giovedì 19 ottobre 2017

How Can You Mend A Broken Heart - Bee Gees (1971)



Dici Bee Gees e la mente subito corre al Travolta di bianco vestito e ai suoi "febbricitanti" balli del sabato sera. Ma quella dei fratelli Gibb è una storia che affondaa le radici molto indietro negli anni. Nel 1971, tanto per fare un esempio, fermano il tempo ed il respiro con questa How Can You Mend A Broken Heart, piazzata al primo posto della classifica americana, ma soprattutto, ed è quel che più conta, piantata dritta in mezzo al cuore sia di chi sa riconoscere una grande canzone d'autore, sia di chi si consuma nel mal d'amore. 



Nel 1967, undici anni prima di restare troppo al freddo di notte e beccarsi la febbre del sabato sera, i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb erano tre belli e onesti ragazzi inglesi rientrati in patria dalla lontana Australia in cerca di fortuna nella Swingin’ London. Originari dell’isola di Man, dipendenza della Corona Britannica (ma non parte, almeno formalmente, del Regno Unito), situata nel mare d’Irlanda, dove erano nati nel 1946 (Barry) e nel 1949 (i gemelli Robin e Maurice) da genitori (Hugh e Barbara) anch’essi musicisti, i tre fratelli presto seguono padre e madre per trasferirsi a Manchester e stabilirsi a Chorlton-cum-Hardy, turbolento quartiere popolare dove lo scorrere del tempo è scandito da risse ed episodi di vandalismo che vedono come protagonista soprattutto Barry, il più grande dei tre. Nemmeno l’ombra, ovviamente, di quella che tra gli ’80 e i ‘90 diventerà Madchester, mecca della scena baggy di Stone Roses ed Happy Mondays, poi terra del marzapane brit-pop e del nightclubbing sfrenato. Anzi, per essere Manchester, Chorlton-cum-Hardy è il buco del culo di Manchester. Ciò però non impedisce ai Brothers Gibb di cominciare ad esibirsi nei cinema del centro, tra un film e l'altro, con il nome di Rattlesnakes. Barry ha solo 9 anni, gli altri due addirittura 6 e già cominciano a farsi le ossa nello spietato ed ultra-competitivo mondo dello show-biz mancuniano. Del resto, per dirla con il Mick Jagger che sarà, che altro può fare un giovane ragazzo per sfuggire alla noia se non suonare in una rock ‘n’ roll band? O almeno fantasticare di poterlo fare. Ma il sogno sembra svanire ancor prima di iniziare allorché, dopo l’ennesimo episodio di teppismo, l’irrequieto Barry incappa in una condanna con la condizionale. E’ il 1958, e i genitori decidono saggiamente di frapporre il maggior numero di miglia possibile tra loro ed un molto probabile andirivieni dalle patrie galere per quelli che, nonostante la giovanissima età, promettevano di avviarsi ad un burrascoso futuro di teddy boys e chissà che altro. Imperativo era evitare di rimanere invischiati sul pericoloso limitare fra un’esistenza modesta ma dignitosa e la marginalità sociale. Lasciatesi dunque alle spalle la Manica e le bianche scogliere di Dover, la famiglia approda a Brisbane vivace capoluogo del Queensland sulla east coast australiana.
Il Dio della musica aveva dotato i tre fratellini di un talento vocale veramente fuori dal comune e furono queste innate doti naturali che portarono i nostri a tentare con ammirabile caparbietà la scalata al successo anche una volta raggiunti gli antipodi. Tenacia e determinazione cominciarono a farli uscire dal guscio grazie anche all’opera di Bill Gates: non “quel” Bill Gates (fate caso alle iniziali B e G) bensì un omonimo del Re di Microsoft cha faceva il dj a "Radio Brisbane". Talmente imberbi i tre che la stazione radiofonica li andava a prelevare a domicilio con un auto per poi riaccompagnarli a casa dopo ogni trasmissione. Un incredibile combinazione volle che l’autista che li scarrozzava si chiamasse Bill Goode (ancora B e G) e loro erano naturalmente i Brothers Gibb’s o Bros. G. Insomma, fosse stata, la vicenda, ambientata ai nostri giorni, sarebbe sembrato di essere sul set di uno spot pubblicitario che stava andando per la maggiore qualche tempo fa e che opportunamente parafrasato avrebbe potuto suonare come “Vedrai solo B e G!”. Va da sé che con quel proliferare di “B” e di “G” il passo che li portò a diventare prima B.G.’s e finalmente Bee Gees dovette apparire ai tre ragazzini come un segno ineluttabile del destino.
E’ da questo momento in avanti che gli avvenimenti prendono una piega sempre più interessante per i tre aspiranti rockstar: molte canzoni cominciano a grondare dalle loro prolifiche penne e prima che il 1960 volga al termine si esibiscono per la prima volta davanti alle telecamere della televisione australiana e tre anni dopo, nel 1963, approdano a The Battle Of The Blue And Grey, il loro primo singolo ufficiale. Qui l’avventura subisce un ulteriore accelerazione: pochi mesi ancora ed i tre firmano il loro primo contratto con la Festival Records, pubblicando il singolo Three Kisses Of Love. Nei successivi due anni appena la band incide una nutrita serie di singoli che per la maggior parte troveranno posto nell’album The Bee Gees Sing And Play 14 Barry Gibb Songs pubblicato nel 1965. In queste canzoni, oltre a pagare l’inevitabile tributo ai Beatles (To Be Or Not To Be e Claustrophobia su tutte)  i nostri mettono in mostra una personalità che già si sta affrancando da stilemi troppo battuti, come avviene nelle acustiche Don’t Think It’s Funny e How Love Was True che in nuce già recano nitido il segno delle future ballad per cui i Gibb diverranno famosi. Bisogna però attendere il 1966 per ottenere il primo risultato veramente importante, quando il singolo Spicks And Specks arriva al Nº 1 della classifica Australiana e l’album omonimo che la contiene, oltre che nella terra dei canguri, viene pubblicato anche sul mercato internazionale. Spicks And Specks  certifica l’ingresso dei tre fratelli nell’età adulta: è una canzone in cui si aprono i cieli degli anni ’60 ormai maturi, ove non bastano più le formule mandate a memoria e vengono banditi clichés ormai desueti, ma dove invece la rivoluzione dei tempi nuovi è un abbraccio alla musa della fantasia che richiede la presenza di un pianoforte incalzante ed una tromba che ancor oggi è raro incontrare sulle strade del brit-pop. Ed è proprio con Spick And Spell, infatti, con il suo riff di piano e quell’inusitata tromba, che i nostri inseguono il loro sogno di un pop da camera.
I tempi sono maturi per il rientro in un Inghilterra in pieno fermento, dove Beatles, Rolling Stones e tutta la generazione del nuovo British Rock già aveva posto le basi per la più importante rivoluzione culturale del ventesimo secolo. Cosa che avviene nel gennaio 1967. Prima di lasciare l'Australia, i Bee Gees avevano inviato nastri in audizione al responsabile dei Beatles, Brian Epstein, deus ex machina della NEMS Enterprises, compagnia di management dei quattro baronetti. Lì vengono ascoltati dal direttore generale Robert Stigwood (anche lui di origini australiane), futuro patron della RSO che avrebbe annoverato in scuderia gente come Eric Clapton e Yvonne Elliman (massì, dai, fate uno sforzo… la Maria Maddalena di Jesus Christ Superstar). Costui era manager dei Cream (e di lì a non molto lo sarebbe stato degli stessi Bee Gees), promoter di mostri sacri come David Bowie, Mick Jagger, Rod Stewart e produttore di film come Hair, Jesus Christ Superstar, Evita, Saturday Night Fever, Grease, Tommy, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e qui mi fermo e scusate se è poco. Un mammasantissima del rock, avrete inteso. E’ il minimo che si possa dire di lui. Sarà che a Stigwood quei tre ragazzotti fanno tenerezza, sarà che nell’aria c’è molto più che un indefinito sapore di nuovo che si è andato a definire con dischi fondamentali come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band di John, Paul, George e Ringo o Disraeli Gears dei Cream (e limito le citazioni all’Inghilterra e a due gruppi che gravitavano nell’orbita di Stigwood, ché in caso contrario non di righe ulteriori avrei avuto bisogno, bensì di intere pagine). Sia come sia il produttore viene talmente colpito non solo da ingaggiare i fratelli, ma da assumerne addirittura il management; e dopo averli messi sotto contratto, affianca loro due amici musicisti di origine australiane come backup band: il chitarrista Vince Melouney e il batterista Colin Petersen. E’ un rapporto che parte con il piede giusto e negli anni si consoliderà sempre di più (è proprio a Stigwood che si deve, dieci anni dopo, la svolta disco e travoltina de La Febbre Del Sabato Sera). Con un pigmalione di quella caratura e soprattutto di quella mallevadoria tutto inizia a correre velocemente  intorno ai Bee Gees e la strada sarebbe andata facendosi vieppiù impegnativa ma anche ricca di gratificazioni.
E’ a quest’altezza che i fratelli giurano a sé stessi che sarebbero rimasti sempre uniti e fedeli alla causa dell'impresa, giuramento cui, come vedremo più avanti, i tre non riusciranno completamente a tener fede.   Nei seguenti cinque anni i Bee Gees si costruiscono una reputazione internazionale solidissima, stazionando abitualmente nei piani alti delle classifiche di mezzo mondo grazie a successi come To Love Somebody, inizialmente pensata per Otis Redding ma poi ripresa in una drammatica rendition da Janis Joplin, Massachusetts, pensata come una sorta di anti-San Francisco, terra promessa dove tutti ma proprio tutti sognavano di andare a raccogliere fiori, ma soprattutto a fumare erba, I’ve Gotta Get A Message To You, che qui da noi fece letteralmente il botto con la versione italiana di Mal dei Primitives intitolata Pensiero D’Amore, che stazionò per quattro settimane al N° 1 della Hit Parade, I Started A Joke, ripresa nel 1998 nientemeno che dai (udite, udite!!!!) Faith No More che ne daranno un accorata interpretazione, per finire ad album ambiziosi come il monumentele doppio Odessa del ‘69.
Nel calderone dei Bee Gees non bollivano molti ingredienti: c’erano i Beatles, ovviamente, il pop ad altissimo tasso di vampe romantiche, un pizzico di Kinks, una leggerissima spruzzata, ma proprio un velo sottilissimo, di pop-rock, qualche reminiscenza folkeggiante, gli impasti sonori dei Procol Harum, le alchimie vocali e gli inni radiofonici degli Hollies. Insomma, un brodo di coltura molto coerente da cui nasceranno fiori meravigliosi per almeno cinque anni, ma anche una vera e propria bomba a orologeria nascosta tra quelle melodie che volavano ad alta quota, con gli ego dei tre fratelli che si gonfiavano smisurati ogni giorno di più, vischioso e fetido blob che rischiò di sommergere tutto. Quando le contraddizioni esploderanno la band si disintegrerà tra le nuvole. Il momento rancoroso ha origine nel ’69: pomo della discordia First Of May, ballad in collisione tra melopea natalizia e adamantino pop orchestrale contenuta in Odessa. Fu il singolo di maggior successo, ma fu anche la ragione per una velenosa rottura. La causa scatenante va ricercata nello stress dovuto al tempo trascorso in sala di registrazione, mentre l’agiografia preferisce attribuire il contrasto a diverse valutazioni sulla facciata del singolo in cui collocare la canzone: per Barry era quello il brano da inserire nel lato A, Robin avrebbe invece preferito puntare le sue fiches su Lamplight, altra perla che fa brillare l'album di luce speciale, che però venne relegato al lato B. Tale aneddoto, tuttavia, non fu che l’ultimo in ordine di tempo di una serie di dissidi che avevano iniziato a minare la compattezza della band: la classica goccia che fece traboccare il vaso, causando l’abbandono del sodalizio da parte di Robin, che, venendo meno al giuramento di cui si parlò alcune righe sopra, decise di intraprendere la carriera solista. Presto abbandonarono la baracca anche Petersen e Melouney. Una breve agonia e una morte ancor più rapida per il gruppo che molti avevano incoronato come i veri eredi dei Beatles.
Mentre Robin continuava ad essere l’inquilino più presente nei piani alti delle classifiche di vendita sia con il singolo Saved By The Bell che con il suo primo album solista Robin's Reign, Barry e Maurice, che conservarono la titolarità della sigla Bee Gees, rispondevano con l’ennesimo hit single, Don't Forget To Remember che continuò a mantenere le vendite cospicue tanto in mezza Europa quanto in Australia e Nuova Zelanda e l'album Cucumber Castle, che conteneva brani utilizzati per uno special TV con  il medesimo titolo. La separazione durò fortunatamente qualche mese soltanto e non diede vita ad una miserevole epopea in cui solitamente perdono tutti, come purtroppo è successo a troppe band (chi ha detto Pink Floyd?). Non fu insomma una storia che lascia in bocca un tale sapore di fiele per il male che di solito si fanno a vicenda i protagonisti, da non poter più ascoltare quelle canzoni senza che un rigurgito torni a sciupartele (ma insomma, chi ha detto Creedence Clearwater Revival?).
Quando nel maggio 1971 viene pubblicata How Can You Mend A Broken Heart, il momento di sbandamento è infatti già un ricordo dato che le controversie erano già state composte fin dall’estate dell’anno precedente. Barry e Robin Gibb hanno infatti scritto la canzone nel mese di agosto 1970 contemporaneamente a  Lonely Days che avrebbe visto la pubblicazione già nel novembre successivo con l’album 2 Years On. "Robin è venuto a casa mia", ricorda Barry ", e quel pomeriggio abbiamo scritto How Can You Mend A Broken Heart? che, ovviamente, era anche un’allusione al fatto che eravamo tornati insieme. Abbiamo chiamato Maurice per completare il brano, poi siamo andati in studio e ancora una volta, con un solo Broken Heart come una struttura di base e un'idea appena abbozzata per Lonely Days, siamo riusciti a terminare entrambe le canzoni che sono state registrate quella notte". Originariamente la canzone era stata offerta al crooner Andy Williams, ma hanno finito per registrala loro stessi. Barry spiega anche che: «Potremmo scrivere pensando ad un certo gruppo, in seguito potremmo appropriarci della canzone che ci si adatterebbe comunque perfettamente". 
Arrivati fino a quel punto della loro avventura, i nostri possono fare un bilancio della loro carriera ed è una contabilità di cui andar fieri: guardando a ritroso, a sei anni dall’esordio adulto e a quasi cinque dal loro rientro in madrepatria, i tre fratelli possono rimirare ciò che s’erano gia buttati alle spalle: otto album tutti gradevoli ed un pugno di canzoni dalla qualità strepitosa e riprese praticamente da tutti. La loro arma invicibile erano le melodie e le armonie vocali, non ancora condotte sul filo dei falsetti che tanta fortuna hanno poi portato al trio nell’era della disco music, ma talmente perfette che avevano pochi rivali nel mondo del pop.
Registrata a Londra il 28 gennaio 1971 e prodotta in collaborazione con Robert Stigwood, How Can You Mend A Broken Heart è una pain street che sembra volerci condurre lungo l’intero suo cammino di 3’58”, una canzone in cui a dominare è il pop puro e di classe superiore, quello che con gli opportuni aggiustamenti in chiave soul può anche trasformare una song come questa in una torch ballad che potrebbe fare la gioia di un Curtis Mayfield o di uno Smokey Robinson. Il risultato mozza il respiro e ti ulcera il cuore fin dalle prime note iniziali, costruite secondo dopo secondo da Robin e Barry: organo in sottofondo e chitarra simil country, raddoppio di tastiere con cinque note cinque di piano e due sole note di basso precise e ben assestate che nel loro quasi nulla dicono tutto, e ascoltare è come essere dentro quel niente. Sapete, uno di quei coup de foudre che ti dimostra come anche una sola nota nell’istante e nel modo opportuni sia spesso più efficace di tanti complicati fraseggi. E’ la semplicità da maestri che si raggiunge sfrondando il superfluo, con la convinzione che a determinare il valore di un brano non sia quanto metti dentro ma quel che lasci fuori. E poi gli echi costruiti intorno al crooning di cristallo di Robin Gibb che pare venire da un qualche lontano paradiso incantato e noi già belli e cucinati a dovere con il conta-tempo del lettore che ancora non è arrivato a 15 secondi. “Niente di che” avrebbe detto poi Robin Gibb “l’ho scritta in un’ora”. Un incipit riuscito per lui, la folgorazione per un giovane Al Green al di là dell’oceano che, avendo capito come il baroque soul della canzone fosse magnificamente in sintonia con le vibrazioni black del periodo, se la sarebbe cucita addosso come un abito di alta sartoria e l’avrebbe piazzata a far bella mostra di sé nel monumentale Let’s Stay Together dell’anno successivo.
Giusto il tempo di farsi catturare dalla melodia di questo inizio, e la canzone prende quota per arrivare al momento sublime quando il magico intreccio delle voci dei Gibb intona quel “we could never see tomorrow…” e allora pensi a Burt Bacharach o a qualche genio di Tin Pan Alley (1). O magari ai Beatles più lirici come quelli di Let It Be o The Long And Winding Road; oppure allo smisurato talento del Brian Wilson di Pet Sounds. Ché i riferimenti non possono essere che questi per un gruppo che fluttua in puro stato di grazia. Ma How Can You Mend A Broken Heart nasconde molto altro: ci riferiamo al ritornello, dolcissimo, delicatissimo, intensissimo, dove il vibrato di Robin non ha quasi un piano su cui poggiarsi senza tremare, per poi raddoppiare con una splendida innodia a due voci. Cose da specialisti di “alto pop”. Non meraviglia quindi che la canzone voli al primo posto nelle classifiche americane. Robin Gibb: “La stesura del brano non fu ne faticosa ne disagevole. Il tutto ha richiesto circa un'ora per essere completato. Il brano ha raggiunto il primo posto, con nostra grande soddisfazione". Fu dunque indiscutibilmente un successo How Can You Mend A Broken Heart, anche se nemmeno lontanamente paragonabile a Stayin’ Alive e a tutte le febbri del sabato sera, se per successo s’intende quella cosa delle classifiche di tutto il mondo occupate in pianta stabile, ma è una di quelle canzoni che, al contrario di molta della roba inquietante che dominava la radio (soprattutto italiana) di inizio anni ’70, ha preso a schiaffi il tempo e la caducità del business con la semplice arte della bellezza.
Mentre faccio mente locale su quanto appena scritto mi rendo conto di come nessuno tra le teste d’uovo della stampa musicale (almeno di quella italiana) abbia fatto mai gli accostamenti di qualche riga sopra e di come anzi i Bee Gees siano sempre stati un gruppo piuttosto vilipeso, quasi come fossero figli di un Dio minore. Di loro oggi sembra non ricordarsi più nessuno. Anzi, peggio: se li ricordano in molti, ma con imbarazzo. Pare non ci sia nulla di più uncool che citarli come propria influenza; e infatti nessuna band si sogna di farlo. Sarebbe come se un comico esordiente sostenesse di avere come modello Jack Lemmon. E dire che in questi anni si è rivalutato di tutto. I Bee Gees no, loro rimangono dei paria intoccabili. A volte invece non c’è nulla di più bello che riscoprire. Ben sapendo che c’è un modo dolce e segreto per farlo, senza mai aver dimenticato il sense of wonder che ci ha colto da adolescenti, quando la musica era un universo tutto da scoprire che si apriva davanti ai nostri occhi. Ma tant’è.
La canzone apre sontuosamente un disco come Trafalgar, uno pseudo concept-album, secondo come ambizione solo al monumentale Odessa, senza però eguagliarne la grandezza. Pseudo perché nessuno dei brani in esso contenuti ha attinenza con la celebre battaglia navale (2): non la title track che parla di solitudine e pene esistenziali, né Walking Back To Waterloo, nonostante il titolo potrebbe far pensare a Napoleone Bonaparte. Trafalgar non è infatti stato pensato come disco organico ma piuttosto come semplice raccolta di canzoni. L’album annega l’ascolto in scie di romanticismo tra voci dal suono di velluto ed un oceano di tastiere, e probabilmente questo è il suo limite. Ciò lo rende infatti piuttosto monocorde, un album che non tocca nuove e diverse terre ma che viceversa sembra proteso verso un’unica direzione. Non fraintendetemi: le canzoni, anche se nessuna raggiunge gli apici emotivi di How Can You Mend A Broken Heart, sono piacevoli, ineccepibili se ascoltate una per una. Qualcuna è addirittura un piccolo capolavoro, come accade per Don’t Wanna Live Inside Myself  (non a caso secondo sigolo tratto dall’album) che sembra guardare all’America ma lo fa con splendida malinconia, cavalcando il vento che le porta in dote un motivo preso a prestito da Helpless di Neil Young e da I Shall Be Released della Band; oppure come per Lion In Winter che colpisce con implacabile ferocia i sensi e la mente con l’ipnotico mezzo minuto iniziale di batteria e la voce straziata di Robin Gibb che se fosse una chitarra non esiteremmo a definire acidissima.
Ma a parte qualche impennata il clima generale di Trafalgar è piuttosto consolatorio e pericolosamente autoindulgente nei suoi 47 minuti (e ne esiste una versione extended pubblicata solo negli USA che con due brani aggiunti porta i minuti a 53) e francamente tre quarti d’ora di ballate e melodie à la Bee Gees, ancorché suonate e cantate impeccabilmente dai Bee Gees medesimi, all’ascolto risultano sinceramente faticosi. Se poi consideriamo come, eccettuata How Can You Mend A Broken Heart e poco altro, il programma non contenga nulla che mandi in orbita davvero, la raccomandazione di prendere il tutto a piccole dosi appare quanto di più sensato si possa consigliare al lettore.
Cio dimostra che anche se celebrati musicisti, geni del pentagramma, eroi generazionali, rockstar dall’ubiqua popolarità, quando non veri e propri miti, viventi e non, quando ne celebriamo musica e gesta è pur sempre di fallaci, terreni e fragili esseri umani che stiamo parlando. Pradigmatici in tal senso i tre Gibb: nel corso di oltre quarant’anni, l’odissea del gruppo a sfiorato vette olimpiche, ma è scesa anche per vallate assai meno attraenti che occorre misurare a grandi passi per trovare le prospettive meno anguste. Negli annali del pop inglese i Bee Gees sono diventati l’anello mancante tra i melodici con velleità sinfoniche, collocazione condivisa con Procol Harum e Moody Blues (tanto per fare due nomi) e la trasformazione di quei suoni in qualcosa di diverso, unendo con un trattino – come nella Settimana Enigmistica – innumerevoli puntini sonori che vanno dai Beatles al rock progressivo, alla dance.
Una canzone come How Can You Mend A Broken Heart  è uno tra i più importanti di quei puntini che testimonia lo stile di una band che ha assimilato la lezione dei crooner più languidi e che sente di poter guardare dritto negli occhi quei maestri perchè sa di aver creato qualcosa di nuovo ed eccitante. Strappalacrime? Barocca? Decadente? Zuccherosa? Ruffiana? Sì, tutto vero: e allora? Allora succede che ci piace anche a 45 anni di distanza. Perché la magia teen del “pop d’amore” è eterna.
Se poi qualcuno vi dirà che, in fondo, quelle dei Bee Gees erano, più o meno, solo zuccherose canzonette, lasciatelo parlare. Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.


(1) Con Tin Pan Alley (cioè "Vicolo della padella di stagno") s’intende il nome dato all'industria musicale esclusivamente newyorkese che era egemone rispetto all’intero mercato della musica popolare USA. In seguito tale termine diventò omnicomprensivo e riguardò anche quella del resto del paese. I suoi confini temporali sono compresi tra la fine dell’ottocento (1885) e l’inizio del novecento (attorno al 1930), quando la Grande Depressione e l'avvento di radio  e riproduzione a mezzo disco posero fine al dominio degli editori musicali. Altri prolungano l’era di Tin Pan Alley agli anni ‘50 e fanno coincidere la sua fine con l'avvento del rock and roll. Il singolare nome pare trovi origine nella cacofonia del suono di più pianoforti, che dalle sale prova fuoriusciva dalle finestre per poi riversarsi nelle strade (alley è il nome con cui vengono designati i tipici vicoli newyorkesi). Tale suono ricordava quello che si otteneva percuotendo delle padelle di stagno. La Tin Pan Alley aveva sede nella 28esima strada Ovest tra la Quinta e la Sesta Avenue. Uno dei nomi più conosciuti associato a Tin Pan Alley è senza dubbio quello di George Gershwin che negli studi lavorava come song plugger, un pianista che suonava le nuove canzoni per promuovere la vendita degli spartiti.




(2) Quella di Trafalgar fu una celeberrima battaglia navale che si combattè durante la guerra della terza coalizione, parte delle guerre napoleoniche. Il 21 ottobre 1805 la Royal Navy si trovò di fronte la flotta alleata franco-spagnola nell'Atlantico al largo della costa sud-occidentale spagnola, ad ovest di Capo Trafalgar nei pressi di Los Caños de Meca (Cadice). La flotta britannica riportò la vittoria navale più decisiva dell’intera guerra. Ventisette vascelli da guerra britannici, al comando dell'ammiraglio Horatio Nelson che dirigeva le operazioni da bordo della HMS Victory, sgominarono trentatré navi da combattimento franco-spagnole, agli ordini dell'ammiraglio francese  Pierre Charles Silvestre de Villeneuve. La flotta alleata perse ventidue navi, senza che un solo vascello britannico venisse affondato. Avete capito adesso perché Trafalgar Square è la piazza che viene considerata il cuore di Londra?

Mauro Rollin’ On The River Uliana

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