimso” son da sempre considerati i campioni del genere, forieri di una musica estremamente intensa, emotivamente ricchissima, carica di fantasia eppur controllata e precisa fin nei minimi particolari. Ci auguriamo di svolgere il fatidico compito in tutta dignità, con l’inopinato contributo all’operazione che arriverà da un utensile, Moonchild, che meno adatto non potrebbe apparire. Potrà infatti sembrare ostico ad un primo ascolto, questo lungo happening musicale dall’intrinseca profondità e lucidità introspettiva, un frammento di musica aliena, perfino; in seguito però potrete immergervi facilmente nelle sue misteriose trame, che di primo acchito potranno anche confondere per rivelare poi, attraverso l’attento esame dei finissimi particolati ed un ascolto intenso e approfondito, sinceramente analitico, tutta la loro bellezza complessiva.




Diciamolo subito a scanso di equivoci: questo è un brano ostico. Molto ostico. Di certo uno strano oggetto musicale. Sicuramente l’esatto opposto di un trastullo per svagati edonisti da ascoltare sorseggiando un drink al frinire estivo delle cicale. Vi darà del filo da torcere, Moonchild. Vi metterà alla prova. Vedo già molti di voi gettare la spugna prima di arrivare alla fine della corsa e molti di coloro che ci arriveranno chiedersi attoniti cosa diavolo avranno mai fatto di male per far sì che quel pazzoide del loro affezionato recensore appioppasse loro una tale stramberia. Ci vuole pazienza con questo pezzo; ha bisogno di più di un ascolto per farsi penetrare, per coglierne tutti i dettagli (magari usando le cuffie o, meglio, uno stereo per cui la definizione hi-fi sia qualcosa di più che una mera etichetta stampata sugli imballaggi); solo in questo modo potrete assaporarne l’intensità che vi farà emozionare e commuovere. Ma per vivere tutte le emozioni che questi 12 minuti concupiscenti sono in grado di regalare, rompiamo immantinentemente ogni indugio e andiamo ad incominciare. Non prima di esserci liberati dall’impaccio del recupero storico e aver dato conto di qualche spicciolo di trama come filologia richiede.
Il primissimo, incerto rivolo all’origine del grande fiume che avremmo imparato a conoscere come King Crimson, sgorga carsicamente alla superficie con un album, The Cheerful Insanity Of, licenziato per i tipi della Decca nel 1968, che vede la curiosa e improbabile presenza dei tre titolari, Giles (Peter), Giles (Mike) & Fripp (Robert), rispettivamente basso, batteria e chitarra, cui il disco era intestato. Chi sa far di conto con l’aritmetica del rock che fù, saprà sicuramente quanto su quel pezzo di plastica nero avrebbe aleggiato per anni l’aura del mito. Solo The Aerosol Grey Machine dei Van Der Graaf Generator poteva tenergli testa ed ambire ad insidiargli l’invidiabile titolo di Kooh-I-Noor più prezioso ed introvabile del reame. Sembrava che su di esso dovesse perdurare un vincolo di segretezza che chissà quando e chissà come e da chi avrebbe potuto essere sciolto. Era infatti un favoleggiato ed introvabile oggetto di culto, tanto che negli anni ’70 riuscire a metterci sopra le mani era come portare in cantina un barolo d’annata, di quelli che si mostrano agli amici con fare museale e gusto feticistico. (1)
Tanto mitica la reputazione di rarità che contornava l’album, quanto sorprendentemente sbeffeggiante il climax in esso contenuto: questi Crimson ante-litteram erano infatti tre folletti burloni e nei loro volti da fancazzisti (e mooooolto inglesi!), raffigurati sulla copertina di uno dei debutti più ironici della storia del rock, la comicità buontempona dello scatto non fa nulla per nascondere la presa per i fondelli perpetrata nei confronti di chiunque si fosse imbattuto in loro. Basta guardare Fripp: sembra una via di mezzo tra un Camillo Benso Conte di Cavour, beato e soddisfatto come un riccio di essersi fumato tutto il fumabile in fatto di sostanze allucinogene, e un seminarista di provincia, birichino e pronto a fare scoppiare sotto la vostra sedia un petardo puzzolente. E che dire della ragione sociale? Giles, Giles & Fripp!!! Quale sublime auto-ironia. Adottare un nome che anticipava la grandeur magnoliquente di supergruppi come Emerson, Lake & Palmer, Beck, Bogert & Appice, West, Bruce & Laing, Crosby, Stills, Nash & Young. Loro che altro non apparivano se non come tre gogliardi il cui album (attestato attorno alla fantasmagorica cifra di 600 copie vendute) sembrava più che altro un pretesto per fare bisboccia. Il loro indirizzo sonoro, ovviamente, piegava l’orecchio verso una sorta di psichedelia con lo humor a farla da padrone e trattato con la dovuta cialtroneria, prodigandosi nell’evocazione di gruppi come la Bonzo Dog Doo-Dah Band, i primi Soft Machine ed in misura minore i primi Pink Floyd di Syd Barrett. Fossero nati dall’altra parte dell’oceano (in nomine Zappa), avrebbero potuto competere invano con gli abracadabra delle Mothers Of Invention (ma con un bel po’ di feroce sarcasmo in meno) o con l’ironia tipica di un Captain Beefheart che piega il pentagramma al proprio cinismo ma depurato delle sue scorie di blues deviato. A volerla proprio dire tutta questa demenzialità a volte latente (One In A Million) altre conclamata (The Sun Is Shining) non si deve propriamente alla musica, non di rado ammantata di morbidezza, o alle firme vaporose e spesso eleganti che i tre appongono alle composizioni. A volte, addirittura, lo spartito porta buoni segni di spleen canterburyano, mentre altrove lo cogliamo già esposto al vento dei Crimson che già cominciava timidamente a soffiare alle loro finestre: il riferimento e a Suite N° 1 con Fripp che esibisce uno strabiliante lavoro di ornato, fiancheggiato dal piano di Nick Prezzemolo Hopkins che gli fa sponda da par suo, a Under The Sky che si iscrive al corso di mitologia californiana (leggi Quicksilver Messenger Service) e che già ospita il flauto di Ian Mc Donald che s’incanta di mille suggestioni westcoastiane e anticipa la I Talk To The Wind che già era in cantiere, ma soprattutto a Erudite Eyes in cui il gruppo brinda allo psycho-jazz dedicandosi a quelle prove sui colori della musica che, grazie a qualche erba provvidenziale, stavano costruendo il più interessante “scandalo” del rock inglese sul finire degli anni ’60. La demenzialità (ma sarebbe meglio definirla caustico british humor) cui facevamo riferimento più sopra, sorta di genius loci che impronta di sé il senso del disco, risiede soprattutto in quel teatrino di sarcasmo à la Monty Pyton che si sviluppa lungo tutto il corso dell’album: la tragicomica The Saga Of Rodney Toady, lacrimevole storia semiseria di un giovane impegnato sul difficile fronte della vita che lo vede costretto all’emarginazione sociale e all’isolamento fisico perché brutto e grasso, ma soprattutto la perversa filastrocca di Just George, tormentone in quattro atti che cresce alberi di etilica sfrontatezza, esposta via via con crescente, compiaciuta sguaiatezza e decrescente ritegno.
E’ sufficiente appena poco più di un giro di calendario e tutto cambia. A cominciare dal nome per finire alla musica. Siamo nella stagione controriformistica a cavallo tra ’60 e ’70 e il gruppo liquida psichedelia e sberleffi nel nome di un suono dalle forme piene e dai colori accesi, un’impalcatura dove alla romantica grazia dei passaggi più delicati corrisponde subitamente, senza tregua, il rapido gesto del rock più carnivoro, contaminato con ombra di civetteria dall’abile gioco delle tastiere, dai percorsi circolari della chitarra e dal soffio sapido dei fiati. All’epoca apparve uno dei cambiamenti di rotta più clamorosi della storia del rock (e fino all’avvento di The Brondesbury Tapes nel 2001 tale sarebbe stato unanimemente considerato).
Avvolti in abiti di mistero e stelle traslucenti, profittando dell’inquietudine e dell’afflato creativo che pervadeva il rock, i King Crimson fanno il loro ingresso in scena un giorno del 1969, inaugurando maliziosamente un’epoca nuova. E’ il 9 aprile. Ma la consacrazione coram populi data 5 luglio quando, in fronte al mezzo milione di adoranti convenuti ad Hyde Park per il free concert voluto dai Rolling Stones, sinfonia del disorientamento a commemorazione del pard scomparso due giorni prima appena, l’inquieto Brian Jones per cui la musica si era spenta con lui sul fondo della sua piscina, i nostri si offrono al mondo allestendo la mise en scene dei propri incantesimi musicali e soffiando vita nelle visioni e nelle febbri letterarie del poeta Pete Sinfield, seducente riserva di energia per la straordinaria vitalità della musica. (2) 
E quell’aura magica che tra gli appassionati di tutto il mondo circonda oggi il nome del Re Cremisi, sarà già compiutamente presente nel loro debutto discografico, In The Court Of The Crimson King, pervadendo in toto in modo particolare proprio Moonchild, che brilla di una luce straordinaria all’interno di un’opera atipica già di suo e all’indirizzo della quale ergeremo adeguato peana appena più in là. Dalle spiazzanti provocazioni dadaiste intestate a Giles, Giles And Fripp, il gruppo, cui nel frattempo si erano aggiunti Greg Lake al basso (in sostituzione di Peter Giles) ed il multistrumentista Ian McDonald, era passato ad un repertorio sfaccettato e al tempo stesso coerente, un respiro sonoro dalle mille dinamiche in cui si traduceva una visione alta e lucida di una musica fluida e totalmente svincolata da regole di marketing.
Il Re Cremisi fa parte di quella eterogenea ondata di nuovi talenti scaturiti da quella ribollente scena  che tra il morire dei sixties e la prima metà dei seventies venne definita, con invero infelice intuizione semantica, progressive o rock romantico. Tanto vecchia è la polemica, e dopo quasi cinquant’anni pure logora (i pro, o quel che ne rimane di loro, ancora tengon duro, rischiando ancora di questi tempi il martirio; i contro continuano a ridersela di grosso, vedendo ormai decimata l’odiata civiltà), che in fondo non vale la pena rivangare. Fu una faccenda all’inizio prettamente inglese e di seguito europea (e, in particolare, sorprendentemente, italiana), attraverso cui le frange più avanzate del  vecchio beat, animate spesso da una sensibilità e da un retroterra di stampo accademico, andavano alla  ricerca di un approccio diverso dal mainstream. Fripp e soci ne avrebbero segnato in maniera indelebile il cammino ed il linguaggio. Robert Fripp ne era il deus ex-machina: signore e padrone di quello che più che un gruppo rigidamente strutturato potrebbe a ragione essere definito un workshop, un laboratorio musicale cangiante e proteiforme, dove le sonorità rimanevano quelle partorite dall’ispirazione del loro rabbi, del loro maestro.  Una leadership indiscussa dovuta alla maturità dell’esposizione ed alla genialità delle proposte, attraverso cui andarono costruendosi una reputazione inossidabile che avrebbe attraversato le epoche e i trend musicali, giungendo intatta fino a noi. Nemmeno il ciclone punk riuscirà a scalfirla, prova ne sia che Fripp, assieme agli altri due alchimisti, Bowie ed Eno, lascerà un segno indelebile anche nella cosiddetta new wave (altra orribile etichetta) che del punk fu la naturale estensione, diventandone, nei primi anni ’80, uno dei numi tutelari, fino a staccare il tagliando del giro di boa del millennio godendo di immutata stima e considerazione. Ma questa è un’altra storia che, se ne avremo l’opportunità, racconteremo in un prossimo futuro.
La favola che viceversa ci accingiamo a raccontarvi in questo spazio appartiene ai primi King Crimson, quelli densi di suggestioni ed iperfantasiosi, quelli del vascello di cristallo in un lago di ninfee che mettevano in scena le loro fantasmagoriche rappresentazioni musicali sotto l’illuminazione ed il fondamentale apporto di Pete Sinfield, poeta immaginifico, favolistico e criptico, i cui testi pervadevano tutta la musica diventandone il presupposto culturale.
Ogni opera dei primi King Crimson era come un testo, un libro corredato di fotografie, sapori, sensazioni, allegorie, figure tridimensionali – primi esempi di dischi “virtuali” dove le immagini prendevano forma e peso – e naturalmente suoni. Tanti suoni. Un labirinto di suoni. Complessi, sofisticati, sognanti, eterei, duri. Un caleidoscopio travolgente, pieno di trovate musicali, non di rado apparentemente caotiche, sempre entusiasmanti, a volte sconcertanti. In una parola schizoidi. Schizoidi. Ecco la parola emblematica, quella cui i “Crimso” verranno per sempre associati. Non tanto e non solo per quella fantastica, mitica cavalcata tra rock, jazz e paranoia che risponde al nome di 21st Century Schizoid Man, ma proprio per la loro attitudine anarchica e pseudo accademica allo stesso tempo. Ogni loro brano, oltre a proporre problemi tecnici ardui ma entusiasmanti, apriva aspettative espressive inaudite. Lo spirito rock, o pop, o comunque lo si voglia chiamare, veniva esaltato e allo stesso tempo superato con una spinta di accelerazione già da allora insuperata.
Non nascondendo la propria ambizione a ricoprire fin da subito il ruolo di superstars dell’art rock, i Crimso piazzano in apertura di In The Court Of The Crimson King, un album di debutto che potrebbe definirsi catalogo magico e isterico di artisti baciati dal destino, proprio 21st Century Schizoid Man che con la sua furia di grandine e le sue trame scosse da brividi, le sue cellule esplosive al limite delle umane possibilità, il flusso incessante di energia proiettata nei cieli del fantastico, si sarebbe fatta ricordare nei lustri che seguiranno. Tutti ne abbiamo subito il fascino e ci siamo persi nella sua corrente elettrica impetuosa e passionale, nella dura scorza del suo suono, nell’impeto nevrotico delle parti vocali, nella schizoide personalità della chitarra frippiana. Poi la cacofonia finale su cui si consuma “l’uomo schizoide del 21° secolo” improvvisamente svanisce per consegnarci una diversa stanza del magazzino celeste. Sulle sue ceneri, infatti, la musica, soggetta a rapidi venti umorali, si affida alle venature misteriose di un differente luminoso flash degli strumenti. E’ il feroce, meraviglioso contrasto, la risacca di I Talk To The Wind, canzone di pasta tenera e cullata da ritmi lievissimi, ove i Crimso esibiscono lo stendardo della tenera gloria dell’intimismo senza perdere sangue per strada. E’ un magico elisir, una placida sinfonia in cui suoni e immagini librano stretti in aria sulle ali del flauto di Mc Donald e sulle venature misteriose della chitarra di Fripp.
Quando parte Epitaph, risulta in tutta evidenza quanto alla Corte del Re Cremisi il gioco dei contrasti appaia come il miglior esercizio possibile. Maestosa, epica, dominata dal mellotron di Mc Donald, in Epitaph prende forma l’amore del gruppo per la classica che conoscerà lo zenith, arrivando alle estreme conseguenze, in Prelude: Song Of The Gulls, momento alieno che muove ambiziosamente verso i Grandi Numeri della tradizione colta, sistemato tra i solchi di Islands. Tra le righe di Epitaph il gruppo ripiega sulle proprie angosce dando vita ad una sorta di disillusa arte delle ceneri. Le loro, le nostre ceneri, le ceneri dell’umanità, la sua crisi d’identità fra improbabile innocenza e perdizione. Sullo sfondo dei testi, Sinfield, disperandosi di certa superficialità, è catturato dal vento scuro che soffia sul mondo, nonostante l’utopia hippy stia celebrando il suo apice (ma anche il suo epitaffio, quando si dice la combinazione) in quel di Woodstock. E’ la visione dell’olocausto nucleare a turbare i sonni del poeta e Lake, scagliandoci addosso una pietra vocale che non lascia spazio a redenzioni di sorta, canta la fine dell’innocenza e il trionfo della confusione (“Confusion will be my epitaph”) in un mondo che non può più tacere, costretto dai falsi bisogni a mettere in scena anche la propria agonia.
Non meno aperta ai brividi, non meno intrisa di romantico sinfonismo, né meno vistosamente umorale è In The Court Of The Crimson King, che si fissa nel ricordo per l’eleganza armonica e che non a caso da il titolo all’album. Materia infiammata che non conosce cristallizzazione, la sua lingua è quella di un suono che fluisce e si combina nel gioco dei pieni e dei vuoti, con i quattro disposti a quadrato attorno ai guizzi dinamici di Giles e alle pause di meditazione di McDonald, corteggiando gli strumenti con intelligenza e sensibilità raffinata ed innescando quel processo fantastico che si affanna a descrivere lo stupore dell’uomo e che già era diventato tratto distintivo del gruppo.
Da quanto fin qui indegnamente inchiostrato dal vostro umile scriba, si evince come alla prestazione dei musicisti vada data giusta  e sacrosanta evidenza nella spiegazione di queste prime felici pagine. Nonostante l’opinione comune propenda per la terza edizione, quella che annoverava tra le sue file Bill Bruford e John Wetton, varata con Lark’s Tungue In Aspic e proseguita con poche sottrazioni fino a Red, la prima line up - cui va doverosamente aggiunto Sinfield, accreditato come quinto membro effettivo – per ciò che mi riguarda resterà per sempre la migliore. Come si è visto, essa comprendeva Greg Lake, bassista dalla tecnica prodigiosa ad evidenziare un fraseggio smagliante, che all’epoca veniva valutato, assieme a Jack Bruce, come il massimo  esponente dello strumento che con lui otteneva finalmente una piena e riconosciuta identità solistica; Mike Giles,  batterista dallo stile percussivo torrenziale e nervosamente articolato che sfociava in una sontuosa poliritmia dialogante (per me, numero uno!), appartenente a quella schiera di grandi performers che hanno inventato un modo personale di suonare il proprio strumento,  ma, soprattutto, musicista integro che non ha mai ceduto a tentazioni di carattere commerciale; infine Ian Mc Donald (di cui purtroppo non può esser detta la stessa cosa), eccelso polistrumentista (tastiere e fiati), dotato di un ricco retroterra accademico che usò per spingere la sua musica verso nuove frontiere, soprattutto sul piano armonico e timbrico (assieme a Mike Pinder dei Moody Blues, ha praticamente “inventato” il mellotron, portandolo a diventare lo strumento simbolo di un certo ambito musicale), che però una volta uscito dai King Crimson e dopo un gustoso album in coppia con Giles – un’arguta galoppata nel ribollente mondo poetico dei due musicisti – avrebbe subito il fascino del dollaro, dandosi a musiche sempre più legate all’FM ed alle classifiche e perdendosi per sempre in una logica commerciale dopo aver fondato gli AOR Foreigner.
Opinioni personali a parte, quello di In The Court Of The Crimson King era comunque un ensemble di straordinaria coesione: i loro timbri tutt’altro che similari ma straordinariamente compatibili, il loro controllo delle sfumature e del volume, la loro incredibile versatilità ritmica (ascoltate Moonchild e poi, in sequenza, 21st Century Schizoid Man e quindi sappiatemi dire), costituivano una sinfonia eccezionale ed omogenea, nella quale ciascuno poteva, secondo le necessità, essere la prima, la seconda o la terza voce della partitura. 
“Lo scopo fondamentale dei King Crimson è di organizzare l’anarchia, di utilizzare il potere latente del caos e permettere alle varie influenze di interagire e trovare il loro proprio equilibrio. La musica così si evolve naturalmente, invece che svilupparsi lungo linee predeterminate. L’estesa varietà del nostro repertorio ha dunque un tema comune che rappresenta lo stato d’animo cangiante delle stesse cinque persone”. Invitato a definire il proprio mestiere, così si esprimeva Robert Fripp nella primavera del 1969. Ed è proprio l’ossimoro di un caos organizzato ad improntare di sè le atmosfere di Moonchild, la perfetta antitesi, in ogni suo aspetto – strutturale, ritmico, contenutistico, atmosferico, dinamico - dell’”uomo schizoide del ventunesimo secolo”. Cerchiamo di osservare più da vicino.
Sono principalmente tre i motivi per cui Moonchild è memorabile: la ricerca sulla dinamica, la destrutturazione della partitura, la compenetrazione perfetta tra liriche ed atmosfere. Potremmo definirla linguaggio improvvisato d’ambito extra-accademico del XX° secolo. In realtà Moonchild sono 12 minuti di progettualità ardita e difficile lettura, ma di profonda suggestione e tensione emotiva che scivolano via come un sogno.
Al di là dei primi 2’30”, esposti in un’aura fascinosamente arcadica e denominati The Dream, un’incantata interpretazione tematica che il gruppo inglese risolve in modo coerente all’interno di uno stile contemplativo e spirituale, dove musica e liriche interagiscono per sviluppare metafore di volatile eleganza ed il racconto riverbera con sognante lirismo attraverso la grana liquida e luminosa del canto di Lake, (“Parlando agli alberi della strana ragnatela. Dormendo sul gradino di una fontana. Agitando la bacchetta d’argento tra la canzone degli uccelli notturni. Aspettando il sole sulla montagna”), il corpus del brano, titolato The Illusion, è una meticolosa ricerca strutturale su sonorità diafane e trasparenti. All’inizio l’oggetto sonoro che si va materializzando ha forma, volume e intensità incerti, in continuo mutamento. E’ aperto dal fraseggio circolare e particolarmente melodico e ricercato di Fripp – da pianista frustrato come il chitarrista ebbe a definire se stesso – poi un pianissimo, gli strumenti coi volumi al minimo, a tratti vicinissimi al silenzio, come se la fonte sonora fosse quella di un universo interiore, che s’increspa repentinamente ora in piccoli gridi graffianti di epigrammatica secchezza, ora in agrodolci fremiti melismatici.
Fripp e soci sono in piena esperienza informale, una via inglese alla musica di ricerca, contigua (seppur separata) a certo jazz scaturito da quella vitalissima, coeva British Scene dell’improvvisazione, alcuni esponenti della quale – a partire da Keith Tippet, il pianista “liquido”, passando per il cornettista Mark Charig ed il trombonista Nick Evans – proprio il Re Cremisi ospiterà successivamente sia in In The Wake Of Poseidon, sia in Lizard, sia in Islands. Il risultato è una sonorità frammentata, un espressionistico smembramento delle frasi carico di suggestione. L’effetto è quello di trasportare l’ascoltatore tra elfi, ninfee, fate e piccole creature misteriose, in un cangiante e sognante paesaggio “inventato” con grande cura delle dinamiche e dei suoni ed evitando plateali effettismi.
Il basso è assente, e lungo il binario ritmico-timbrico instaurato tra il vibrafono di un Mc Donald grande indagatore e di un Giles coloristico e rarefatto, Fripp fa correre il suo immaginario astratto ed elusivo, fatto di distensioni e contrazioni, sbiadimenti e accensioni rapidissime. Tutto contribuisce a definire (si fa per dire) una struttura artisticamente sorprendente, una musica spezzettata, sfuggente ed ipnotica, dove ad ogni battuta quello che sembra affermato viene immediatamente rimesso in discussione. Questo conferisce una completa imprevedibilità delle soluzioni formali e la sensazione che se ne ricava è appunto l’ossimoro di un rumore compunto, di un caos misteriosamente organizzato, dove ogni suono è incanalato in nascoste strutture regolatrici. L’instabile, ma lucidamente controllata, tessitura delle parti è così risolta in spigolose accentazioni sonore e frammenti libertari che copulano le une con gli altri cambiando continuamente di passo e direzione.
Il compito principale della sezione ritmica, poi, in pratica la sola batteria di Giles, che in assenza dello strumento a quattro corde decide di percuotere quasi esclusivamente la cassa, non è quello di sostenere chitarra, vibrafono e mellotron, bensì, durante The Dream, quello di punteggiare efficacemente la linea melodica, mentre nella lunga The Illusion essa si svincola anche da questo simulacro di tappeto ritmico per affiancarsi ai laconici e frammentati dialoghi di Fripp e Mc Donald. Si esplicita così una voluta lateralità dell’approccio che rifiuta le consuete strutture formali e che distrugge il tradizionale rapporto solista accompagnatori. Nessuno in ambito “rock” aveva mai osato tanto. Lasciatemelo dire: i King Crimson di Moonchild sono la seconda o terza grande cosa che il rock inglese inventava dopo i funerali dei Beatles, il blues morfinomane degli Stones e il verbo capito male dei primi Pink Floyd.
Grandi, miracolosi King Crimson! Costantemente votati ad accollarsi i rischi di un percorso negato all’evidenza e alla banalità. Forieri di un discorso sonoro che propugna un’immersione totale nell’ignoto. Non avessero in seguito vissuto cinquant’anni di musica dalla determinazione espressiva sempre marcata e sempre coerente, non fossero sempre stati motivati dalla ricerca di un proprio equilibrio tra interpretazione, invenzione ed improvvisazione, per attirare la nostra attenzione basterebbe loro questa stupenda pagina reticente e soffusa, che da modo a questi cinque musicisti, tutti eccelsi e qualcuno assolutamente grande, di completare la nostra delizia di ascoltatori.
Il che induce a chiederci come possa il rock di oggi considerarsi una musica viva se pretende di ignorare o di tenersi deliberatamente lontano da esperienze come questa.

(1) Oggi tutto è cambiato e la discografia si compiace di girare e rigirare sulla pista del rock consolidato, sfoggiando vecchio repertorio e superba varietà. Non fa eccezione The Cheerful Insanity Of  che potete trovare risistemato in luccicante Compact Disc. A dar gusto ulteriore, un piccolo florilegio di sei brani inediti da aggiungere al bottimo già noto: She’s Loaded e Under The Sky fissate per la prima volta su disco, One In A Million e Newly-Weds proposte nella versione singolo, mentre di Thursday Morning, proposta anch’essa in versione 45 giri, potrete ascoltare sia la registrazione mono che stereo. Ma non finisce qui. Altre importanti novità del trio cadono ad inizio millenio: nel 2001, grazie alla Voiceprint, benemerita etichetta britannica specializzata soprattutto in art rock, che continuamente aggiorna il suo almanacco di varia umanità, si è reso disponibilie un nuovo capitolo della vecchia vicenda. Si chiama The Brondesbury Tapes (dallo studio di fortuna approntato nell’appartamento di Brondesbury Road dove i tre abitavano) e mostra un programma alquanto interessante. I motivi per catturare l’attenzione dell’ascoltatore più avvertito infatti non mancano. Il principale è che The Brondesbury Tapes è quello che i paleontologi chiamano l’anello mancante nella scala evolutiva, quello che ci fa cogliere pienamente il senso di quella che per oltre quarant’anni abbiamo sempre valutato come una cesura di difficile interpretazione: il repentino passaggio tra il mondo goliardico di Giles, Giles & Fripp e quello fatato e favolistico dei King Crimson. Ora tutto assume senso compiuto e logica: il gruppo stava cambiando pelle, la pupa era diventata crisalide e di lì a poco la metamorfosi sarebbe stata completa disvelando una splendida farfalla multicolore che avrebbe iniziato a librarsi in volo sui giardini del rock. Così, con in mezzo più di una gemma finalmente disvelata, si snodano 21 gustosissimi bozzetti dove i nostri, cui si erano nel frattempo aggiunti Ian McDonald, Judy Dyble (sua fidanzata e già cantante nella primissima edizione dei Fairport Convention) e Peter Sinfield, vengono esposti a massicce radiazioni di “crimsonite” e cominciano ad espandere le proprie mire. L’apporto di McDonald si rivela decisivo e il disco scioglie trionfalmente i nodi protestando immortalità per lo stile dei cinque. Non e infatti difficile scorgere nell’esercizio del gruppo mano sicura e mestiere già solido; altrettanto evidente pare a noi la confortante ricchezza di molti passaggi, se non dell’intera impalcatura, laddove già si fida sulla pioggia di tempere strane e sulla suggestione umorale per confortare i sensi di chi ascolta.
Più che entrare nel dettaglio, ammanendovi da scrupoloso biografo una disamina puntigliosa song by song (visto che la mappa del disco fa per buona parte raccolta di molte rivisitazioni di brani già vagliati all’ascolto del primo album), mi limiterò ad amichevoli consigli, a blanda descrizione delle pagine più intriganti, lungo un itinerario che il lettore saprà bene come interpretare e usare pro domo suo. Ciò detto, non avremmo potuto iniziare (noblesse oblige) se non da I Talk To The Wind che fa scattare corde e voce nel nome di certo pop-folk. Stimola certo un pizzico di curiosità nell’aprire la busta e scoprire che la song sia qui proposta in due takes; intrigante la seconda in cui la Dyble, ispirata e stuzzicata da un momento felice, sfodera mordente adeguato, non sfigurando affatto nemmeno al temibile confronto con il Greg Lake di lì a venire. Altra anticipazione crimsoniana è quella di Why Don’t You Just Drop In (anch’essa in due versioni), dove un Fripp distorto e acidissimo (specie nella versione numero 2), guidato da mano salda e cuore hendrixiano sfodera l’arma chitarristica passando attraverso le buriane del rock-blues più maschio. Ed è proprio qui che la storia s’ingarbuglia facendosi intrigante. Tre anni più tardi, infatti, il brano conoscerà una seconda stesura ove la linea melodica, opportunamente digerita, verrà risputata per darci la struttura su cui verrà costruito, con marchio di fabbricazione del tutto originale, il climax in magico crescendo di The Letters, contenuta in Islands, dove Fripp si dimostrerà capace di cogliere i più sottili movimenti emotivi sul sismografo della propria anima.
Nuova su disco risulta anche Make It Today (essa pure in doppia versione) in cui il gruppo riceve benedizione arcivescovile (l'arcivescovo officiante, avrete inteso, è ovviamente quello di Canterbury), e dove il sax di McDonald fa sensazione per il suo vigore e la sue intelligenza che gli fanno affiancare stilemi jazzistici e argute folate rhythm 'n' blues. Altra gradevole pagina inedita è Passage Of Time, attraverso la quale è possibile osservare snodarsi il percorso dell’artista Fripp che si piega alle diverse lune della sua  ispirazione. Trattasi infatti di un’altra visione dei Crimson di lì a venire, in cui questo Fripp dei giorni timidi viene illustrato con buona luce e lauro in fronte. Affascinanti vicende discografiche quelle che ci dilettiamo a dipanare in questa che vuole essere un’amorevole glossa al lavoro frippiano: infatti, in Passages Of Time si recupera chiaramante il progetto dell’artista in quel particolare momento, il sogno di una musica semplice, legata alla tradizione del folklore.
 Così, da un infinitesimale frammento di questo episodio, preso di peso e scarnificato fino all’osso attraverso un duro mutare di pelle, prenderà forma il sentore felice di scorribanda celeste e di ecologica dolcezza della Peace di In The Wake Of Poseidon. Altro inedito senz’altro degno di citazione è Scrivens, accattivante walzer sghembo nei ritmi (un Mike Giles genio matematico della batteria e di più non dirò) ma che vellica le orecchie con le rilassate invenzioni di un ineffabile Ian McDonald che diviso tra sax e flauto riesce a distillare lo spirito della tradizione con lingua aggiornata. 
Non meno comunicativa è She Is Loaded, ove la particolare psichedelia frippiana si risolve in uno scaltro bozzetto vicino ai ritmi (anche qui che più scheggiati non si potrebbe) a sostegno di un recipiente di segni canterburiani.
Al centro dell’attenzione però c’è l’apoteosi degli oltre 6 minuti tetragoni e ricchi di forti suggestioni di Wonderland, con i quali chiudiamo questa disgressione sui “nastri di Brondesbury”. Fissata sulla cangiante tela dell’elasticità strumentale, Wonderland da linfa ad un sound grande e memorabile che spiega l’enorme energia del rock, del jazz e della psichedelia, sancendo esplicitamente la nobiltà di questa band di quasi debuttanti. Secondo il monito di certi Soft  Machine della prima ora, la band aggiunge un nuovo esaltante capitolo al grande libro dello psicho-rock inglese, cucendo insieme il nervo di un ritmo jazzato con lo spettacolo di un canto scat. “Rumore inglese”, dunque, capace d’incantar le generazioni vecchie e nuove, un brano chiave che nel suo percorso si sviluppa sull’umore elettrico della chitarra frippiana e le finte e i guizzi del magistero percussivo di un Mike Giles baciato in fronte dal Dio dei batteristi.

(2) Senza avvisar nessuno, la DGM di Robert Fripp trae dal suo impareggiabile archivio dei nastri rarissimi che nel 2010 sono andati a costituire la versione definitiva (5 CD + 1 DVD, mica bruscolini) dell’ esordio crimsoniano. Al di là di un pugno di BBC Sessions, versioni alternate, rimasterizzate, new mix, in cui la track list dell’album viene ribaltata tre quattro volte, arrivando a punti di completezza filologica maniacale e difficilmente eguagliabili quanto a puntiglio, il piatto forte del cofanetto è costituito proprio dalle registrazioni di Hyde Park 1969, cui si aggiungono alcuni estratti catturati al Fillmore East. Detto che il valore storico del documento è incontrovertibile, si deve avvertire che queste registrazioni inedite conservate sotto la pelle discografica per quarant’anni, deludono assai per via della tecnica di registrazione discutibile (per usare un eufemismo) con cui è stata trattata la materia sonora. L’occasione avrebbe potuto essere ghiotta, ma con questi suoni che mandano riflessi nevrotici e distorsioni oltre il limite della decenza… No grazie, di Earthbound ce n’è già stato propinato uno e ci è bastato e avanzato. Il caso Earthbound è ben noto: musica catturata da un registratore a cassette e mixata sotto la pioggia sul retro di un pullmino Volkswagen. Sembrava difficile fare di peggio, ma qui ci si riesce alla grande, col risultato che la qualità sonora scende a livelli ancor più infimi di quella sfoggiata (si fa per dire) in quel disgraziatissimo live album del 1972. Peccato, non tanto e non solo per la gloriosa 21st Century Schizoid Man della quale in tutti questi lustri non sono mai riuscito a trovare una registrazione live che gli rendesse adeguata giustizia (3) ma soprattutto per la donovaniana Get Thy Bearings che cerca sbocchi per nuove storie ed argomenti che verranno adoperati nella Pictures Of A City di In The Wake Of Poseidon. Ma tant’è. Ciò detto, non resta che render conto della manciata di inediti che avrebbero dovuto soddisfare la libido dei completisti: Mantra, Travel Weary Capricorn e Mars, da Hyde Park, sono il prolungamento in medley di Epitaph e nella loro giustificata precarietà (la band aveva cominciato a provare da meno di due mesi, quindi problemi di affiatamento e dubbi sullo stile in proiezione futura) rappresentano progetti sonori abbastanza vaghi che masticano maldestramente il pane di nuove tematiche, tentando di aggiornare il libro di Uncle Meat e The Piper At The Gates Of Dawn. A Man A City, messa in scena al Fillmore newyorkese, altro non è invece che la prima stesura di Pictures Of A City con il minutaggio che supera quota 12 ed a cui, evidentemente, la band stava mettendo mano con alacre determinazione. Il resto è il classico set crimsoniano dell’epoca, dove le varie Epitaph, In The Court Of The Crimson King e 21st Century Schizoid Man non reggono il confronto con le versioni di studio.

(3) Forse solo le versioni che infiammano rispettivamente il capitolo 2015 della saga on stage The Elements ed il recentissimo (2018) Live In Vienna riescono a vendere, sposando con granitica determinazione focosa rabbia e impeccabile resa discografica, le stoffe ritagliate una volta per tutte al mercato di In The Court Of The Crimson King.

                                                    Mauro Rollin' On The River Uliana











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