martedì 16 giugno 2020

The Band - Band (1969)



Soltanto due possono essere i motivi (contrapposti) che inducono un gruppo musicale ad adottare la denominazione di "The Band" come ragione sociale: una laconicità di linguaggio che si esprime a livelli esasperati, oppure un'autovalutazione talmente alta e radicata da ritenere se stessi gli unici degni di poter esibire una siffatta, impegnativa sigla. Nel caso della Band, la solida reputazione che si costruiranno nel tempo presso la comunità rock questi quattro canadesi più un americano, nonché le frequentazioni più che qualificate che arricchiranno il loro carnet (Bob Dylan su tutti) fanno propendere per la seconda ipotesi. Del resto non sono molti i gruppi che possono vantare un addio alle scene tanto fastoso come quello messo in piedi da loro con The Last Waltz: concerto/evento al glorioso Winterland di San Francisco tenuto nel giorno del Ringraziamento del 1976, cui partecipa una buona fetta del gotha rock mondiale lì convenuto a render loro omaggio, monumentale (bellissimo) triplo album celebrativo (oggi addirittura quadruplo CD) e relativo film diretto da "Sua Regia" Martin Scorsese. Con queste pagine intendiamo erigere adeguato peana a The Band, secondo fondamentale album che da sempre si gioca con Music From Big Pink il ruolo di migliore disco del gruppo. Per questo tralasciamo volutamente la storia dettagliata degli inizi alla corte di Ronnie Hawkins con la vecchia denominazione di The Hawks e tutti i particolari dell'incontro con Dylan che li porterà addirittura ad accompagnare il menestrello di Duluth sul palco della Royal Albert Hall, storia che riprenderemo in occasione della recensione del loro esordio adulto, quel Music From Big Pink del 1968 appena citato (e questa è una solenne promessa). Planiamo dunque senza scali su un 1969 già più che denso di avvenimenti. Prima di farlo, però, consentitemi due soldi di presentazione, tanto per avvicinarci alle biografie (alquanto affascinanti, peraltro) dei cinque pards; il tutto ovviamente ad uso e consumo di quei tre o quattro (o sono di piu?) che pensano che il rock sia nato con X-Factor. Robbie Robertson (5 luglio 1943), chitarrista in organico fin dal 1960, ai tempi degli Hawks, è uno dei quattro canadesi e s'impone presto come autore e leader maximo. La madre è una donna indiana con nelle vene sangue Irochese e Mohawk, ascendenze che non potevano essere ignorate e che diventeranno vere e proprie influenze, per poi penetrare in maniera carsica anche nella sua carriera solista, in particolare nell'affascinante Contact From The Underworld Of Redboy del 1988. Il padre è invece un giocatore d'azzardo ebreo che morirà in un banale incidente stradale. Pensate il colmo della sfiga: verrà falciato via da un'auto che gli piomba addosso mentre sta cambiando una gomma sul ciglio della strada. Il giovane Robertson verrà avviato allo studio dei primi rudimenti sulla chitarra dai membri della famiglia che vivevano nella Riserva delle Sei Nazioni, non troppo distante da Toronto, e diverrà fan del rock 'n' roll in particolare ascoltando tutte le stazioni radio su cui riusciva a sintonizzarsi. Rick Danko (29 dicembre 1943 - 10 dicembre 1999), bassista e violinista innamorato del country, nasce un pò più a nord di Toronto (appena fuori la città di Simcoe, per la precisione) in una famiglia di origini ucraine, ma quel che più conta è un enfant prodige, avendo iniziato ad esibirsi di fronte ai compagni di scuola già alle elementari ed avendo formato una propria band fin dall'età di 12 anni. E se pensiamo che a 17 anni già apriva gli spettacoli per Ronnie Hawkins, suo futuro datore di lavoro, che si trattasse di un talento più che precoce è il minimo che si possa dire di lui. Garth Hudson (2 agosto 1937), anche lui dell'Ontario, è il più anziano del gruppo. Un'infanzia ed un'adolescenza dedicate alla musica in maniera totalizzante con un periodo di classica studiata al conservatorio, che però abbandona dopo un anno frustrato dalla rigidità del repertorio. Valente e stimatissimo multistrumentista (piano, tastiere varie, ogni tipo di sax e fisarmonica, ma soprattutto organo Lowry, di cui è un vero maestro, mentre il resto dei colleghi è stregato dall'Hammond),  entra negli Hawks nel 1961 a due condizioni: che Hawkins gli compri un organo Lowry e che inoltre gli paghi un extra di dieci dollari a settimana per insegnare a suonare al resto del gruppo. Ma la verità vera ed inconfessabile è che quei dieci dollari gli servono per convincere i rigidi genitori che i suoi anni di educazione musicale non sono sprecati suonando in una di quelle band di depravati rock 'n' roll! Richard Manuel (3 aprile 1943 - 4 marzo 1986), quarto canadese del gruppo, era il pianista e la voce principale della Band, ma soprattutto ne era l'anima tormentata. Una vita vissuta nella dipendenza di alcol e droghe, fino al momento in cui verrà sopraffatto dal mal di vivere e dalla corda con cui si impicca nel 1986, dopo un concerto della Band in Florida. Arriviamo finalmente a Levon Helm (26 maggio 1940 - 19 aprile 2012) l'unico americano del gruppo. Batterista, nativo dell'Arkansas come il suo datore di lavoro Ronnie Hawkins, si unisce a lui appena diciassettenne, diventando la trave portante dell'edificio Hawks/Band. Porta in dote al sodalizio la testimonianza oculare degli spettacoli cui aveva assistito giù nel profondo sud (Elvis prima che diventasse un fenomeno internazionale, il patriarca del bluegrass Bill Monroe, l'armonicista Sonny Boy Williamson II e millanta spettacoli di strada che animavano la provincia americana). Sarà questa miniera di influenza diverse, saranno tutte quelle musiche delle radici unite ad un'infinità di storie rurali e di frontiera il motore che Levon porta in dote ai compagni, che mischiato alla loro sensibilità darà vita al melange sonoro unico ed inimitabile della Band. Un paesaggio delle meraviglie che il batterista trasporterà pari pari anche nella sua felice produzione solista: riscoprite se potete album fascinosi come Levon Helm And The RCO All-Stars, debutto del 1977, American Son del 1980 ed i due omonimi Levon Helm del 1978 e del 1982. Ma anche i due licenziati nel nuovo millenio: Dirt Farmer del 2007 ed Electric Dirt del 2009. Vogliatevi bene e fatelo. Non sorprendetevi però se questi dischi diverranno presenza inamovibile del vostro impianto stereo.  Pagato, come è giusto, il dovuto prezzo alla filologia, riprendiamo le fila del discorso e torniamo al 1969 di The Band. Quell'anno i nostri sono reduci dal successo e dal coro di lodi sperticate all'indirizzo di Music From Big Pink dell'anno precedente. Quell'album di esordio era stato registrato nella cantina della celeberrima Big Pink, una villetta nella quiete bucolica dei boschi attorno a Woodstock, affittata dal gruppo per stare vicini a Bob Dylan con cui era in atto una collaborazione a pieno regime e che aveva scelto di isolarsi nel suo buen retiro dopo l'incidente motociclistico in cui aveva rischiato di morire alla fine del 1966. Le registrazioni, in un'atmosfera pigra e rilassata, avvennero nel fatale basement della casa: proprio quello degli altrettanto fatali tapes che mettono in fila tutti i linguaggi musicale imparati nel tempo e che verranno pubblicati sotto forma di doppio LP nel 1975. Lontani dalla stampa, lontani dalle droghe, lontani dalle tensioni del music business, già alla fine del 1968 i nostri iniziano a pianificare e comporre la musica per il secondo album che uscirà a settembre 1969. Dopo alcune infruttuose session di registrazione a New York, nella primavera del '69 s'involano verso Los Angeles, dove, tra le colline di Hollywood e contrariamente ai desiderata della Capitol che avrebbe voluto che le sessioni si fossero svolte nei suoi blasonatissimi studios di Los Angeles, avevano affittato una casa di proprietà di Sammy Davis Jr. che una volta aveva visto aggirarsi tra le sue pareti perfino la figura leggiadra di Judy Garland. E' lì, tra i dolci declivi che circondano la Mecca del cinema, che i cinque riescono a ricreare quell'atmosfera da workshop che aveva propiziato la nascita di Music From Big Pink. Ed è lì che la Band da vita ad un secondo album che va dritto al cuore. 12 canzoni dal songwriting che più maturo non si potrebbe e dallo storytelling che possiede gli aromi dei Grandi Miti Americani: il vecchio west, la frontiera, la guerra civile, i cowboys e gli indiani. Dopo due sole uscite discografiche Robbie Robertson e compagni entrano nel mito. Mito la cui solidità viene ancor più rafforzata un mese prima della pubblicazione di The Band, quando, nell'agosto 1969, i cinque sono sul palco davanti ai 500.000 di Woodstock a dare il battesimo del fuoco a quel loro personale risorgimento della roots music, quella che oggi tutti chiamano "Americana" che loro contribuiscono a codificare una volta per sempre.  Non sono in molti a saperlo perché a causa di complicazioni legali non compariranno né nel film di Michael Wadleigh, né nel triplo album dell'Atlantic che documenterà l'avvenimento, facendo della presenza della Band il segreto meglio custodito della 3 Giorni di Pace Amore e Musica. Ma tranquilli, toglietevi dalla faccia quell'espressione disperata e rallegratevi perché a scongiurare la probabile iattura dell'oblio, lo scorso anno è giunta opportuna la ristampa di The Band nell'edizione in doppio CD per il 50° anniversario, dando a chiunque la possibilità di percorrere in uno dei due dischetti la trama pulsante dell'integrale esibizione dei nostri eroi che pensavamo perduta per sempre. Diario on stage di un grande gruppo che si stava accingendo a diventare grandissimo.                                       


(Continua)                             Mauro Rollin' On The River Uliana

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