Si apre
con uno dei riff più spettacolari della storia del rock per continuare con un
groove che si purifica in un rhythm ‘n’ blues evoluto, con lo stratosferico
assolo di Bobby Keys che col sax offre spettacolo puro e con la chitarra di
Mick Taylor che si materializza in epica gloria. Nel suo infilare numeri da
brivido un dietro l’altro come perline su un filo, Can’t You Hear Me
Knocking è un’autentica festa per le gambe e le orecchie, ma tutti quanti i
sensi e i sentimenti avranno il loro da fare passeggiando lungo tutto Sticky
Fingers, senza tema di smentita uno degli album manifesto del rock. Un
disco che meglio di tutti condensa l’idea di sex & drugs & rock ‘n’
roll secondo una rappresentazione ormai statica come uno stoccafisso ma proprio
per questo ancora efficacissima.
“Cazzo, se mi piacciono i Rolling Stones. Mick e
Keith erano i più figli di puttana del quartiere ed è da lì che vengo fuori io”. (Steven Tyler degli Aerosmith). Non saprei cos’altro
fare se non sottoscrivere e condividere senza se e senza ma l’ardente passione
che il cantante del gruppo bostoniano (assieme al compare Joe Perry) nutre per
la band dei Glimmer Twins. Diciamo, per usare un eufemismo, che qualche
sospetto era circolato e la dichiarazione d’amore non sorprende più di tanto.
La dice lunga il fatto che durante i loro anni più autodistruttivi e, diciamo
così, lisergici, i due pards si guadagnarono sul campo (e a ragione, non so se
mi spiego) il nomignolo parafrasato di Toxic Twins.Del resto, vorrei tanto
sapere a chi non piace la gang di Jagger e Richards; cinque (quattro dopo il
forfait di Bill Wyman) (1) cattivi maestri che hanno giocato la loro partita
tra sarcasmo e schiuma in bocca, tenendo stretta tra i denti una consapevolezza
e una lucidità che andavano di pari passo alla smania terribile che li divorava
di non lasciarsi prendere, di realizzarsi proiettando l’anima nella musica.
Grandissimi figli di buona donna, sembra proprio che per loro ben poco
importassero i significati rotolanti; ciò che aveva da esistere era la
collocazione, l’iconografia personale, il gusto mordace di essere un passo
oltre. Un’immagine dura, cinica, da teppisti, un po’ romantici e molto rozzi.
Un immagina fatta apposta per accendere la curiosità e la fantasia di un
giovane e palpitante rock’n’roll heart di provincia come il sottoscritto; per blandirlo
come sirene ammaliatrici e poi tramortirlo con i ganci irresistibili di una
musica al cui cospetto altro non si poteva opporre che la bandiera bianca di
una resa incondizionata.
Come muovere il culo sul palco lo
avevano imparato da Elvis e Little Richard e come giocare con oltraggiosi doppi
sensi lo appresero leggendo i “sacri” testi delle canzoni con cui Muddy Waters,
Willie Dixon e Bo Diddley tagliavano l’aria satura dei fumi di whiskey e birra
nelle bettole di Chicago. Questo malsano blend fu sufficiente a minare la quiete della
borghesia inglese, comprensibilmente allarmata dal viscerale e arrogante
rifiuto e dallo scandaloso antagonismo, preludio di violenza e dirty works, di cui i cinque street fightin’ men si facevano portatori e paladini. “Permettereste a vostra figlia di uscire
con un Rolling Stone?”: questo lo slogan più in auge tra i membri del servizio d’ordine
socio-familiare. Se infatti attorno al fenomeno dei quattro baronetti di
Liverpool potevano esistere margini, se pur minimi, di comprensione, nei
confronti del ragazzo col labbrone e dei suoi sodali il rigetto e l’avversione
erano netti: un crocifisso e un mazzo d’aglio, più un paletto di frassino da
conficcare nel cuore dei cinque vampiri assetati di sangue.
Non esistono
dubbi sul fatto che gli Stones esercitarono sui giovani loro contemporanei un
influenza ed ebbero un impatto che facevano il paio con quello di eroi del
grande schermo come il James Dean di Rebel Without A
Cause e il Marlon
Brando del Selvaggio. Non furono solo
degli impenitenti monellacci, i Rolling Stones. Furono anche dei rabbiosi
guerriglieri che arroventarono il clima durante quei cinque minuti in cui
il rock’n’ roll parve pericoloso per davvero. Primi portatori sani di un
dissenso che avrebbe riservato loro una felice e diuturna collocazione in un
ipotetico pantheon degli eroi malefici. Furbescamente consci che la loro
immagine dannata avrebbe costituito un “culto” difficile da smantallare.
Altresì non
esistono dubbi sul fatto che gli sporchi Rolling Stones, musicalmente parlando,
abbiano da sempre ostentato una mancanza di originalità, un’ortodossia con cui
hanno costruito uno stile dallo zoccolo duro, una trafila di riff (Riff
Richards ca va sans dire) e
schitarrate stradaiole, nonché di dolenti ballads, tuttora distintive di un
artigianato rock crudo e vissuto. Una reputazione di purezza profonda e
assoluta autenticità che la loro striminzita e volgare sintesi del blues si
portava appresso, paradossalmente assecondata da una fama da delinquenti. Nomea
che meglio non si sarebbe potuta attagliare ad una band che avrebbe avuto come
marchio di fabbrica una linguaccia rossa e velenosa.
E’ vero, è
successo tutto nei sixties, ma anche il decennio successivo, tra discese ardite
e risalite, è stato un periodo ricchissimo di eventi e tutt’altro che privo di
esaltanti empirei. Decennio vero e fiammeggiante, dunque, e non dei qualunque sucking seventies (come con impagabile autoironia
sentenzia una loro compilation datata 1981) in cui sfangarla nella maniera meno
imbarazzante possibile. C’è qualche farneticante integralista per il quale gli
Stones avrebbero fatto meglio a sciogliersi dopo Exile On Main Street, ma sapete che gliene frega a
Mick e Keith delle chiacchere che scorrono insieme alla birra sopra il bancone
del bar di questi sputasentenze. Costoro sproloquiano. Loro fanno. Per fortuna
sono molti di più quelli che ancora non si suicidano per non perdersi un nuovo
disco od un altro concerto dei Rolling Stones. Ma li avete visti la scorsa
settimana live in Lucca? Gente che ha superato le settanta primavere a velocità
sovrumane ed e è ancora lì a sculettare sul palco con un’energia che non solo
vostro nonno ma neanche vostro padre non osa nemmeno sognare. Del resto, come
si dice? “Cos’altro potrebbe
fare un povero vecchietto, se non suonare in una rock ‘n’ roll band?”
E’
altresì vero che il gruppo eversivo è diventato un istituzione, i loro concerti
sono eventi di pantagruelica grandeur a spasso per il pianeta, dove non succede
più nulla da anni: né risse tra i fans, né cariche della polizia, né
accoltellamenti. Ma Dio santo, esiste qualcosa di più rock ‘n’ roll che suonare
rock ‘n’ roll per tutta la vita, a settant’anni e poi a settantacinque e ancora
oltre? E dunque, diciamolo, quella degli Stones oltre i sixties resta comunque
un gran bella storia che offre mille spunti di riflessione. Eppoi, chi siamo
noi per stigmatizzare? Che ne sappiamo di come si fa a resistere agli eccessi,
ai paradisi artificiali e agli inferni reali, a vivere spalla a spalla con le
stesse facce per così tanto tempo? Bisogna viverla quella vita, tutta,
intensamente e per più di cinquant’anni. Capire cosa vuol dire partire da un
treno di pendolari su cui si viaggia tenendo sotto bracco una manciata di rari
dischi di blues e arrivare ad una spiaggia brasiliana sulla quale sottoporsi al
delirio di un milione e mezzo di fans adoranti. Insomma, bisogna essere i
Rolling Stones per capirlo, e ancora non sarebbe abbastanza. “C’è Charlie che ci
tiene fuori dai guai. C’è Mick che dice: ‘Lasciatemi in pace’ e Keith replica
‘Va a farti fottere!’ E’ questo il segreto della nostra longevità”. (Ron
Wood)
Gli
anni settanta degli Stones cominciano veramente solo quando Mick Jagger,
durante un concerto a Los Angeles di uno dei loro padri putativi, Chuck Berry,
ha un incontro con Ahmet Ertegun, il boss turco in coppa all’Atlantic, e gli
rivela senza mezzi termini che i Rolling Stones, più che stufi dei giochi di
prestigio della Decca, vogliono accasarsi con la sua Atlantic. Il vecchio Ahmet
viene istantaneamente stregato da, parole sue, “quell’espressione
negli occhi, lo straordinario sorriso, e lo stupefacente contorno della bocca”.
Il favoloso contratto che ne scaturì, il più oneroso mai sottoscritto dalla
leggendaria etichetta di New York, rimise in motto a pieno regime la premiata
ditta, anche se Jagger e Richards a tutto si dedicavano fuorché amministrare il
loro mastodontico giro d’affari. Basti pensare che negli ultimi due precedenti
anni Mick e Keith avevano passato più tempo in tribunale a vedersela con
arresti e strampalate sanzioni giudiziarie che su di un palco a darci dentro di
rock ‘n’ roll. Ma, sapete come si dice: contratto nuovo, vita nuova. Era
arrivato il tempo di liberarsi dei fantasmi di Brian Jones, della stantia
rivalità (vera o presunta) con i Beatles, del sanguinoso ricordo di Altamont,
del manager Allen Klein, che più di qualche problema aveva dato anche ai Fab
Four, dell’esoso fisco britannico e della mefitica stampa inglese. Sentite un
po’ cosa scriveva il Melody Maker all’alba del 1970: “Hanno avuto fortuna,
ma ora devono ammettere che hanno fatto il loro tempo”. Un
altro magazine si chiedeva: “Cosa
può fare uno Stone a quarant’anni? Uno Stone di mezza età è la cosa più triste
del mondo”. Ancora
un altro rincarava la dose: “E’
inconcepibile immaginare Mick Jagger a cinquant’anni”. Per
concludere con lo sproloquio sesquipedale, offensivo e volgare del critico Nick
Cohn: “Se
hanno un minimo di pudore si ammazzeranno in un incidente aereo prima dei
trent’anni”.
E’
per tutto questo che il 1971 può, a ben diritto, essere considerato un anno
cruciale per le "Pietre Rotolanti". Due le ragioni: la prima riguarda
il varo della loro etichetta discografica personale (quella della strafamosa
linguaccia) (2), dopo anni di music business con la Decca; la seconda per la
pubblicazione di un album epocale come Sticky
Fingers, la più probante delle verifiche circa il momento d’incontrollabile
incontinenza creativa che il gruppo stava nuovamente vivendo. Registrato tra i
Trident Studios di Londra ed i Muscle Shoals in Alabama e prodotto da Jimmy
Miller (3), una passionaccia per il suono black che lo portò a produrre le
pagine più negroidi del rock d’Albione (Spencer Davis Group, Traffic, Blind
Faith) e non (Delaney & Bonnie Bramlett), Sticky
Fingers si attesta tra i
classici degli Stones e in assoluto tra le opere fondamentali degli anni
settanta. Un budget di 15.000 sterline e l’album può mettere in mostra una
scandalosa cover art concepita da Andy Warhol (quante mani femminili
abbassarono speranzose quella maliziosa cerniera…) che lo renderà una delle
opere più riconoscibili (anzi, “La” più riconoscibile) della storia del rock. All'interno,
oltre ad un testicolo che s’intravede sotto le mutande, un pezzo di plastica
nero che su dieci brani poteva contare 10 capolavori che ne facevano un disco
sboccato, maleducato e maledettamente bluesy, gocciolante di quella che la
giornalista Edna Gundersen definì “la
mistica degli Stones”. Un’immenso drug
album, maledetto come Rock ‘n’ Roll
Animal di Lou Reed o il
coevo L.A. Woman dei Doors. Insomma, uno dei più riusciti patchwork che i
cinque inglesi abbiano mai dipinto.
Sticky
Fingers è
infatti un piccolo
gioiello dove trovare di tutto ed in cui mille influenze si mescolano
magicamente: il
rock di Bitch e Brown
Sugar, due eccitanti nuovi standard rock (soprattutto la seconda) imbevuti
di una sensuale carica rock/blues, il soul di You
Got The Blues, che pare uscire da un album di Otis Redding, l’electric
(moooolto electric!!!) slow blues di Sway con Mick Jagger alla chitarra
(elettrica, è ovvio!) ed il contributo di – si dice – Pete Townshend e Ronnie
Lane ai cori, lo spiritual trasandato di You
Gotta Move che fu anche di
Sam Cooke che la inserì nel suo capolavoro Night
Beat, il country di Wild
Horses (anticipata dalla
versione dei Flyin’ Burrito Brothers) e Dead
Flowers (coverizzata dai New
Riders Of The Purple Sage) e melodie
strazianti e malate che ricorrono ad una simbologia cruda che immortala un
nuova gioventù bruciata come Moonlight Mile, arricchita dagli
archi decadenti di Paul Buckmaster e Sister Morphine, scritta con
Marianne Faithful e a lei dedicata. Una
sequela di coup de foudre niente male per dei dinosauri
miliardari che “avevano fatto
il loro tempo”.
Il
più clamoroso comunque si chiama Can't
You Hear Me Knocking, oltre 7 minuti da infarto in cui la miglior rock 'n'
roll band del mondo "bussa" alla porta del nuovo decennio mettendo in
fila tutta la concorrenza e inscenando una rappresentazione che dopo oltre 45
anni lascia ancora il segno. I cinque sembrano degli extraterrestri: perfetti.
Roccano e rollano con una
naturalezza che noi comuni mortali nemmeno respirando. Impagabili!!! Eppoi
l'idea di una rock song che ne contiene almeno tre: introduzione da urlo, dove,
alla base di un contagiosissimo groove di basso, batteria, percussioni e
piano elettrico (Nicky Hopkins) che si attorcilia su se stesso, potrete
sdilinquire mica male prestando orecchie e cuore ad un sottofondo di organo
(Billy Preston) che come un lenzuolo di cielo azzurro e arancione fa da telaio
ad un riff assassino di chitarra carico di un
potere simbolico/evocativo straordinario, che
mette in vetrina tutto l’armamentario di cui Keith Richards è dotato. Ci sono
le sue impronte digitali su quei due minuti e mezzo sincopati che
trasmettono con tremenda efficacia l’essenza del r’n’r, appiccicandosi alle
orecchie e facendo muovere tutto il resto. “Il
riff di Can’t You Hear Me
Knocking mi arrivò
volando – racconta il nostro – Ho trovato gli accordi e poi ho
iniziato a nuotarci dentro, mentre Charlie ha iniziato a battere il tempo. Così
abbiamo pensato, hey, è fortissimo. Attorno a noi tutti sorridevano. Per un
chitarrista non è un evento eccezionale trovare la modulazione, gli stacchi, la sequenza degli
accordi. E’ tutto molto diretto e naturale”. Il
tutto dura fino al minuto 2’43” e la canzone potrebbe anche finire qui. Ma è
proprio a questo punto che si materializza un’altra magia. Una di quelle
situazioni vere, lontane dallo scintillio edonista che di solito chiamiamo
spontaneità. “Can’t You
Hear Me Knocking è una
delle mie preferite” –
ricorda Mick Taylor – “La jam alla
fine è stata causata da una specie di incidente che non avevamo programmato. Alla fine della
canzone ho sentito che dovevo continuare a suonare. Tutti stavano riponendo i loro
strumenti, ma il nastro stava ancora girando e il tutto suonava da Dio, così
tutti hanno ripreso in tutta velocità gli strumenti e hanno ricominciato a
suonare. E’ successo veramente così e tutto si è risolto in una buona la prima. Sembra che questa parte della canzone
sia piaciuta ad un sacco di gente”. “Non sapevamo
che stavamo ancora registrando – conferma
Keith Richards – Pensavamo di
aver finito. Ce ne stavamo andando ed il nastro venne fatto ancora girare.
Immaginai che ci stessero sfumando. Solo quando abbiamo ascoltato il playback
abbiamo realizzato. Oh, avevano continuato a registrare! Sostanzialmente ci
siamo resi conto di avere due pezzi diversi di musica. C’è la canzone e c’è la
jam”. Qui
i musicisti si impegnano nell’edificare
una costruzione d’impatto immediato: il
lancio di una lunga jam tra soul e latin-rock in cui sembra che Santana (4)
copuli con la Motown in un
uragano di ritmi tribali su cui un ubriacante intreccio di sax e chitarra
riversa un’intensa sensualità. Inconsapevolmente (ed una tantum, va
detto) la band fa il suo ingresso in una twilight zone in cui tra la fine dei
sassanta ed i primi settanta stava andando una parte considerevole della musica
mondiale. Una sorta di meta-linguaggio raffinato e carnale al contempo, con perfezionismi
tecnici di rara enfasi verso cui, in una sorta di chiamata universale pan
musicale, si stavano dirigendo musicisti provenienti dalle più disparate
direzioni (e qui di seguito andrò a citarne una parte infinitesimale): dal soul
di marca Motown (i Temptations dell era Whitfield-Strong ma anche i Funkadelic
di George Clinton), da quello di marca Stax (l’Isaac Hayes di Shaft e Hot
Buttered Soul, senza dimenticare l’apolide incontinente James Brown), dal
jazz (il Miles Davis elettrico da Bitches
Brew in avanti ed i Weather
Report di Boogie Boogie Waltz),
dal latin rock (i Santana di Caravanserai).
Dall’Inghilterra tutta la new thing dell’english jazz, anche se un po’ di
straforo, ma soprattutto i Traffic di The
Low Spark Of High Heeled Boys e Shoot Out At The Fantasy
Factory ed i ghanesi Osibisa.
Anche l’Italia diede il suo contributo: si chiamava Perigeo, cinque musicisti
di provata levatura che diedero dimostrazione del loro visionario talento
proponendo musiche di sensoriale bellezza, iridescenti sceggie di luce che
infiammavano i colori di una scrittura votata ai pieni strumentali, così come
alle sospensioni più eteree. Era un meticciato stilistico che inglobava nei
suoi stilemi brani estesi (5), spesso dilatati oltre la soglia dei dieci
minuti, atmosfere liquide, quasi psichedeliche, officiate da musicisti
discepoli di una scuola virtuosistica che incorporava chitarre wha-wha, ogni
tipo di tastiere, sfondi orchestrali, ritmi ipnotici e gran recupero di
tribalismi in cui percussioni di ogni tipo salivano al proscenio guardando alla
madre Africa.
Il
contributo degli Stones a questa musica fatta di archetipi sonori di mondi
differenti è una straordinaria miscela che origina una febbre sonora su cui è
bello concentrarsi. Iniziano le danze le percussioni del produttore Jimmy
Miller e le congas del fedele Rocky Dijon (Sympathy
For The Devil, Let It
Bleed ma anche Stone Alone di Bill Wyman, e ancora Ginger
Baker’s Airforce, Nick Drake, John Martyn, Stevie Wonder, Taj Mahal, Billy
Preston, Hugh Masekela, Joe Walsh, Herbie Hancock), profugo ghanese
fortunosamente approdato con un barcone sulle coste inglesi dopo un viaggio di
settimane e successivamente introdotto alla corte di Jagger e Richards dal
producer Jimmy Miller. La girandola continua con il sax di Bobby Keyes (un
altro tipino mica male, perfettamente integrato nello smodato crazy world della band) (6) che ha agio di elencare in scioltezza i
tratti somatici principali del suo solismo. La mente corre al
lavoro (meno febbricitante, meno veemente, più riflessivo, pensato) di Chris
Wood con i Traffic (stesso produttore: sarà un caso?) che lanciava grida alla
luna dando un viraggio black alle canzoni del gruppo di Steve Winwood. “Bobby era un musicista molto
fluente e melodico – ricorda
Mick Taylor – Mi ha preparato
qualcosa da seguire, e da cui uscire fuori”. E'
così che, infine, sulla
scena irrompe impetuosa, distendendosi e ritraendosi come un elastico, la
chitarra di Mick Taylor, la cui diamantina
limpidezza e le cadenze nervose in grado di graffiare sono distribuite a piene
mani: "Mick era
lirico” ricorda Watts "Aveva un orecchio così
buono." L’eleganza e la
forza di Taylor, le magistrali raffinatezze e le sue tirate bluesy vengono esibite su di un
substrato di percussioni e organo che offrono un
caleidoscopico tappeto di varianti ritmiche che
ti scuotono le viscere e ti riempiono il cervello. Insomma la sceneggiatura di un rito che sarebbe
passato alla leggenda. Un
must!
Oggi, nel pieno
di un periodo che faccio fatica a comprendere, mi arrogo il diritto di
riservare un posto d’onore a questa stratosferica Can’t You Hear Me Knocking, alla sua patina
di produzione d’altissimo lignaggio in vana attesa di quella del tempo, e agli
Stones, quelli del ’71 e quelli di oggi che ancora girano in pompa magna e sono
capaci di organizzare delle turneé di rutilante immortalità rock ‘n’
roll. Del resto, quando uno nasce animale da palcoscenico ci muore anche. E
mentre voi avete il fiatone solo per essere arrivati in fondo a queste righe
seduti in poltrona, Mick (7), Keith (8), Charlie (9) e Ronnie (10) sono in
perfetta salute e scaldano i muscoli in vista di nuovi traguardi. Gia mi pare
di sentirvi: “Chi glielo fa
fare?”. Keith lo ripete
spesso a Mick: “Tesoro, gli
Stones sono più importanti di noi due”.
Certo, un giorno
o l’altro dovranno pur smettere, e il solo pensiero già mi fa tremare la voce e
gonfiare il cuore, ma non c’e bisogno di aspettare quel brutto e livido giorno
per sentenziare: “Come loro
nessuno mai!”.
(1) Keith Richards, mai tenero con l’ex compagno: “Tutto ciò che
ha fatto Bill è stato lasciare la band, avere tre bambine e aprire un negozio
di fish and chips”.
(2) Il logo lips and tongue è
nato dalla matita di John Pasche, uno studente del Royal College of Art.
Ispirazione, la bocca “importante” (parole sue) del cantante della rock band
(noblesse oblige) e la lingua (?) della dea indiana Kali. Un piccolo ritocchino lo diede anche
Craig Braun, direttore creativo della Sound Packaging Corporation, che al tempo
stava trafficando con Andy Warhol alla cover dello
storico album della band e che intervenne su una versione ancora non finita del
disegno. Il logo fu pagato al giovane designer soltanto 50 sterline, a cui se
ne aggiunsero poi altre 26mila nel 1984 per le royalties. Pensate che, nel
2008, il Victoria and Albert Museum di Londra, riuscì (facendo un ottimo
affare) ad accaparrarsi il bozzetto originale per la cifra di 50mila sterline.
Amen.
(3) Jimmy Miller, tossico senza (quasi) speranza,
batterista a tempo perso, ma, soprattutto, grandissimo produttore discografico.
Uno che condivideva tutto con i suoi musicisti: assieme a loro suonava (suo,
tanto per fare un esempio, il campanaccio che si ascolta all’inizio di Honky Tonk Women degli
Stones), componeva (mise il suo zampino nella stesura del testo di Medicated Goo dei Traffic, omaggio pieno d’amore al suono Stax) e, purtroppo si
drogava. Durante le session di Exile On Main Street venne messo in piedi un baccanale,
che vide Miller tra i pricipali protagonisti, dove alcol e droghe scorrevano a
fiumi. Dopo l’uscita, nel 1973, di Goat’s Head Soup gli Stones gli diedero il ben
servito perché era talmente fatto da non poter più fornire una prestazione
professionale. Morirà nell’ottobre del 1994 per insufficienza epatica all’età
di soli 52 anni. Oltre a Stones e Traffic, produsse per i Blind Fath, il
supergruppo di Clapton, Baker, Winwood e Rick Gretch, Ginger Baker’s Airforce
e, dopo un lunga pausa, Primal Scream (Screamedelica) e Motorhead (Overkill e Bomber).
(4) Ci vorranno quasi 40 anni per chiudere il cerchio. Nel 2010, infatti, Santana includerà Can’t You Hear Me Knocking in Guitar Heaven (sottotitolo The Greatest Guitar Classics Of All
Time). La rendition si sostanzia in un febbricitante duetto di sei corde con
Scott Weiland, il compianto chitarrista degli Stone Temple Pilot.
(5) Non è certo un caso se, di tutta la sterminata
discografia della band, Can’t You Hear Me Knocking, con i suoi 7 minuti abbondanti, sia per lunghezza al
quarto posto tra i brani stonesiani, gli altri essendo Goin’ Home da Aftermath del 1966, record assoluto con i suoi
11’16”, Sing This All Together da Their
Satanic Majestic Request del
1967 (8’33”) e You Can’t
Always Get What You Want da Let It Bleed del 1969 (7’28”)
(6) Bobby Keys che sfruttava gli
alberghi del tour per farsi un bagno nel Dom Perignom, prosciugando la vasca a
grandi sorsate. E questo non può che dare solo una pallida idea della sublimi
vette dei margini del piacere toccate al confronto dai suoi datori di lavoro.
(7) Disse di Mick Jagger il prduttore
Don Was (Bridges To Babylon): “Durante
il tour di Bridges To Babylon provai a correre la distanza che
che andava da una parte all’altra del palco e mi mancava il respiro dopo averlo
fatto una volta sola. Mick fece la stessa cosa decine di volte – cantando
intonato ed esibendosi per due ore. Questo tipo è sovrumano. E’ al tempo stesso
un singolare fenomeno atletico e un’ingiustizia vivente: può mangiare quello
che vuole, esibirsi in quella maniera e, ciliegina sulla torta, tutte le
modelle sono sue”.
(8) Keith Richards nel 2003 circa, ma
spero che anche oggi le cose non siano cambiate più di tamto: “Il fatto è che ho sessant’anni e
ci sono ragazze di venti che mi tirano ancora le mutandine! Che devo dire alla
mia signora, che mi servono per arredare la stanza?” E ancora, impagabile: “Io non ho mai avuto problemi con
la droga. Ho avuto problemi con la polizia”.
(9) Charlie Watts su se stesso: “Mia moglie Shirley è una grande
fan degli Stones, io invece no: è semplicemente quello che faccio”. E su Keith Richards: “Diciotto mogli e venti figli lo
hanno fatto cavaliere fantastico!”
(10) Ron Wood oggi ha smesso di bere.
Bere sul serio, si intende: tipo due bottiglie di vodka al giorno
Mauro Rollin' On The River Uliana
Si apre con uno dei riff più spettacolari della storia del rock per continuare con un groove che si purifica in un rhythm ‘n’ blues evoluto, con lo stratosferico assolo di Bobby Keys che col sax offre spettacolo puro e con la chitarra di Mick Taylor che si materializza in epica gloria. Nel suo infilare numeri da brivido un dietro l’altro come perline su un filo, Can’t You Hear Me Knocking è un’autentica festa per le gambe e le orecchie, ma tutti quanti i sensi e i sentimenti avranno il loro da fare passeggiando lungo tutto Sticky Fingers, senza tema di smentita uno degli album manifesto del rock. Un disco che meglio di tutti condensa l’idea di sex & drugs & rock ‘n’ roll secondo una rappresentazione ormai statica come uno stoccafisso ma proprio per questo ancora efficacissima.
“Cazzo, se mi piacciono i Rolling Stones. Mick e Keith erano i più figli di puttana del quartiere ed è da lì che vengo fuori io”. (Steven Tyler degli Aerosmith). Non saprei cos’altro fare se non sottoscrivere e condividere senza se e senza ma l’ardente passione che il cantante del gruppo bostoniano (assieme al compare Joe Perry) nutre per la band dei Glimmer Twins. Diciamo, per usare un eufemismo, che qualche sospetto era circolato e la dichiarazione d’amore non sorprende più di tanto. La dice lunga il fatto che durante i loro anni più autodistruttivi e, diciamo così, lisergici, i due pards si guadagnarono sul campo (e a ragione, non so se mi spiego) il nomignolo parafrasato di Toxic Twins.Del resto, vorrei tanto sapere a chi non piace la gang di Jagger e Richards; cinque (quattro dopo il forfait di Bill Wyman) (1) cattivi maestri che hanno giocato la loro partita tra sarcasmo e schiuma in bocca, tenendo stretta tra i denti una consapevolezza e una lucidità che andavano di pari passo alla smania terribile che li divorava di non lasciarsi prendere, di realizzarsi proiettando l’anima nella musica. Grandissimi figli di buona donna, sembra proprio che per loro ben poco importassero i significati rotolanti; ciò che aveva da esistere era la collocazione, l’iconografia personale, il gusto mordace di essere un passo oltre. Un’immagine dura, cinica, da teppisti, un po’ romantici e molto rozzi. Un immagina fatta apposta per accendere la curiosità e la fantasia di un giovane e palpitante rock’n’roll heart di provincia come il sottoscritto; per blandirlo come sirene ammaliatrici e poi tramortirlo con i ganci irresistibili di una musica al cui cospetto altro non si poteva opporre che la bandiera bianca di una resa incondizionata.