Dici Bee Gees e la mente subito corre al Travolta di bianco vestito e ai suoi "febbricitanti" balli del sabato sera. Ma quella dei fratelli Gibb è una storia che affondaa le radici molto indietro negli anni. Nel 1971, tanto per fare un esempio, fermano il tempo ed il respiro con questa How Can You Mend A Broken Heart, piazzata al primo posto della classifica americana, ma soprattutto, ed è quel che più conta, piantata dritta in mezzo al cuore sia di chi sa riconoscere una grande canzone d'autore, sia di chi si consuma nel mal d'amore.
Nel 1967, undici anni prima di restare troppo al freddo di notte e beccarsi la febbre del sabato sera, i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb erano tre belli e onesti ragazzi inglesi rientrati in patria dalla lontana Australia in cerca di fortuna nella Swingin’ London. Originari dell’isola di Man, dipendenza della Corona Britannica (ma non parte, almeno formalmente, del Regno Unito), situata nel mare d’Irlanda, dove erano nati nel 1946 (Barry) e nel 1949 (i gemelli Robin e Maurice) da genitori (Hugh e Barbara) anch’essi musicisti, i tre fratelli presto seguono padre e madre per trasferirsi a Manchester e stabilirsi a Chorlton-cum-Hardy, turbolento quartiere popolare dove lo scorrere del tempo è scandito da risse ed episodi di vandalismo che vedono come protagonista soprattutto Barry, il più grande dei tre. Nemmeno l’ombra, ovviamente, di quella che tra gli ’80 e i ‘90 diventerà Madchester, mecca della scena baggy di Stone Roses ed Happy Mondays, poi terra del marzapane brit-pop e del nightclubbing sfrenato. Anzi, per essere Manchester, Chorlton-cum-Hardy è il buco del culo di Manchester. Ciò però non impedisce ai Brothers Gibb di cominciare ad esibirsi nei cinema del centro, tra un film e l'altro, con il nome di Rattlesnakes. Barry ha solo 9 anni, gli altri due addirittura 6 e già cominciano a farsi le ossa nello spietato ed ultra-competitivo mondo dello show-biz mancuniano. Del resto, per dirla con il Mick Jagger che sarà, che altro può fare un giovane ragazzo per sfuggire alla noia se non suonare in una rock ‘n’ roll band? O almeno fantasticare di poterlo fare. Ma il sogno sembra svanire ancor prima di iniziare allorché, dopo l’ennesimo episodio di teppismo, l’irrequieto Barry incappa in una condanna con la condizionale. E’ il 1958, e i genitori decidono saggiamente di frapporre il maggior numero di miglia possibile tra loro ed un molto probabile andirivieni dalle patrie galere per quelli che, nonostante la giovanissima età, promettevano di avviarsi ad un burrascoso futuro di teddy boys e chissà che altro. Imperativo era evitare di rimanere invischiati sul pericoloso limitare fra un’esistenza modesta ma dignitosa e la marginalità sociale. Lasciatesi dunque alle spalle la Manica e le bianche scogliere di Dover, la famiglia approda a Brisbane vivace capoluogo del Queensland sulla east coast australiana.
Il Dio della musica aveva dotato i
tre fratellini di un talento vocale veramente fuori dal comune e furono queste
innate doti naturali che portarono i nostri a tentare con ammirabile caparbietà
la scalata al successo anche una volta raggiunti gli antipodi. Tenacia e
determinazione cominciarono a farli uscire dal guscio grazie anche all’opera di
Bill Gates: non “quel” Bill Gates (fate caso alle iniziali B e G) bensì un
omonimo del Re di Microsoft cha faceva il dj a "Radio Brisbane".
Talmente imberbi i tre che la stazione radiofonica li andava a prelevare a
domicilio con un auto per poi riaccompagnarli a casa dopo ogni trasmissione. Un
incredibile combinazione volle che l’autista che li scarrozzava si chiamasse Bill
Goode (ancora B e G) e loro erano naturalmente i Brothers Gibb’s o Bros. G.
Insomma, fosse stata, la vicenda, ambientata ai nostri giorni, sarebbe sembrato
di essere sul set di uno spot pubblicitario che stava andando per la maggiore qualche tempo fa e che opportunamente parafrasato avrebbe potuto suonare come “Vedrai
solo B e G!”. Va da sé che con quel proliferare di “B” e di
“G” il passo che li portò a diventare prima B.G.’s e finalmente Bee Gees
dovette apparire ai tre ragazzini come un segno ineluttabile del destino.
E’ da questo momento in avanti che
gli avvenimenti prendono una piega sempre più interessante per i tre aspiranti
rockstar: molte canzoni cominciano a grondare dalle loro
prolifiche penne e prima che il 1960 volga al termine si esibiscono
per la prima volta davanti alle telecamere della televisione australiana e tre
anni dopo, nel 1963, approdano a The Battle Of The Blue And Grey, il
loro primo singolo ufficiale. Qui l’avventura subisce un ulteriore accelerazione:
pochi mesi ancora ed i tre firmano il loro primo contratto con la Festival
Records, pubblicando il singolo Three Kisses Of Love. Nei
successivi due anni appena la band incide una nutrita
serie di singoli che per la maggior parte troveranno posto nell’album The
Bee Gees Sing And Play 14 Barry Gibb Songs pubblicato nel 1965. In queste
canzoni, oltre a pagare l’inevitabile tributo ai Beatles (To Be Or Not To Be
e Claustrophobia su tutte) i
nostri mettono in mostra una personalità che già si sta affrancando da stilemi
troppo battuti, come avviene nelle acustiche Don’t Think It’s Funny e How
Love Was True che in nuce già recano nitido il segno delle future ballad
per cui i Gibb diverranno famosi. Bisogna però attendere il 1966 per ottenere
il primo risultato veramente importante, quando il singolo Spicks And Specks arriva al Nº 1 della classifica
Australiana e l’album omonimo che la contiene, oltre che nella terra dei
canguri, viene pubblicato anche sul mercato internazionale. Spicks And
Specks certifica l’ingresso
dei tre fratelli nell’età adulta: è una canzone in cui si aprono i cieli degli
anni ’60 ormai maturi, ove non bastano più le formule mandate a memoria e
vengono banditi clichés ormai desueti, ma dove invece la rivoluzione dei
tempi nuovi è un abbraccio alla musa della fantasia che richiede la presenza di
un pianoforte incalzante ed una tromba che ancor oggi è raro incontrare sulle
strade del brit-pop. Ed è proprio con Spick And Spell, infatti,
con il suo riff di piano e quell’inusitata tromba, che i nostri inseguono il
loro sogno di un pop da camera.
I tempi sono maturi per il rientro
in un Inghilterra in pieno fermento, dove Beatles, Rolling Stones e tutta la
generazione del nuovo British Rock già aveva posto le basi per la più
importante rivoluzione culturale del ventesimo secolo. Cosa che
avviene nel gennaio 1967. Prima
di lasciare l'Australia, i Bee Gees avevano inviato nastri in audizione al
responsabile dei Beatles, Brian Epstein, deus ex machina della NEMS
Enterprises, compagnia di management dei quattro baronetti. Lì
vengono ascoltati dal direttore generale Robert Stigwood (anche lui di origini
australiane), futuro patron della RSO che avrebbe annoverato in scuderia gente
come Eric Clapton e Yvonne Elliman (massì, dai, fate uno sforzo… la Maria
Maddalena di Jesus Christ Superstar). Costui era manager dei Cream (e di
lì a non molto lo sarebbe stato degli stessi Bee Gees), promoter di
mostri sacri come David Bowie, Mick Jagger, Rod Stewart e produttore di film
come Hair, Jesus Christ Superstar, Evita, Saturday
Night Fever, Grease, Tommy, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts
Club Band e qui mi fermo e scusate se è poco. Un mammasantissima del
rock, avrete inteso. E’ il minimo che si possa dire di lui. Sarà che a Stigwood
quei tre ragazzotti fanno tenerezza, sarà che nell’aria c’è molto più che un
indefinito sapore di nuovo che si è andato a definire con dischi fondamentali
come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band di John, Paul, George e Ringo
o Disraeli Gears dei Cream (e limito le citazioni all’Inghilterra e a
due gruppi che gravitavano nell’orbita di Stigwood, ché in caso contrario non
di righe ulteriori avrei avuto bisogno, bensì di intere pagine). Sia come sia
il produttore viene talmente colpito non solo da ingaggiare i fratelli, ma da
assumerne addirittura il management; e dopo averli messi sotto contratto,
affianca loro due amici musicisti di origine australiane come backup band: il
chitarrista Vince Melouney e il batterista Colin Petersen. E’ un rapporto che parte con
il piede giusto e negli anni si consoliderà sempre di più (è proprio a Stigwood
che si deve, dieci anni dopo, la svolta disco e travoltina de La Febbre Del
Sabato Sera). Con un pigmalione di quella caratura e soprattutto di
quella mallevadoria tutto inizia a correre velocemente intorno ai Bee Gees e la strada sarebbe
andata facendosi vieppiù impegnativa ma anche ricca di gratificazioni.
E’ a quest’altezza che i fratelli
giurano a sé stessi che sarebbero rimasti sempre uniti e fedeli alla causa
dell'impresa, giuramento cui, come vedremo più avanti, i tre non riusciranno
completamente a tener fede. Nei seguenti
cinque anni i Bee Gees si costruiscono una reputazione internazionale
solidissima, stazionando abitualmente nei piani alti delle classifiche di mezzo
mondo grazie a successi come To Love Somebody, inizialmente pensata per
Otis Redding ma poi ripresa in una drammatica rendition da Janis Joplin, Massachusetts,
pensata come una sorta di anti-San Francisco, terra promessa dove tutti ma
proprio tutti sognavano di andare a raccogliere fiori, ma soprattutto a fumare
erba, I’ve Gotta Get A Message To You, che qui da noi fece letteralmente
il botto con la versione italiana di Mal dei Primitives intitolata Pensiero
D’Amore, che stazionò per quattro settimane al N° 1 della Hit Parade, I
Started A Joke, ripresa nel 1998 nientemeno che dai (udite, udite!!!!)
Faith No More che ne daranno un accorata interpretazione, per finire ad album
ambiziosi come il monumentele doppio Odessa del ‘69.
Nel calderone dei Bee Gees non bollivano molti
ingredienti: c’erano i Beatles, ovviamente, il pop ad altissimo tasso di vampe
romantiche, un pizzico di Kinks, una leggerissima spruzzata, ma proprio un velo
sottilissimo, di pop-rock, qualche reminiscenza folkeggiante, gli impasti
sonori dei Procol Harum, le alchimie vocali e gli inni radiofonici degli
Hollies. Insomma, un brodo di coltura molto coerente da cui nasceranno fiori
meravigliosi per almeno cinque anni, ma anche una vera e propria bomba a
orologeria nascosta tra quelle melodie che volavano ad alta quota, con gli ego
dei tre fratelli che si gonfiavano smisurati ogni giorno di più,
vischioso e fetido blob che rischiò di sommergere tutto. Quando le contraddizioni
esploderanno la band si disintegrerà tra le nuvole.
Il momento rancoroso ha origine nel ’69: pomo della discordia First Of
May, ballad in collisione tra melopea natalizia e adamantino pop
orchestrale contenuta in Odessa. Fu il singolo di maggior successo, ma
fu anche la ragione per una velenosa rottura. La causa scatenante va ricercata
nello stress dovuto al tempo trascorso in sala di registrazione, mentre
l’agiografia preferisce attribuire il contrasto a diverse valutazioni sulla
facciata del singolo in cui collocare la canzone: per Barry era quello il brano
da inserire nel lato A, Robin avrebbe invece preferito puntare le sue fiches
su Lamplight, altra perla che fa brillare l'album di luce speciale, che però venne relegato al lato B. Tale aneddoto,
tuttavia, non fu che l’ultimo in ordine di tempo di una serie di dissidi che
avevano iniziato a minare la compattezza della band: la classica goccia che
fece traboccare il vaso, causando l’abbandono del sodalizio da parte di Robin,
che, venendo meno al giuramento di cui si parlò alcune righe sopra, decise di intraprendere la carriera solista. Presto
abbandonarono la baracca anche Petersen e Melouney. Una breve agonia e una
morte ancor più rapida per il gruppo che molti avevano incoronato come i veri
eredi dei Beatles.
Mentre Robin continuava ad essere
l’inquilino più presente nei piani alti delle classifiche di vendita sia con il
singolo Saved By The Bell che con il suo primo album solista Robin's
Reign, Barry e Maurice, che conservarono la titolarità della sigla Bee
Gees, rispondevano con l’ennesimo hit single, Don't Forget To Remember
che continuò a mantenere le vendite cospicue tanto in mezza Europa quanto in
Australia e Nuova Zelanda e l'album Cucumber Castle, che conteneva
brani utilizzati per uno special TV con
il medesimo titolo. La
separazione durò fortunatamente qualche mese soltanto e non diede vita ad una
miserevole epopea in cui solitamente perdono tutti, come purtroppo è successo a
troppe band (chi ha detto Pink Floyd?). Non fu insomma una storia che lascia in
bocca un tale sapore di fiele per il male che di solito si fanno a vicenda i
protagonisti, da non poter più ascoltare quelle canzoni senza che un rigurgito
torni a sciupartele (ma insomma, chi ha detto Creedence Clearwater Revival?).
Quando nel maggio 1971 viene
pubblicata How Can You Mend A Broken Heart,
il momento di sbandamento è infatti già un ricordo dato che le
controversie erano già state composte fin dall’estate
dell’anno precedente. Barry
e Robin Gibb hanno
infatti scritto la canzone nel mese di agosto 1970 contemporaneamente a Lonely Days che
avrebbe visto la pubblicazione già nel novembre successivo con l’album 2
Years On. "Robin è venuto a casa mia", ricorda Barry
", e quel pomeriggio abbiamo scritto How
Can You Mend A Broken Heart? che, ovviamente, era anche
un’allusione al fatto che eravamo tornati insieme. Abbiamo chiamato Maurice per
completare il brano, poi siamo andati in studio e ancora una volta, con un solo
Broken Heart come una struttura di base e un'idea
appena abbozzata per Lonely Days, siamo riusciti a terminare entrambe le
canzoni che sono state registrate quella notte". Originariamente la canzone era stata offerta al
crooner Andy Williams, ma hanno finito
per registrala loro stessi. Barry
spiega anche che: «Potremmo scrivere pensando ad un certo gruppo, in seguito
potremmo appropriarci della canzone che ci si adatterebbe comunque
perfettamente".
Arrivati fino a quel
punto della loro avventura, i nostri possono fare un bilancio della loro
carriera ed è una contabilità di cui andar fieri: guardando a ritroso, a sei anni dall’esordio adulto e
a quasi cinque dal loro rientro in madrepatria, i tre fratelli possono rimirare
ciò che s’erano gia buttati alle spalle: otto album tutti gradevoli ed un pugno
di canzoni dalla qualità strepitosa e riprese praticamente da tutti. La loro
arma invicibile erano le melodie e le armonie vocali, non ancora condotte sul
filo dei falsetti che tanta fortuna hanno poi portato al trio nell’era della
disco music, ma talmente perfette che avevano pochi rivali nel mondo del pop.
Registrata a Londra il 28
gennaio 1971 e prodotta in collaborazione con Robert Stigwood, How
Can You Mend A Broken Heart è una pain street che sembra
volerci condurre lungo l’intero suo cammino di 3’58”, una canzone in cui a
dominare è il pop puro e di classe superiore, quello che con gli opportuni
aggiustamenti in chiave soul può anche trasformare una song come questa in una torch
ballad che potrebbe fare la gioia di un Curtis Mayfield o di uno Smokey
Robinson. Il risultato mozza il respiro e ti ulcera il cuore fin dalle prime
note iniziali, costruite secondo dopo secondo da Robin e Barry: organo in
sottofondo e chitarra simil country, raddoppio di tastiere con cinque note
cinque di piano e due sole note di basso precise e ben assestate che nel loro
quasi nulla dicono tutto, e ascoltare è come essere dentro quel niente. Sapete,
uno di quei coup de foudre che ti dimostra come anche una sola nota
nell’istante e nel modo opportuni sia spesso più efficace di tanti complicati
fraseggi. E’ la semplicità da maestri che si raggiunge sfrondando il superfluo,
con la convinzione che a determinare il valore di un brano non sia quanto metti
dentro ma quel che lasci fuori. E poi gli echi costruiti intorno al crooning
di cristallo di Robin Gibb che pare venire da un qualche lontano paradiso
incantato e noi già belli e cucinati a dovere con il conta-tempo del lettore
che ancora non è arrivato a 15 secondi. “Niente di che” avrebbe detto poi Robin Gibb “l’ho scritta
in un’ora”. Un incipit riuscito per lui, la folgorazione per un giovane Al
Green al di là dell’oceano che, avendo capito come il baroque soul della
canzone fosse magnificamente in sintonia con le vibrazioni black del
periodo, se la sarebbe cucita addosso come un abito di alta sartoria e
l’avrebbe piazzata a far bella mostra di sé nel monumentale Let’s Stay
Together dell’anno successivo.
Giusto il tempo di farsi catturare dalla melodia di
questo inizio, e la canzone prende quota per arrivare al momento sublime
quando il magico
intreccio delle voci dei Gibb intona quel “we could never see tomorrow…”
e allora pensi a Burt Bacharach o a qualche genio di Tin Pan Alley (1). O magari
ai Beatles più lirici come quelli di Let It Be o The Long And Winding
Road; oppure allo smisurato talento del Brian Wilson di Pet
Sounds. Ché i riferimenti non possono essere che questi per un gruppo che
fluttua in puro stato di grazia. Ma How Can You Mend A
Broken Heart nasconde molto altro: ci riferiamo al ritornello,
dolcissimo, delicatissimo, intensissimo, dove il vibrato di Robin non ha quasi
un piano su cui poggiarsi senza tremare, per poi raddoppiare con una splendida
innodia a due voci. Cose da specialisti di “alto pop”.
Non meraviglia quindi che la canzone voli al primo posto nelle classifiche
americane. Robin Gibb: “La stesura del brano non fu
ne faticosa ne disagevole. Il tutto ha richiesto circa
un'ora per essere completato. Il brano ha raggiunto il primo posto, con nostra
grande soddisfazione". Fu dunque indiscutibilmente un successo How
Can You Mend A Broken Heart, anche se nemmeno lontanamente paragonabile a Stayin’
Alive e a tutte le febbri del sabato sera, se per successo s’intende quella
cosa delle classifiche di tutto il mondo occupate in pianta stabile, ma è una
di quelle canzoni che, al contrario di molta della roba inquietante che
dominava la radio (soprattutto italiana) di inizio anni ’70, ha preso a
schiaffi il tempo e la caducità del business con la semplice arte della
bellezza.
Mentre faccio mente locale su quanto appena scritto
mi rendo conto di come nessuno tra le teste d’uovo della stampa musicale
(almeno di quella italiana) abbia fatto mai gli accostamenti di qualche riga
sopra e di come anzi i Bee Gees siano sempre stati un gruppo piuttosto
vilipeso, quasi come fossero figli di un Dio minore. Di loro oggi sembra non
ricordarsi più nessuno. Anzi, peggio: se li ricordano in molti, ma con
imbarazzo. Pare non ci sia nulla di più uncool che citarli come propria
influenza; e infatti nessuna band si sogna di farlo. Sarebbe come se un comico
esordiente sostenesse di avere come modello Jack Lemmon. E dire che in questi
anni si è rivalutato di tutto. I Bee Gees no, loro rimangono dei paria
intoccabili. A volte invece non c’è nulla di più bello che riscoprire. Ben
sapendo che c’è un modo dolce e segreto per farlo, senza mai aver dimenticato
il sense of wonder che ci ha colto da adolescenti, quando la musica era
un universo tutto da scoprire che si apriva davanti ai nostri occhi. Ma tant’è.
La canzone apre sontuosamente un disco come Trafalgar, uno pseudo concept-album,
secondo come ambizione solo al monumentale Odessa, senza però
eguagliarne la grandezza. Pseudo perché nessuno dei brani in esso contenuti ha
attinenza con la celebre battaglia navale (2): non
la title track che parla di solitudine e pene esistenziali, né Walking Back
To Waterloo, nonostante il titolo potrebbe far pensare a Napoleone
Bonaparte. Trafalgar non è infatti stato pensato come disco organico ma
piuttosto come semplice raccolta di canzoni. L’album annega l’ascolto in scie
di romanticismo tra voci dal suono di velluto ed un oceano di tastiere, e
probabilmente questo è il suo limite. Ciò lo rende infatti piuttosto monocorde,
un album che non tocca nuove e diverse terre ma che viceversa sembra proteso
verso un’unica direzione. Non fraintendetemi: le canzoni, anche se nessuna
raggiunge gli apici emotivi di How Can You Mend A
Broken Heart, sono piacevoli, ineccepibili se ascoltate una
per una. Qualcuna è addirittura un piccolo capolavoro, come accade per Don’t
Wanna Live Inside Myself (non a
caso secondo sigolo tratto dall’album) che sembra guardare all’America ma lo fa
con splendida malinconia, cavalcando il vento che le porta in dote un motivo
preso a prestito da Helpless di Neil Young e da I Shall Be Released
della Band; oppure come per Lion In Winter che colpisce con implacabile
ferocia i sensi e la mente con l’ipnotico mezzo minuto iniziale di batteria e
la voce straziata di Robin Gibb che se fosse una chitarra non esiteremmo a
definire acidissima.
Ma a parte qualche
impennata il clima generale di Trafalgar è piuttosto consolatorio e
pericolosamente autoindulgente nei suoi 47 minuti (e ne esiste una versione extended
pubblicata solo negli USA che con due brani aggiunti porta i minuti a 53) e
francamente tre quarti d’ora di ballate e melodie à la Bee Gees,
ancorché suonate e cantate impeccabilmente dai Bee Gees medesimi, all’ascolto
risultano sinceramente faticosi. Se poi consideriamo come, eccettuata How
Can You Mend A Broken Heart e poco altro, il programma non contenga nulla
che mandi in orbita davvero, la raccomandazione di prendere il tutto a piccole
dosi appare quanto di più sensato si possa consigliare al lettore.
Cio dimostra che anche
se celebrati musicisti, geni del pentagramma, eroi generazionali, rockstar
dall’ubiqua popolarità, quando non veri e propri miti, viventi e non, quando ne
celebriamo musica e gesta è pur sempre di fallaci, terreni e fragili esseri umani
che stiamo parlando. Pradigmatici in tal senso i tre Gibb: nel corso di oltre
quarant’anni, l’odissea del gruppo a sfiorato vette olimpiche, ma è scesa anche
per vallate assai meno attraenti che occorre misurare a grandi passi per
trovare le prospettive meno anguste. Negli annali del pop inglese i Bee Gees
sono diventati l’anello mancante tra i melodici con velleità sinfoniche,
collocazione condivisa con Procol Harum e Moody Blues (tanto per fare due nomi)
e la trasformazione di quei suoni in qualcosa di diverso, unendo con un
trattino – come nella Settimana Enigmistica – innumerevoli puntini
sonori che vanno dai Beatles al rock progressivo, alla dance.
Una canzone come How Can You Mend A Broken Heart è uno tra i più
importanti di quei puntini che testimonia lo stile di una band che ha
assimilato la lezione dei crooner più languidi e che sente di poter guardare
dritto negli occhi quei maestri perchè sa di aver creato qualcosa di nuovo ed
eccitante. Strappalacrime? Barocca? Decadente? Zuccherosa? Ruffiana? Sì, tutto
vero: e allora? Allora succede che ci piace anche a 45 anni di distanza. Perché la magia teen
del “pop d’amore” è eterna.
Se poi qualcuno vi dirà che, in fondo, quelle dei
Bee Gees erano, più o meno, solo zuccherose canzonette, lasciatelo parlare.
Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.
(1) Con Tin Pan Alley (cioè "Vicolo della padella di
stagno") s’intende il nome dato all'industria musicale esclusivamente newyorkese che era egemone rispetto all’intero
mercato della musica popolare USA.
In seguito tale termine diventò omnicomprensivo e riguardò anche quella del
resto del paese. I suoi confini temporali
sono compresi tra la fine dell’ottocento (1885) e l’inizio del novecento
(attorno al 1930), quando la Grande Depressione e l'avvento di
radio e riproduzione a mezzo disco posero fine al
dominio degli editori musicali. Altri prolungano l’era di Tin Pan Alley agli
anni ‘50 e fanno coincidere la sua fine con l'avvento del rock and roll. Il singolare nome pare
trovi origine nella cacofonia del suono di più pianoforti, che dalle sale
prova fuoriusciva dalle finestre per poi riversarsi nelle strade (alley
è il nome con cui vengono designati i tipici vicoli newyorkesi). Tale suono
ricordava quello che si otteneva percuotendo delle padelle di stagno. La
Tin Pan Alley aveva sede nella 28esima strada Ovest tra la Quinta e la Sesta
Avenue. Uno dei nomi più conosciuti associato a Tin Pan Alley è senza
dubbio quello di George Gershwin che
negli studi lavorava come song
plugger, un pianista che suonava
le nuove canzoni per promuovere la vendita degli spartiti.
(2)
Quella di Trafalgar fu una
celeberrima battaglia navale che
si combattè durante la guerra
della terza coalizione, parte
delle guerre napoleoniche. Il 21 ottobre 1805
la Royal Navy si trovò di
fronte la flotta alleata franco-spagnola nell'Atlantico al largo della costa
sud-occidentale spagnola, ad ovest di Capo
Trafalgar nei pressi di Los Caños de Meca (Cadice). La flotta britannica
riportò la vittoria navale più decisiva dell’intera guerra. Ventisette vascelli da guerra britannici, al
comando dell'ammiraglio Horatio Nelson che dirigeva le operazioni da bordo
della HMS Victory, sgominarono
trentatré navi da combattimento franco-spagnole, agli ordini dell'ammiraglio
francese Pierre Charles
Silvestre de Villeneuve. La flotta alleata perse ventidue navi, senza che un
solo vascello britannico venisse affondato. Avete capito adesso perché
Trafalgar Square è la piazza che viene considerata il cuore di Londra?
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