martedì 16 giugno 2020

Perfectly Good Guitar - John Hiatt (1993) IN LAVORAZIONE



Con pochi artisti la critica si è trovata tanto concorde nel plauso come con John Hiatt. Del personaggio, lungo l'intera vicenda artistica più che cinquantennale, si è sempre apprezzata la capacità di mantenere costantemente alto il valore della sua produzione, la diligenza stilistica, la rigorosità dell'approccio. Insomma, oggi John Hiatt è uno dei rari esempi il cui solo nome è garanzia di qualità, uno su cui si può fare affidamento ad occhi chiusi, sulla fiducia, sulla sicurezza che anche acquistando un suo disco a scatola chiusa non si correrà il rischio di rimanere delusi. 
Tanto suonava valido fin dal suo esordio discografico del 1974 per la Epic, quell'Hangin' Around The Observatory inciso sostanzialmente in trio a Nashville che conteneva Sure As I'm Sittin' Here, mid-tempo dal mood alla Little Feat che lo stesso anno i Three Dog Night, popolarissimo gruppo perfetto epitome del neologismo pop-rock, nonché votato alla decodificazione per le masse di brani altrui provenienti dalle più disparate fonti, porteranno nei piani alti delle classifiche. La versione del nostro, come del resto l'album che la contiene, ovviamente non vende, in compenso la critica si accorge di questo ventiduenne di Indianapolis dalla voce virtuosa e coloratissima che mischia come uno chef pluristellato tutti gli ingredienti necessari per cucinare quel sapido piatto di roots music ben temperata oggi conosciuto come "americana".
L'insuccesso non lo fiacca e l'anno successivo il nostro sforna, sempre su Epic, Overcoats, disco che ribadisce le coordinate del precedente (stesso produttore, l'esperto Glen Spreen, deceduto nel 2016) avvalendosi di un più nutrito parterre di ospiti tra i quali spiccano la country singer Tracy Nelson e, alle marimba, Gene Estes, "pretoriano" storico della Wrecking Crew di Phil Spector. Pur essendo Overcoats disco di riconosciute virtù, le classifiche continuano ad essere territorio off-limits. La conseguenza inevitabile è che la Epic rescinde il contratto e lo lascia a spasso. Avrebbe potuto essere la pietra tombale sulla carriera di John Hiatt, tanto più che la traversata del deserto che l'artista si stava apprestando ad affrontare sarebbe durata ben quattro lunghissimi e insopportabili anni. Ma il nostro non è tipo da lasciarsi abbattere, anche perché, nonostante la giovane età, le avversità della vita avevano già iniziato a forgiarne il carattere. Nel 1961, all'età di nove anni, John è costretto a vivere la traumatica esperienza del suicidio di Michael, il fratello ventiduenne, e due anni dopo deve dire addio anche al padre che si spegne dopo una lunga malattia.
I quattro anni in cui i discografici lo tengono a pane e acqua John li passa ad affinare la propria arte e a guardarsi intorno facendo proficuo tesoro di tutti gli stimoli cui viene esposto. Sono gli anni in cui sale al proscenio una nuova generazione di musicisti inglesi contemporanei al punk che stanno dando vita a quel particolare sottogenere definito pub rock. I nomi sono di assoluta rilevanza: Elvis Costello, Graham Parker, Nick Lowe, e Hiatt si disseta con avidità alla loro fonte. Con Lowe in particolare ci sarà una continua, fruttuosa interazione che porterà nel 1992 i due artisti a far comunella nell'effimero progetto Little Village assieme a Ry Cooder e Jim Keltner.
I segni lasciati da quegli ascolti sono nitidamente udibili in Slug Line, album con cui l'artista rompe il silenzio nel 1979 grazie ai buoni uffici della MCA che nel frattempo l'aveva messo sotto contratto. Prodotto da Danny Bruce, storico batterista della prima incarnazione delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, Slug Line sembra infatti più un album inglese che americano. La voce di John acquista inflessioni che lo fanno assomigliare ad una sorta di creatura bifronte, mezzo Costello mezzo Graham Parker; il reggae, che proprio in quel momento stava spopolando in terra d'Albione, diventa un linguaggio che l'artista adotta con entusiasmo aggiungendolo ai cromatismi della sua tavolozza e, ciliegina sulla torta, ad occuparsi dei tamburi vengono assunti B.J. Wilson che molti ricorderanno come batterista degli inglesissimi Procol Harum e che di lì a non molto legherà il suo nome a Joe Cocker, e Jerry Conway, da sempre legato a doppio filo al quel giro del folk inglese che va dai Jethro Tull, ai Fairport Convention, ai Pentangle (la cui cantante Jacqui McShee ne è la moglie), agli Steeleye Span, a Cat Stevens. L'album, ancora una volta, non vende molto, anche se va segnalato come Hiatt riesca inaspettatamente ad assurgere al rango di oggetto di culto in Olanda, dove va a costruirsi una solida base di ammiratori in virtù delle ottime recensioni riservategli dalla stampa musicale di quel paese. 
Forse è per questo che la MCA tiene nel cassetto la lettera di licenziamento e gli concede tempo e budget per incidere un altro disco. E' così che nel 1980 si materializza Two Bit Monster, album potente, vitaminizzato nel suono, votato ad un rhythm'n'blues che vede in certo Bruce Springsteen sudato ed in tutta la ghenga del Jersey Shore un solido punto di riferimento. Con ogni probabilità non è estranea a tutto questo nuovo innamoramento la turnée olandese, con annessa esibizione in quella sorta di tempio votivo per tutti i "rockmaniaci" del Mare del Nord che è il Paradiso di Amsterdam (ci hanno suonato perfino i Rolling Stones), affrontata come gruppo di spalla ai jerseyani Southside Johnny & The Asbury Jukes.
Nemmeno Two Bit Monster vende, ma John ormai si è fatto una reputazione come autore e nel 1982 compone con Ry Cooder e Jim Dickinson la struggente Across The Borderline, oltre 6 intensissimi  minuti di lento tex-mex che finiranno nella colonna sonora di The Border dello stesso Cooder. Quel che però più conta - almeno commercialmente parlando - è che la canzone entrerà nel repertorio di gente come Willie Nelson, Willy De Ville e Paul Young che la includeranno nei loro rispettivi album e ancor più gaudio e tripudio sarà quando infioreranno con essa i loro spettacoli dal vivo due santoni bound for glory come Bob Dylan e Bruce Springsteen. 
Nel frattempo la Geffen assorbe la MCA e il nostro si ritrova a far parte della scuderia della nuova etichetta, con la quale pubblicherà tre album tra il 1982 e il 1985. Il primo è All Of A Sudden, disco in cui l'artista organizza una ricerca di sonorità più moderne affidandosi ad un vecchio marpione come Toni Visconti, bella figura di "operatore pop" che già aveva potuto mettersi in mostra con i suoi oltraggi decadenti fin dai tempi eroici chez David Bowie. L'album è buono anche perché ormai il John Hiatt autore riesce ad elaborare soluzioni compositive sempre meglio articolate. Non tutti però sembrano apprezzare i vestiti luccicanti con cui la maison Visconti veste le canzoni.
Questo provoca un ripensamento in Hiatt che per Riding With The King, seconda uscita Geffen pubblicata nel 1983, rivede parzialmente le proprie convinzioni. Il più evidente dei cambiamenti è l'assunzione di ben tre produttori: ai primi due, Scott Mathews e Ron Nagle, viene affidata la cura sonora della prima facciata - con Mathews che suona tutti gli strumenti tranne la chitarra - al terzo, che altri non è che Nick Lowe, quella della seconda. Se Lowe non ha bisogno di presentazioni, lo stesso non può dirsi di Scott Mathews e Ron Nagle. Il primo è un produttore di lungo corso e di successo, una sorta di Re Mida abituato a lavorare in produzioni da decine di milioni di copie che però non ha mai disdegnato di gettarsi in qualunque situazione funzionale a fargli acquisire qualunque tipo di esperienza sul campo (anche i jingles pubblicitari fanno parte del suo curriculum), mentre Nagle, amico e collaboratore di Mathews fin dagli anni verdi, è un creativo multimediale che, oltre alla musica, ama affidare le proprie emozioni anche alla scultura.
Un rimaneggiamento di collaboratori che ha come conseguenza la revisione e la correzione di quel rock passionale e socialmente consapevole che dai rebels with a cause del Jersey Shore a Bob Seger a Tom Petty aveva già informato di sé Two Bit Monster. Analogamente alle volte precedenti, anche Riding With The King non buca le classifiche seppur incondizionatamente apprezzato dagli "esperti" del settore, in particolare da  Robert Christgau, decano del giornalismo rock americano che così si esprime al riguardo: "Questo è il suo miglior album perché le canzoni sono le sue più orecchiabili e concise. La maggior parte di esse esprime speranze infrante." 
Cotanto viatico è evidentemente sufficiente a commuovere la Geffen che decide di offrire a John una terza opportunità. Ma se l'artista gode di ottima salute, non altrettanto può essere detto dell'uomo, perlomeno a livello psichico. La continua, sfiancante ricerca di un successo che non arriva mai mette a dura prova la resistenza e l'equilibrio di John che inizia a lasciarsi andare scivolando velocemente nel buio tunnel della droga e dell'alcol. Ma questo è ancora niente a confronto di ciò che la vita terrà in serbo per il nostro uomo. Nel 1984 John diventa padre di Lilly, motivo sufficiente per scaricarsi di dosso la "scimmia" dei veleni iniettati o ingeriti. Sembra il momento della rinascita (dell'uomo, ché l'artista non era mai morto), ma pochi mesi dopo aver dato alla luce la bambina, come già ai tempi della morte del fratello, la moglie si toglie la vita lasciandolo padre single. John è costretto così per la seconda volta a sbattere violentemente il muso contro il suicidio di qualcuno che ama. In queste drammatiche condizioni è difficile capire come riesca a portare a termine Warming Up To The Ice Age, settimo album che vede la luce nel 1985.
Prodotto dall'espertissimo Norbert Putnam, session man dei Muscle Shoals e poi a fianco di tutti i più grandi, da Elvis Presley a Roy Orbison a Dan Fogelberg a J.J. Cale a Tony Joe White alla Nitty Gritty Dirt Band a Donovan ai New Riders Of The Purple Sage, l'album è un robusto compendio di rock d'autore figlio del proprio tempo. Come nel quasi coevo, springsteeniano Born In The U.S.A., infatti, in Warming Up To The Ice Age gli anni ottanta si sentono tutti: dalle tastiere al suono della batteria al secco scandire del basso, tutto rimanda a ciò che dettava la tendenza dell'epoca. Il che, si badi bene, non è di per sé un male: sarebbe come giudicare negativamente Sgt. Pepper dei Beatles perché suona troppo anni '60 o The Dark Side Of The Moon dei Floyds per il sound troppo anni '70. E' un disco che vuol piacere e per farlo mette in campo tutti gli strumenti a disposizione per vellicare le orecchie del pubblico del periodo. Ciononostante l'obiettivo classifiche viene ancora una volta sconsolatamente mancato. A nulla serve il cameo di Elvis Costello ospite in Living A Little, Laughing A Little che completa al meglio la coreografia: il disco, pur avendo tutti i numeri necessari, non sfonda e questa volta la Geffen scarica Hiatt.
Sembra finita per lui: senza contratto, senza la donna della sua vita, con una bambina piccola da accudire e in sovrappiù, nel corso del 1985, anche la morte della madre che aggiunge tragedia a tragedia. Il tutto appare come un drammatico dejà vù della pre-adolescenza di John: esattamente la stessa funesta sequenza di avvenimenti, solo con i protagonisti cambiati. Pare un tremendo incubo e John si trova ad un passo dal soccombere all'accanimento dei drammi che lo stanno travolgendo.
Ma evidentemente lassù qualcuno ama John Robert Hiatt. Come altrettanto evidentemente qualcuno che lo ami esiste anche quaggiù. Questo qualcuno si chiama Ry Cooder, l'amico di sempre che gli sta vicino e lo aiuta a rimettere insieme i cocci della sua vita. A John ormai rimane solo la musica e sarà proprio la musica la salvifica medicina adoperata da Cooder per riportare un poco alla volta in vita quello che sembrava un uomo perduto davvero. Tanto più che tanti erano i ponti che John si era tagliato dietro le spalle con l'industria discografica in quei due anni tremendi, da portarlo a pensare che non ce l'avrebbe mai più fatta: "Mi chiedevo se non valevo un'accidente".  
Ma l'artista aveva seminato bene e questo avrebbe pagato. Infatti esisteva nella discografia ancora più di un sincero estimatore pronto a metterlo sotto contratto. Uno di questi era l'inglese Demon Records, un'etichetta che amava alla follia il suo lavoro al punto da promettergli 30.000 dollari se avesse registrato con loro il nuovo album. Un'iniezione di fiducia che qualche anno dopo, interrogato sull'argomento, avrebbe portato John a fargli dire: "La Demon mi avrebbe pubblicato anche se avessi cantato sotto la doccia o avessi scoreggiato nella vasca da bagno".    
Ma non sarà la Demon ad aggiudicarsi John Hiatt. Sedate le tempeste interne e ritrovata la serenità famigliare, John si accasa tra le accoglienti braccia della A&M, quindi segue Cooder in sala di registrazione ed in soli quattro giorni incide il suo capolavoro. Bring The Family esce il 29 maggio 1987 e lascia il mondo intero letteralmente senza fiato.
Il motivo è evidente già al primo ascolto: le canzoni hanno una forza espressiva che è quella tipica dei grandi album rock'n'roll. Recuperata voglia e ispirazione, l'uomo di Slug Line e di All Of A Sudden si accomoda finalmente fuori dalla mischia dei "precari" che han problemi di moda e di tenuta discografica. In Bring The Family vengono cassate senza troppi rimpianti quelle inflessioni "ottantesche" che indussero l'artista e metter le penne della moda corrente, tanto che, quantunque manchino ancora tre anni alla fine del decennio, il disco può essere dichiarato ufficialmente il primo grande album degli anni '90, un decennio (forse l'ultimo) che tanta linfa vitale inoculerà nelle vene del rock.
Il risultato viene ottenuto seguendo le direttive della Dea Semplicità: un piccolo combo di amici - oltre a John, Ry Cooder, Nick Lowe e Jim Keltner, in pratica un'anticipazione del Little Village - e un nuovo album da adorare allieterà le giornate di pubblico e addetti ai lavori. Arrivano cosi copertine sui maggiori magazines musicali (anche su quelli italiani), dove la faccia ossuta di John ed i suoi occhi penetranti diventano familiari anche al di fuori del cerchio ristretto del pubblico specializzato. Eppoi Bring The Family vende, vende, vende. Vende al punto da tirarsi dietro il vecchio catalogo, mentre per il futuro fungerà da punto di partenza che inaugura una serie di ben nove album consecutivi che centreranno l'obiettivo dei Top 200 di Billboard.
Quando nel 1988 esce Slow Turning, il secondo capitolo di questa nuova vita discografica dell'artista, e Tennessee Plates, ivi contenuta, finisce nella colonna sonora di Thelma & Louise, si capisce senza troppi giri di parole a quale livello di reputazione e notorietà fosse assurto il suo autore. Dire che Slow Turning è un grandissimo album rock non è sufficiente a dare l'idea della meraviglia e della vitalità che sprizzano da ogni suo singolo solco. Prodotto da un'autentica leggenda come Glyn Johns - vero "topo" di studio che ha lavorato praticamente con tutti su entrambe le sponde dell'Atlantico - il disco, oltre ad essere baciato da un ispirazione rara, aggiunge fascino a fascino grazie alla riverita presenza di almeno un paio di eminenti "invitati" come l'ex Eagle Bernie Leadon ed il re della chitarra slide Sonny Landreth. Il fatto poi che qualche solone dell'italica critica, stronzetti dalla parte inferiore del naso maleodorante e il sopracciglio alzato, gente un po' dandy, un po' snob, abbia sentenziato che "sì sì, bello, per carità, ma non raggiunge il livello del disco precedente", ci induce a seguire il perennemente valido consiglio del Sommo Poeta che saggiamente così recita: "Non ti curar di lor ma guarda e passa".
Produttore che vince non si cambia. Fedele a questa massima, nel 1990 l'artista varca lo studio di registrazione ancora al fianco di Glyn Johns. Ne uscirà con Stolen Moments, disco che ricalcando in sostanza le coordinate del precedente, gratifica gli esegeti che infatti rispondono puntualmente facendone il suo disco fino a quel momento più venduto. Refrattari a farci coinvolgere in qualsivoglia querelle sull'essere Stolen Moments disco superiore o meno al suo predecessore (in fondo è veramente una pura questione di gusti), preferiamo piuttosto annotare diligentemente la presenza tra i solchi di alcuni personaggi di spicco che stavano folgorando felicemente il rock a stelle e strisce come il tastierista Bill Payne ed il compianto batterista Richie Hayward, entrambi protagonisti dell'avventura Little Feat e l'organista Chuck Leavell, prima impegnato a dar di blues rock con gli Allman Brothers Band e poi emigrato nei Sea Level a definire un'elegante svolta fusion.
Nel 1992 il nostro sente il desiderio di tornare a seguire le illuminate rotte del Bring The Family che fù. Un fischio a Lowe, Cooder e Keltner ed il nuovo disco dell'artista comincia a delinearsi. Questa volta però vien deciso di battezzar con nome proprio quel cenacolo di virtuosi. L'ispirazione arriva da una canzone di Sonny Boy Williamson II che di titolo fa Little Village ed ecco che una brand new band è pronta a salpare per i procellosi mari del rock. L'omonimo disco che ne consegue è opera briosa, radiofonica quando con tale termine si intende salta in macchina, apriti una lattina di birra, accendi lo stereo e parti verso l'orizzonte abbandonandoti ad una colonna sonora che ti farà sentire forever young. E chi osa criticare, peste lo colga.
C'è molta aspettativa nei confronti del disco. Troppa. E infatti, come spesso succede in analoghi casi, Little Village non vende com'era lecito aspettarsi, portando alla fine prematura del sodalizio. Ma Hiatt ha ormai preso la strada verso "qualcosa di selvaggio", Something Wild come fa orgoglioso manifesto la traccia di apertura del suo nuovo album Perfectly Good Guitar che, nel 1993, all'apogeo del grunge, segna l'avvicinamento dell'artista a quelle tribù di scapigliati giovanotti che dalle parti di Seattle stanno abbattendo il "tempio" per ricostruirlo seguendo nuovi, più rumorosi elaborati.



"Ascolto spesso nastri di giovani band che mio figlio mette in macchina quando lo accompagno a scuola al mattino. Musicalmente sono rimasto un po' fermo in questi anni, così, tramite mio figlio, ho potuto riaprire le orecchie. Mi piacciono questi giovani gruppi dove ci sono dei ragazzi che cantano e che anno il suono e l'aspetto di gente normale, invece delle solite rockstars da baraccone. E tutta questa gente usa le chitarre, tre accordi e via".
Tira un vento forte di chitarre sature e ugole alla carta vetrata tra i giovani "garagisti" della Generazione X. Tanto forte che anche ai piani alti delle major discografiche non possono più far finta di non sentire. E' il 1993 e il grunge si è ormai imposto con la potenza di un uragano. Seattle è la terra promessa e Kurt Kobain il pied piper che tutti i kids seguono irretiti dall'impeto irrefrenabile della sua Fender Mustang. Ogni tanto però anche qualche 40enne presta orecchio a quei "fragori", e quando questo succede di solito accadono cose molto singolari. Singolari e meravigliose. Se poi il 40enne in questione è uno che ha la capacità di tradurre in capolavori buona parte di ciò che capita a tiro delle sue orecchie, come John Hiatt, la nascita di una nuova pietra miliare che marcherà con inchiostri indelebili il tortuoso percorso della storia del rock è praticamente assicurata. Nel 1993 Hiatt di anni ne ha 41 e già nelle precedenti uscite non si era mai tirato indietro quando la situazione aveva richiesto di pompare watt dagli altoparlanti. Mai come questa volta però la convinzione che il suono di una "chitarra perfettamente buona" sia ciò di cui ha assoluto bisogno si era fatta così radicata. Eppoi è più che naturale che il nostro voglia dimostrare a Rob, il figlio 15enne, gli ascolti dei dischi più à la page del quale tanto lo hanno stuzzicato, che daddy John non è ancora pronto per appendere la chitarra al chiodo.
Ed è proprio da una raccomandazione del ragazzo che porta all'attenzione del padre uno dei suoi gruppi preferiti, i californiani Faith No More, che prende il via l'operazione Perfectly Good Guitar. John contatta Matt Wallace, produttore che può garantire una qual mallevadoria negli ambienti dell'alternative rock avendo già lavorato, oltreché in tutti gli album più iconici dei Faith No More, anche con i Replacements ed al primo album solista di Paul Westerberg, leader e cantante della band di Minneapolis. Wallace caldeggia l'ingaggio di due componenti di un paio di quelle band alternative che tanto stavano stimolando il "clitoride" del rock: uno è Brian MacLeod, batterista dai polsi di quercia che milita nei Wire Train, l'altro è Michael Ward, sanguigno chitarrista degli School Fish. A completamento dell'organico vengono reclutati John Pierce (ex bassista dei Pablo Cruise), Dennis Locorriere, chitarrista e cantante dei Dr. Hook (ex Dr. Hook & The Medicine Show. Ricordate Sylvia's Mother?) e Ravi Oil (al secolo David Immergluck), multistrumentista in carico ai Counting Crows e già membro di Camper Van Beethoven e Monks Of Doom.
Non c'è che dire, una bella compagine di anime "elettrificate", quella messa in piedi da Hiatt e Wallace. Per catturare con straordinario tempismo i modelli della nuova cultura giovanile. Per nutrire di rock, piglio giovanilistico e vitamine grunge, il disco di uno straordinario 41enne che non intende assolutamente ossidarsi alla ruggine di younghiana memoria che, come sanno ormai anche i sassi, non muore mai. 
Link, quello riferito al canadese, quanto mai giustificato, date le affinità elettive (e sonore, va da sé) che accomunano i due artisti in questa particolare fase delle rispettive carriere. Laddove, infatti, Young, dopo la "strana" e straniante stagione delle irrituali sperimentazioni di metà anni '80, si trova più ricettivo che mai nel bel mezzo di un maelstrom di uscite discografiche, felici e perfettamente in sintonia con i tempi, che iniziano con Freedom del 1989 per poi continuare con Ragged Glory del '90 e Harvest Moon del '92 ed infine concludersi con lo Sleep With Angels del '94, espressamente dedicato alla memoria dell'appena scomparso Kurt Kobain e con il Mirror Ball dell'anno successivo, dove ad accompagnarlo ci saranno addirittura i Pearl Jam al gran completo, dal canto suo Hiatt, contagiato dalla medesima temperie creativa, si getta con l'entusiasmo di un ventenne in Perfectly Good Guitar, in cui il vento della musicanova sembra portarselo via con sé come farebbero le raffiche d'autunno con una foglia indifesa. Ne consegue, dunque (e quindi nessun stupore come ha scioccamente manifestato qualcuno, lamentandosene), che le "buone chitarre" che infiammano i solchi nelle sopracitate, eccelse pagine del canadese, vengano replicate con egual veemenza (e suono, e stile, e colorazioni) nell'album di Hiatt.
La prima cosa che salta all'orecchio ascoltando il disco, così diretto, senza troppi fronzoli, con le chitarre che folgorano felicemente la musica, "tre accordi e via" come ebbe ad osservare John e come usa nei ranghi dell'opposizione Sub Pop o tra i beati della Chiesa di Aberdeen, Stato di Washington, è che si sente come le canzoni siano state portate a termine nel minor tempo possibile, come dire, buona la prima. Infatti John ha trascorso solo due settimane in studio per incidere tutto, altri 15 giorni sono bastati per il missaggio conclusivo ed in un solo mese Perfectly Good Guitar era bell'e sfornato.
Non si pensi comunque con questo ad un disco non ragionato. Di pancia. Dominato esclusivamente dal puro istinto. Ché le canzoni "pensate" qui esistono. Eccome! Canzoni non difficili da assimilare ma che richiedono quel minimo di attenzione per apprezzarne l'eccelsa fattura ed il brillante portamento strumentale. Penso a quel superbo swamp-blues dai colori cupi di nome Old Habits, capolavoro assoluto dell'album, in cui Hiatt si crogiola in un crooning epico che affonda in una colossale ossessione di demonismo ed in cui gli inquietanti ghoul che nobilitarono il linguaggio di Howlin' Wolf e Slim Harpo convivono con quelli che agitano i sonni del Nick Cave più luciferino e del Tom Waits più blues. Oppure, se preferite, perché no?, del John Fogerty più vernacolare che rispolvera l'arsenale semiotico del bluesman.
Penso ancora alle coordinate dalle cadenze appena più incalzanti su cui si posiziona la drammatica When You Hold Me Tight, "canzone d'amore" sui generis che fa da ponte tra lo spirito fosco e voodoo di Old Habits e quello più viscerale e ruggente di uno shout a matrice gospel. Al di là comunque delle definizioni, questa resta una delle più splendide pagine redatte per il disco dall'artista che conferma la coerenza verso i propri intenti. Grande è infatti la sua maestria nell'organizzare un confronto con la chitarra acidissima e distorta di Michael Ward cui, con infallibile buon gusto, viene incollato un gioco di voci nerissime e grondanti pathos. E a conferma della grande determinazione che l'artista getta nell'intrapresa di fare di Perfectly Good Guitar un disco - mi si perdoni il gioco di parole - "perfetto" nell'incrociare il cosiddetto "rock d'autore" con le istanze dell'alternative music, troviamo la cadenzata litania di Straight Outta Time con cui vien saggiata la resistenza di certa liturgia dylaniata della tradizione cantautorale americana all'impatto dei venti nuovi. Bella, sensuale, dall'ostentata piacevolezza, la canzone si candida prepotentemente come meravigliosa sintesi, senza tempo né etichette, tra i due mondi.
Una nuova terra è toccata con puntiglio e lucida visione, anche se un secondo corno è nei progetti dell'artista: perfezionare i vecchi linguaggi dando modo ai vecchi chierici hiattiani di tender l'orecchio su qualcosa di cui andar fieri. Mossa da afflato più estatico, al limite dello psichedelico, si muove infatti Blue Telescope, canzone attraverso cui Hiatt sfoggia conturbante ars melodica e conferma superba varietà di svolgimento. In un disco dettato dall'urgenza di trovar sbocchi per nuove storie ed argomenti, l'occasione è ghiotta per aggiornare il suo almanacco di alchimista saggio e ricco di sali culturali. Inventore sopraffino di memorabili atmosfere e maestro assoluto nel trattar la materia sonora, con Blue Telescope l'artista rifugge i giri sulla pista del rock consolidato e allarga le proprie mire mettendo in scena una "commedia" di grana sottile operando per via di tappeti ritmici soffusi e raffinatissimi e mettendo bravamente mano al colore sognante dell'arma chitarristica.
Quanto fin qui evidenziato non induca comunque a pensare che l'artista intenda mettere in liquidazione la sua lunga militanza come autore di ballate dal lirismo terso ed evocativo. Affatto. Solo che le rivitalizza quanto basta aggiungendo elettricità al corpo chitarristico per infondere nel pentagramma un po' del nevrotico "rifferama" di quei giorni cruciali. Ne danno eloquente dimostrazione canzoni come Buffalo River Home (a proposito, non convenite col sottoscritto che John Hiatt meriterebbe un Grammy per i titoli con cui designa il suo campionario?), canzone "autostradale" che infiamma il cuore e l'abitacolo di qualsiasi convertibile in viaggio verso la promised land. Chanson vibrante e dai colori sanguigni, tutta scandita da "perfette" chitarre che mordono bene perdendosi tra caldi climi "desertici" (avrebbero fatto la gioia di un gruppo come i Thin White Rope) e da una sezione ritmica votata a meno impegnative forme di comunicazione sonora, lineare come i binari della ferrovia tra Tucson e Amarillo.
Per ricavar invece adeguata soddisfazione e letteralmente sdilinquire davanti alla contagiosa grazia di paesaggi più delicati, basta crogiolarsi al suono di una ballata come I'll Never Get Over You, abbandonarsi al soffice andamento del suo laid-back, senza oppor resistenza all'indolente rigirarsi della sua melodia. L'artista trova la critica europea concorde nell'apprezzare la canzone, mentre quella americana, per farlo, dovrà industriarsi un po' per reperire la copia europea del disco, in quanto I'll Never Get Over You è un inedito cresciuto sotto la pelle discografica nel corso delle sessioni per l'album e destinato esclusivamente al mercato del Vecchio Continente.
Fin qui le canzoni che, per così dire, divergono dall'assunto che sta alla base di Perfectly Good Guitar: allontanarsi cioè dai passati, gloriosi concetti musicali e mettere mano a rinnovati meccanismi per aggiornare il libro dell'artista in chiave schiettamente modernista (leggi grunge). Che è esattamente ciò che mette in pratica il resto del programma, che mastica il pane delle nuove tematiche e da corpo a quella folata d'inventiva che fa del disco l'uscita più rock dell'artista di Indianapolis. A cominciare da quel tremendo uppercut in pieno volto posto in apertura di disco che come titolo fa Something Wild, "qualcosa di selvaggio", tanto per mettere in chiaro fin dal primo secondo in quale tipo di terreno ci stiamo incautamente addentrando. La canzone era in circolazione da circa tre anni, fin da quando nel 1990 Hiatt l'aveva composta per poi cederla a Iggy Pop che l'avrebbe inclusa nel suo Brick By Brick, sanguigno rocking album che vive sulla prodigiosa libido del personaggio esaltandone le doti di consumato istrione. 
Individuata la via, l'artista vi si getta a capo fitto. Quanto a carica elettrica, infatti, non è da meno della precedente la lineare semplicità di Cross My Finger, vivace ballata dal nevrotico candore e animata da classica dissertazione grunge con cui Hiatt accende la musica di perfidi lampi dove si spaccia falsa moneta Byrds, pur se non è esercitata violenza eccessiva. Ma l'artista non si accontenta. Vuole la perfetta ballata grunge, dove il riff assassino si sciacqua nella docilità della linea melodica. E con Angel l'ottiene. L'entrata è da antologia con una "chitarra perfettamente buona" che da il tempo ad un inno che sposa con grazia focosa pennate chitarristiche e veloci ritmi di batteria. Quando poi partono gli assoli della 6 corde la canzone levita e si accende di abbaglianti bengala carichi d'inquietante magnetismo che suonano stranito omaggio ad un Thurston Moore di vena lirica.
Credenziali non dissimili son quelle esibite da Permanent Hurt, canzone che conferisce alla materia sonora un'ammirevole abilità nel combinare fuoco e sangue, sofferenza ed emozioni. Con Permanent Hurt il nostro assurge al rango di quella ristretta cerchia di musicisti rock per i quali ha senso usare il termine epico e il titolo di maestro: ha gli accordi di Bruce Springsteen, il suono dei Nirvana, la melodia di John Mellencamp e le parole che scavano a fondo nell'animo della gente come quelle di Dylan. E finché estrarrà dalla sua "giberna" ordigni di tal fatta, tutti (critica, pubblico e concorrenza) dovranno fare i conti con album duri e romantici come questo e con la scrittura dirompente e passionale del loro autore. 
Prendete la title track: dirompente lo è di sicuro con quell'insistito ed inaspettato feedback di chitarra posto in apertura che in 15 secondi svecchia il piccolo mondo antico del cantautorato U.S.A. Ed è senza tema di smentita pure passionale con il tema che la rivela anthem solenne ed eroico che quanto ad epica non teme confronti con i più quotati specialisti del genere. Springsteen, Mellencamp, Neil Young (soprattutto Mellencamp e Neil Young), Steve Earle, Cobain, Vedder: tutti allineati e tutti fissati dritti negli occhi senza mai abbassare lo sguardo. Nemmeno per un fugace istante.
E se ascoltate la sofferta drammaturgia blues della tostissima e compatta Loving A Hurricane sarete travolti dalle medesime sensazioni e dai medesimi sentimenti. Cattiva, cattivissima, un riff circolare irrobustito da possenti sincopi rock blues che ti penetra il lobo frontale suonato da un chitarra distorta e acidissima, e John che canta con un ringhio roccioso pieno di rabbia e di soul. Tutto qui. Ma dentro quel tutto c'è molto più di quanto lasci intendere l'espressione: c'è soprattutto l'entusiasmo che ha segnato le pagine più belle dell'artista, qui teso a mostrare certe qualità viscerali del suo canzoniere, di cui fino ad allora si erano decantate ben altre virtù.
Ed è proprio coniugando tali virtù - come l'ansia di rinnovamento, per esempio - con la visceralità che il maestro, con un vezzo dei suoi, da vita ad un episodio deliziosamente paradossale come The Wreck Of The Barbie Ferrari, con grave scorno di quanti han piegato un certo tipo di canzoni alla propria vita, qui rischiando desolatamente di non ritrovarsi più. Se infatti l'entertainer rivela mano felice e con lui gli uomini della banda, altrettanto bene può dirsi dell'organizzatore di suoni che intende trascendere gli stereotipi del proprio tempo ed esplorare nuove direzioni musicali. Così facendo, riesce a far convivere in un boogie suonato "ventre a terra" il tribalismo percussivo iniziale, una chitarra ritmica aggressiva e metronomica, una solista in preda a convulsioni tormentate e distorte ed un sitar che proietta sugli anni '90 l'ombra del raga rock dei tempi che furono.
Il finale della canzone merita attente considerazioni perché è proprio dal noise dell'epico bending chitarristico su cui muore il tutto che ci industrieremo ad acconciare una chiosa degna di cotanto disco e che conservi un qual senso. E' questo un disco tetragono che si muove tra clangori irregolari, buone vibrazioni, deliqui melodici e tempere  cantautorali. Un disco che per l'artista certifica l'abbattimento delle barricate con il rock e gli schiude le porte di una nuova dimensione al cui interno c'è la delizia di un pubblico nuovo e la croce di chi gli chiederà, senza nulla ottenere, di far imperitura copia di se stesso.
"Non l'ho ancora fatto sentire a mio figlio" dichiarerà con modestia John all'uscita dell'album "Penso di aver paura che non gli piaccia". Non ci è dato sapere se Perfectly Good Guitar sia stato gradito dal giovane Rob e in fondo poco ci interessa. Sappiamo in compenso che il suo mostrare i canini, quel suo essere azzannato dal "mal di rock" sarebbe stato salutato da clamorose ovazioni critiche e reso ben venduto su entrambe le sponde dell'Atlantico (Italia compresa, per la gioia di quella "cricca" americanista in costante via d'espansione), dimostrando l'infondatezza dei timori dell'artista.                 


One By One

Something Wild 

Agli stoogesmaniacs d'ogni luogo piacerà ascoltare il punto di vista dell'autore su quella Something Wild che Hiatt prestò a Iggy Pop nel 1990 perché ne facesse buon uso sul suo Brick By Brick dello stesso anno. All'epoca l'Iguana era reduce da una vicenda discografica in agrodolce che perdurava da tutti gli anni '80 e che sia musicalmente che commercialmente viveva di fasi alterne. Dopo due album, Blah-Blah-Blah del 1986 e Instinct del 1988, entrambi pubblicati sotto l'egida della A&M, che sono la rappresentazione plastica dell'ottovolante artistico e di cassetta vissuto dal cantante, Iggy approda alla Virgin. Assunto il produttore Don Was, co-fondatore con David Was degli  eclettici e stilosi Was (Not Was), pubblica per quei tipi Brick By Brick, uno strafottuto platter visceralmente rock friendly in cui si circonda di vecchie volpi del rock U.S.A. come il chitarrista Waddy Watchel, il batterista Kenny Aronoff, Slash e Duff McKagan, rispettivamente chitarra e basso dei Guns'n'Roses, David Lindley, folletto del violino già con Jackson Browne, Kate Pierson dei B52's e lo stesso Hiatt ai cori proprio in Something Wild.
A 43 anni suonati James Newell Orsterberg, in arte Iggy Pop, resta un "teppista degenerato" e le scariche elettriche di Brick By Brick, unitamente al suo canto lascivo e perverso, sono lì a dimostrarlo. Non sconfessa l'assunto ovviamente Something Wild, rock song stradaiola e tiratissima in cui l'Iguana mette in pratica con buon profitto le "lezioni di canto" impartitegli dal Duca Bianco al tempo delle reciproche frequentazioni. Il clima è quello di un inno martellante in cui Stones, Stooges, Tom Petty e Guns'n'Roses copulano sorridenti sparando vivificante energia.
Sembrava impensabile per Hiatt affrontare l'Iguana proprio sul terreno a lui più congeniale, quello di un rock allo stato brado e dal ritmo vertiginoso, suonato come non ci fosse un domani. Eppure ci riesce. E a dirla tutta, vince pure. Già, perché l'attacco iniziale è da antologia rock. Una della più devastanti partenze mai ascoltate: uno stacco di batteria in 2/4 che imperverserà per tutti i 4' e 30'' della canzone, devastando ogni capacità cognitiva di ogni singola cellula del vostro cervello. Come se questo non bastasse, dopo pochi secondi entra lo schiaffo di violenza prima della chitarra e poi del basso a dare il via ad un riff assassino all'unisono che ti entra nelle budella squassandoti pure il resto degli organi interni, mentre Hiatt comincia ad ululare come un lupo mannaro in calore. Sembra l'Iguana più debosciato ai tempi dei primi Stooges. Scommetto che il giovane Rob sia andato orgoglioso di papà John. L'eleganza omicida del resto della canzone non fa che confermare quanto fin qui scritto: dal veemente assolo di Michael Ward che condisce il suo terrificante incedere con cambi di accordi e con gli assalti sonori di un feedback che farebbe impallidire più di un gruppo di trash metal o simili, ai martellanti tribalismi della batteria di Brian McLeod, tutto concorre a fare di questo incalzante e brutale uragano sonico il più veemente e rabbioso della carriera di Hiatt.

Straight Outta Time

Quando si riescono a scrivere e poi eseguire canzoni così vuol dire solo una cosa: essere arrivati ad occupare una diuturna posizione nel gotha dei grandi.           (Continua)
Mauro Rollin' On The River Uliana 


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