giovedì 28 settembre 2017

Can't You Hear Me Knocking - Rolling Stones (1971)


Si apre con uno dei riff più spettacolari della storia del rock per continuare con un groove che si purifica in un rhythm ‘n’ blues evoluto, con lo stratosferico assolo di Bobby Keys che col sax offre spettacolo puro e con la chitarra di Mick Taylor che si materializza in epica gloria. Nel suo infilare numeri da brivido un dietro l’altro come perline su un filo, Can’t You Hear Me Knocking è un’autentica festa per le gambe e le orecchie, ma tutti quanti i sensi e i sentimenti avranno il loro da fare passeggiando lungo tutto Sticky Fingers, senza tema di smentita uno degli album manifesto del rock. Un disco che meglio di tutti condensa l’idea di sex & drugs & rock ‘n’ roll secondo una rappresentazione ormai statica come uno stoccafisso ma proprio per questo ancora efficacissima. 


“Cazzo, se mi piacciono i Rolling Stones. Mick e Keith erano i più figli di puttana del quartiere ed è da lì che vengo fuori io”. (Steven Tyler degli Aerosmith). Non saprei cos’altro fare se non sottoscrivere e condividere senza se e senza ma l’ardente passione che il cantante del gruppo bostoniano (assieme al compare Joe Perry) nutre per la band dei Glimmer Twins. Diciamo, per usare un eufemismo, che qualche sospetto era circolato e la dichiarazione d’amore non sorprende più di tanto. La dice lunga il fatto che durante i loro anni più autodistruttivi e, diciamo così, lisergici, i due pards si guadagnarono sul campo (e a ragione, non so se mi spiego) il nomignolo parafrasato di Toxic Twins.Del resto, vorrei tanto sapere a chi non piace la gang di Jagger e Richards; cinque (quattro dopo il forfait di Bill Wyman) (1) cattivi maestri che hanno giocato la loro partita tra sarcasmo e schiuma in bocca, tenendo stretta tra i denti una consapevolezza e una lucidità che andavano di pari passo alla smania terribile che li divorava di non lasciarsi prendere, di realizzarsi proiettando l’anima nella musica. Grandissimi figli di buona donna, sembra proprio che per loro ben poco importassero i significati rotolanti; ciò che aveva da esistere era la collocazione, l’iconografia personale, il gusto mordace di essere un passo oltre. Un’immagine dura, cinica, da teppisti, un po’ romantici e molto rozzi. Un immagina fatta apposta per accendere la curiosità e la fantasia di un giovane e palpitante rock’n’roll heart di provincia come il sottoscritto; per blandirlo come sirene ammaliatrici e poi tramortirlo con i ganci irresistibili di una musica al cui cospetto altro non si poteva opporre che la bandiera bianca di una resa incondizionata.
Come muovere il culo sul palco lo avevano imparato da Elvis e Little Richard e come giocare con oltraggiosi doppi sensi lo appresero leggendo i “sacri” testi delle canzoni con cui Muddy Waters, Willie Dixon e Bo Diddley tagliavano l’aria satura dei fumi di whiskey e birra nelle bettole di Chicago. Questo malsano blend fu sufficiente a minare la quiete della borghesia inglese, comprensibilmente allarmata dal viscerale e arrogante rifiuto e dallo scandaloso antagonismo, preludio di violenza e dirty works, di cui i cinque street fightin’ men si facevano portatori e paladini. “Permettereste a vostra figlia di uscire con un Rolling Stone?”: questo lo slogan più in auge tra i membri del servizio d’ordine socio-familiare. Se infatti attorno al fenomeno dei quattro baronetti di Liverpool potevano esistere margini, se pur minimi, di comprensione, nei confronti del ragazzo col labbrone e dei suoi sodali il rigetto e l’avversione erano netti: un crocifisso e un mazzo d’aglio, più un paletto di frassino da conficcare nel cuore dei cinque vampiri assetati di sangue.
Non esistono dubbi sul fatto che gli Stones esercitarono sui giovani loro contemporanei un influenza ed ebbero un impatto che facevano il paio con quello di eroi del grande schermo come il James Dean di Rebel Without A Cause e il Marlon Brando del Selvaggio. Non furono solo degli impenitenti monellacci, i Rolling Stones. Furono anche dei rabbiosi guerriglieri che arroventarono il clima durante quei cinque minuti in cui il rock’n’ roll parve pericoloso per davvero.  Primi portatori sani di un dissenso che avrebbe riservato loro una felice e diuturna collocazione in un ipotetico pantheon degli eroi malefici. Furbescamente consci che la loro immagine dannata avrebbe costituito un “culto” difficile da smantallare.
Altresì non esistono dubbi sul fatto che gli sporchi Rolling Stones, musicalmente parlando, abbiano da sempre ostentato una mancanza di originalità, un’ortodossia con cui hanno costruito uno stile dallo zoccolo duro, una trafila di riff (Riff Richards ca va sans dire)  e schitarrate stradaiole, nonché di dolenti ballads, tuttora distintive di un artigianato rock crudo e vissuto. Una reputazione di purezza profonda e assoluta autenticità che la loro striminzita e volgare sintesi del blues si portava appresso, paradossalmente assecondata da una fama da delinquenti. Nomea che meglio non si sarebbe potuta attagliare ad una band che avrebbe avuto come marchio di fabbrica una linguaccia rossa e velenosa. 
E’ vero, è successo tutto nei sixties, ma anche il decennio successivo, tra discese ardite e risalite, è stato un periodo ricchissimo di eventi e tutt’altro che privo di esaltanti empirei. Decennio vero e fiammeggiante, dunque, e non dei qualunque sucking seventies (come con impagabile autoironia sentenzia una loro compilation datata 1981) in cui sfangarla nella maniera meno imbarazzante possibile. C’è qualche farneticante integralista per il quale gli Stones avrebbero fatto meglio a sciogliersi dopo Exile On Main Street, ma sapete che gliene frega a Mick e Keith delle chiacchere che scorrono insieme alla birra sopra il bancone del bar di questi sputasentenze. Costoro sproloquiano. Loro fanno. Per fortuna sono molti di più quelli che ancora non si suicidano per non perdersi un nuovo disco od un altro concerto dei Rolling Stones. Ma li avete visti la scorsa settimana live in Lucca? Gente che ha superato le settanta primavere a velocità sovrumane ed e è ancora lì a sculettare sul palco con un’energia che non solo vostro nonno ma neanche vostro padre non osa nemmeno sognare. Del resto, come si dice? “Cos’altro potrebbe fare un povero vecchietto, se non suonare in una rock ‘n’ roll band?” 
E’ altresì vero che il gruppo eversivo è diventato un istituzione, i loro concerti sono eventi di pantagruelica grandeur a spasso per il pianeta, dove non succede più nulla da anni: né risse tra i fans, né cariche della polizia, né accoltellamenti. Ma Dio santo, esiste qualcosa di più rock ‘n’ roll che suonare rock ‘n’ roll per tutta la vita, a settant’anni e poi a settantacinque e ancora oltre? E dunque, diciamolo, quella degli Stones oltre i sixties resta comunque un gran bella storia che offre mille spunti di riflessione. Eppoi, chi siamo noi per stigmatizzare? Che ne sappiamo di come si fa a resistere agli eccessi, ai paradisi artificiali e agli inferni reali, a vivere spalla a spalla con le stesse facce per così tanto tempo? Bisogna viverla quella vita, tutta, intensamente e per più di cinquant’anni. Capire cosa vuol dire partire da un treno di pendolari su cui si viaggia tenendo sotto bracco una manciata di rari dischi di blues e arrivare ad una spiaggia brasiliana sulla quale sottoporsi al delirio di un milione e mezzo di fans adoranti. Insomma, bisogna essere i Rolling Stones per capirlo, e ancora non sarebbe abbastanza. “C’è Charlie che ci tiene fuori dai guai. C’è Mick che dice: ‘Lasciatemi in pace’ e Keith replica ‘Va a farti fottere!’ E’ questo il segreto della nostra longevità”. (Ron Wood)
Gli anni settanta degli Stones cominciano veramente solo quando Mick Jagger, durante un concerto a Los Angeles di uno dei loro padri putativi, Chuck Berry, ha un incontro con Ahmet Ertegun, il boss turco in coppa all’Atlantic, e gli rivela senza mezzi termini che i Rolling Stones, più che stufi dei giochi di prestigio della Decca, vogliono accasarsi con la sua Atlantic. Il vecchio Ahmet viene istantaneamente stregato da, parole sue, “quell’espressione negli occhi, lo straordinario sorriso, e lo stupefacente contorno della bocca”. Il favoloso contratto che ne scaturì, il più oneroso mai sottoscritto dalla leggendaria etichetta di New York, rimise in motto a pieno regime la premiata ditta, anche se Jagger e Richards a tutto si dedicavano fuorché amministrare il loro mastodontico giro d’affari. Basti pensare che negli ultimi due precedenti anni Mick e Keith avevano passato più tempo in tribunale a vedersela con arresti e strampalate sanzioni giudiziarie che su di un palco a darci dentro di rock ‘n’ roll. Ma, sapete come si dice: contratto nuovo, vita nuova. Era arrivato il tempo di liberarsi dei fantasmi di Brian Jones, della stantia rivalità (vera o presunta) con i Beatles, del sanguinoso ricordo di Altamont, del manager Allen Klein, che più di qualche problema aveva dato anche ai Fab Four, dell’esoso fisco britannico e della mefitica stampa inglese. Sentite un po’ cosa scriveva il Melody Maker all’alba del 1970: “Hanno avuto fortuna, ma ora devono ammettere che hanno fatto il loro tempo”. Un altro magazine si chiedeva: “Cosa può fare uno Stone a quarant’anni? Uno Stone di mezza età è la cosa più triste del mondo”. Ancora un altro rincarava la dose: “E’ inconcepibile immaginare Mick Jagger a cinquant’anni”. Per concludere con lo sproloquio sesquipedale, offensivo e volgare del critico Nick Cohn: “Se hanno un minimo di pudore si ammazzeranno in un incidente aereo prima dei trent’anni”.
E’ per tutto questo che il 1971 può, a ben diritto, essere considerato un anno cruciale per le "Pietre Rotolanti". Due le ragioni: la prima riguarda il varo della loro etichetta discografica personale (quella della strafamosa linguaccia) (2), dopo anni di music business con la Decca; la seconda per la pubblicazione di un album epocale come Sticky Fingers, la più probante delle verifiche circa il momento d’incontrollabile incontinenza creativa che il gruppo stava nuovamente vivendo. Registrato tra i Trident Studios di Londra ed i Muscle Shoals in Alabama e prodotto da Jimmy Miller (3), una passionaccia per il suono black che lo portò a produrre le pagine più negroidi del rock d’Albione (Spencer Davis Group, Traffic, Blind Faith) e non (Delaney & Bonnie Bramlett), Sticky Fingers si attesta tra i classici degli Stones e in assoluto tra le opere fondamentali degli anni settanta. Un budget di 15.000 sterline e l’album può mettere in mostra una scandalosa cover art concepita da Andy Warhol (quante mani femminili abbassarono speranzose quella maliziosa cerniera…) che lo renderà una delle opere più riconoscibili (anzi, “La” più riconoscibile) della storia del rock. All'interno, oltre ad un testicolo che s’intravede sotto le mutande, un pezzo di plastica nero che su dieci brani poteva contare 10 capolavori che ne facevano un disco sboccato, maleducato e maledettamente bluesy, gocciolante di quella che la giornalista Edna Gundersen definì “la mistica degli Stones”. Un’immenso drug album, maledetto come Rock ‘n’ Roll Animal di Lou Reed o il coevo L.A. Woman dei Doors. Insomma, uno dei più riusciti patchwork che i cinque inglesi abbiano mai dipinto.
Sticky Fingers è infatti un piccolo gioiello dove trovare di tutto ed in cui mille influenze si mescolano magicamente: il rock di Bitch e Brown Sugar, due eccitanti nuovi standard rock (soprattutto la seconda) imbevuti di una sensuale carica rock/blues, il soul di You Got The Blues, che pare uscire da un album di Otis Redding, l’electric (moooolto electric!!!) slow blues di Sway con Mick Jagger alla chitarra (elettrica, è ovvio!) ed il contributo di – si dice – Pete Townshend e Ronnie Lane ai cori, lo spiritual trasandato di You Gotta Move che fu anche di Sam Cooke che la inserì nel suo capolavoro Night Beat, il country di Wild Horses (anticipata dalla versione dei Flyin’ Burrito Brothers) e Dead Flowers (coverizzata dai New Riders Of The Purple Sage) e melodie strazianti e malate che ricorrono ad una simbologia cruda che immortala un nuova gioventù bruciata come Moonlight Mile, arricchita dagli archi decadenti di Paul Buckmaster e Sister Morphine, scritta con Marianne Faithful e a lei dedicata. Una sequela di coup de foudre niente male per dei dinosauri miliardari che “avevano fatto il loro tempo”.
Il più clamoroso comunque si chiama Can't You Hear Me Knocking, oltre 7 minuti da infarto in cui la miglior rock 'n' roll band del mondo "bussa" alla porta del nuovo decennio mettendo in fila tutta la concorrenza e inscenando una rappresentazione che dopo oltre 45 anni lascia ancora il segno. I cinque sembrano degli extraterrestri: perfetti. Roccano e rollano con una naturalezza che noi comuni mortali nemmeno respirando. Impagabili!!! Eppoi l'idea di una rock song che ne contiene almeno tre: introduzione da urlo, dove, alla base di un contagiosissimo groove di basso, batteria, percussioni e piano elettrico (Nicky Hopkins) che si attorcilia su se stesso, potrete sdilinquire mica male prestando orecchie e cuore ad un sottofondo di organo (Billy Preston) che come un lenzuolo di cielo azzurro e arancione fa da telaio ad un riff assassino di chitarra carico di un potere simbolico/evocativo straordinario, che mette in vetrina tutto l’armamentario di cui Keith Richards è dotato. Ci sono le sue impronte digitali su quei due  minuti e mezzo sincopati che trasmettono con tremenda efficacia l’essenza del r’n’r, appiccicandosi alle orecchie e facendo muovere tutto il resto. “Il riff di Can’t You Hear Me Knocking mi arrivò volando – racconta il nostro – Ho trovato gli accordi e poi ho iniziato a nuotarci dentro, mentre Charlie ha iniziato a battere il tempo. Così abbiamo pensato, hey, è fortissimo. Attorno a noi tutti sorridevano. Per un chitarrista non è un evento eccezionale trovare la modulazione, gli stacchi, la  sequenza degli accordi. E’ tutto molto diretto e naturale”. Il tutto dura fino al minuto 2’43” e la canzone potrebbe anche finire qui. Ma è proprio a questo punto che si materializza un’altra magia. Una di quelle situazioni vere, lontane dallo scintillio edonista che di solito chiamiamo spontaneità. Can’t You Hear Me Knocking è una delle mie preferite” – ricorda Mick Taylor – La jam alla fine è stata causata da una specie di incidente che non avevamo programmato. Alla fine della canzone ho sentito che dovevo continuare a suonare. Tutti stavano riponendo i loro strumenti, ma il nastro stava ancora girando e il tutto suonava da Dio, così tutti hanno ripreso in tutta velocità gli strumenti e hanno ricominciato a suonare. E’ successo veramente così e tutto si è risolto in una buona la prima. Sembra che questa parte della canzone sia piaciuta ad un sacco di gente”.  Non sapevamo che stavamo ancora registrando – conferma Keith Richards – Pensavamo di aver finito. Ce ne stavamo andando ed il nastro venne fatto ancora girare. Immaginai che ci stessero sfumando. Solo quando abbiamo ascoltato il playback abbiamo realizzato. Oh, avevano continuato a registrare! Sostanzialmente ci siamo resi conto di avere due pezzi diversi di musica. C’è la canzone e c’è la jam”. Qui i musicisti si impegnano nell’edificare una costruzione d’impatto immediato: il lancio di una lunga jam tra soul e latin-rock in cui sembra che Santana (4) copuli con la Motown in un uragano di ritmi tribali su cui un ubriacante intreccio di sax e chitarra riversa un’intensa sensualità. Inconsapevolmente (ed una tantum, va detto) la band fa il suo ingresso in una twilight zone in cui tra la fine dei sassanta ed i primi settanta stava andando una parte considerevole della musica mondiale. Una sorta di meta-linguaggio raffinato e carnale al contempo, con perfezionismi tecnici di rara enfasi verso cui, in una sorta di chiamata universale pan musicale, si stavano dirigendo musicisti provenienti dalle più disparate direzioni (e qui di seguito andrò a citarne una parte infinitesimale): dal soul di marca Motown (i Temptations dell era Whitfield-Strong ma anche i Funkadelic di George Clinton), da quello di marca Stax (l’Isaac Hayes di Shaft e Hot Buttered Soul, senza dimenticare l’apolide incontinente James Brown), dal jazz (il Miles Davis elettrico da Bitches Brew in avanti ed i Weather Report di Boogie Boogie Waltz), dal latin rock (i Santana di Caravanserai). Dall’Inghilterra tutta la new thing dell’english jazz, anche se un po’ di straforo, ma soprattutto  i Traffic di The Low Spark Of High Heeled Boys e Shoot  Out At The Fantasy Factory ed i ghanesi Osibisa. Anche l’Italia diede il suo contributo: si chiamava Perigeo, cinque musicisti di provata levatura che diedero dimostrazione del loro visionario talento proponendo musiche di sensoriale bellezza, iridescenti sceggie di luce che infiammavano i colori di una scrittura votata ai pieni strumentali, così come alle sospensioni più eteree. Era un meticciato stilistico che inglobava nei suoi stilemi brani estesi (5), spesso dilatati oltre la soglia dei dieci minuti, atmosfere liquide, quasi psichedeliche, officiate da musicisti discepoli di una scuola virtuosistica che incorporava chitarre wha-wha, ogni tipo di tastiere, sfondi orchestrali, ritmi ipnotici e gran recupero di tribalismi in cui percussioni di ogni tipo salivano al proscenio guardando alla madre Africa. 
Il contributo degli Stones a questa musica fatta di archetipi sonori di mondi differenti è una straordinaria miscela che origina una febbre sonora su cui è bello concentrarsi. Iniziano le danze le percussioni del produttore Jimmy Miller e le congas del fedele Rocky Dijon (Sympathy For The Devil, Let It Bleed ma anche Stone Alone di Bill Wyman, e ancora Ginger Baker’s Airforce, Nick Drake, John Martyn, Stevie Wonder, Taj Mahal, Billy Preston, Hugh Masekela, Joe Walsh, Herbie Hancock), profugo ghanese fortunosamente approdato con un barcone sulle coste inglesi dopo un viaggio di settimane e successivamente introdotto alla corte di Jagger e Richards dal producer Jimmy Miller. La girandola continua con il sax di Bobby Keyes (un altro tipino mica male, perfettamente integrato nello smodato crazy world della band) (6) che ha agio di elencare in scioltezza i tratti somatici principali del suo solismo. La mente corre al lavoro (meno febbricitante, meno veemente, più riflessivo, pensato) di Chris Wood con i Traffic (stesso produttore: sarà un caso?) che lanciava grida alla luna dando un viraggio black alle canzoni del gruppo di Steve Winwood. “Bobby era un musicista molto fluente e melodico – ricorda Mick Taylor – Mi ha preparato qualcosa da seguire, e da cui uscire fuori”. E' così che, infine, sulla scena irrompe impetuosa, distendendosi e ritraendosi come un elastico, la chitarra di Mick Taylor, la cui diamantina limpidezza e le cadenze nervose in grado di graffiare sono distribuite a piene mani: "Mick era lirico” ricorda Watts "Aveva un orecchio così buono." L’eleganza e la forza di Taylor, le magistrali raffinatezze e le sue tirate bluesy vengono esibite su di un substrato di percussioni e organo che offrono un caleidoscopico tappeto di varianti ritmiche che ti scuotono le viscere e ti riempiono il cervello. Insomma la sceneggiatura di un rito che sarebbe passato alla leggenda. Un must!
Oggi, nel pieno di un periodo che faccio fatica a comprendere, mi arrogo il diritto di riservare un posto d’onore a questa stratosferica Can’t You Hear Me Knocking, alla sua patina di produzione d’altissimo lignaggio in vana attesa di quella del tempo, e agli Stones, quelli del ’71 e quelli di oggi che ancora girano in pompa magna e sono capaci di organizzare delle turneé di rutilante  immortalità rock ‘n’ roll. Del resto, quando uno nasce animale da palcoscenico ci muore anche. E mentre voi avete il fiatone solo per essere arrivati in fondo a queste righe seduti in poltrona, Mick (7), Keith (8), Charlie (9) e Ronnie (10) sono in perfetta salute e scaldano i muscoli in vista di nuovi traguardi. Gia mi pare di sentirvi: “Chi glielo fa fare?”. Keith lo ripete spesso a Mick: “Tesoro, gli Stones sono più importanti di noi due”.
Certo, un giorno o l’altro dovranno pur smettere, e il solo pensiero già mi fa tremare la voce e gonfiare il cuore, ma non c’e bisogno di aspettare quel brutto e livido giorno per sentenziare: “Come loro nessuno mai!”.

(1) Keith Richards, mai tenero con l’ex compagno: “Tutto ciò che ha fatto Bill è stato lasciare la band, avere tre bambine e aprire un negozio di fish and chips”.

(2) Il logo lips and tongue è nato dalla matita di John Pasche, uno studente del Royal College of Art. Ispirazione, la bocca “importante” (parole sue) del cantante della rock band (noblesse oblige) e la lingua (?) della dea indiana Kali. Un piccolo ritocchino lo diede anche Craig Braun, direttore creativo della Sound Packaging Corporation, che al tempo stava trafficando con Andy Warhol alla cover dello storico album della band e che intervenne su una versione ancora non finita del disegno. Il logo fu pagato al giovane designer soltanto 50 sterline, a cui se ne aggiunsero poi altre 26mila nel 1984 per le royalties. Pensate che, nel 2008, il Victoria and Albert Museum di Londra,  riuscì (facendo un ottimo affare) ad accaparrarsi il bozzetto originale per la cifra di 50mila sterline. Amen.

(3) Jimmy Miller, tossico senza (quasi) speranza, batterista a tempo perso, ma, soprattutto, grandissimo produttore discografico. Uno che condivideva tutto con i suoi musicisti: assieme a loro suonava (suo, tanto per fare un esempio, il campanaccio che si ascolta all’inizio di Honky Tonk Women degli Stones), componeva (mise il suo zampino nella stesura del testo di Medicated Goo dei Traffic, omaggio pieno d’amore al suono Stax) e, purtroppo si drogava. Durante le session di Exile On Main Street venne messo in piedi un baccanale, che vide Miller tra i pricipali protagonisti, dove alcol e droghe scorrevano a fiumi. Dopo l’uscita, nel 1973, di Goat’s Head Soup gli Stones gli diedero il ben servito perché era talmente fatto da non poter più fornire una prestazione professionale. Morirà nell’ottobre del 1994 per insufficienza epatica all’età di soli 52 anni. Oltre a Stones e Traffic, produsse per i Blind Fath, il supergruppo di Clapton, Baker, Winwood e Rick Gretch, Ginger Baker’s Airforce e, dopo un lunga pausa, Primal Scream (Screamedelica) e Motorhead (Overkill e Bomber).

(4) Ci vorranno quasi 40 anni per chiudere il cerchio. Nel 2010, infatti, Santana includerà Can’t You Hear Me Knocking in Guitar Heaven (sottotitolo The Greatest Guitar Classics Of All Time). La rendition si sostanzia in un febbricitante duetto di sei corde con Scott Weiland, il compianto chitarrista degli Stone Temple Pilot.

(5) Non è certo un caso se, di tutta la sterminata discografia della band, Can’t You Hear Me Knocking, con i suoi 7 minuti abbondanti, sia per lunghezza al quarto posto tra i brani stonesiani, gli altri essendo Goin’ Home da Aftermath del 1966, record assoluto con i suoi 11’16”, Sing This All Together da Their Satanic Majestic Request del 1967 (8’33”) e You Can’t Always Get What You Want da Let It Bleed del 1969 (7’28”)

(6) Bobby Keys che sfruttava gli alberghi del tour per farsi un bagno nel Dom Perignom, prosciugando la vasca a grandi sorsate. E questo non può che dare solo una pallida idea della sublimi vette dei margini del piacere toccate al confronto dai suoi datori di lavoro.

(7) Disse di Mick Jagger il prduttore Don Was (Bridges To Babylon): “Durante il tour di Bridges To Babylon provai a correre la distanza che che andava da una parte all’altra del palco e mi mancava il respiro dopo averlo fatto una volta sola. Mick fece la stessa cosa decine di volte – cantando intonato ed esibendosi per due ore. Questo tipo è sovrumano. E’ al tempo stesso un singolare fenomeno atletico e un’ingiustizia vivente: può mangiare quello che vuole, esibirsi in quella maniera e, ciliegina sulla torta, tutte le modelle sono sue”.

(8) Keith Richards nel 2003 circa, ma spero che anche oggi le cose non siano cambiate più di tamto: “Il fatto è che ho sessant’anni e ci sono ragazze di venti che mi tirano ancora le mutandine! Che devo dire alla mia signora, che mi servono per arredare la stanza?” E ancora, impagabile: “Io non ho mai avuto problemi con la droga. Ho avuto problemi con la polizia”.

(9) Charlie Watts su se stesso: “Mia moglie Shirley è una grande fan degli Stones, io invece no: è semplicemente quello che faccio”. E su Keith Richards: “Diciotto mogli e venti figli lo hanno fatto cavaliere fantastico!”

(10) Ron Wood oggi ha smesso di bere. Bere sul serio, si intende: tipo due bottiglie di vodka al giorno


Mauro Rollin' On The River Uliana

Penthouse Pauper - Creedence Clearwater Revival (1969)




Quattro eroi blue collar per antonomasia. Questo furono i Creedence Clearwater Revival e John Fogerty, un gruppo che sembrava uscire da un road movie  ed uno storyteller visionario e schiettamente realistico al contempo, pugnace e carico di compassione per la gente più umile, e che sparò in faccia al mondo un pugno di canzoni più intelligenti di quanto non dicano la camicia a quadri ed il look da cow boy del loro autore. E allora vi dirò di Bayou Country, album imbevuto di radici country-soul-blues e vibrante di piacere per il ritmo che dalla stagione dei grandi bluesmen di Chicago e dei fantastici cantanti soul di casa Stax e Atlantic sembrava essersi perso per strada. In particolare vi racconterò le nerissime dilatazioni rock blues di Penthouse Pauper, dove su di un tappeto ritmico di micidiale elasticità si libera una scorribanda di guizzanti stilettate e scariche elettriche, suonate da un uomo che torturava le chitarre quando Steve Ray Vaughan si faceva ancora rubare le merendine.











Una cosa è certa: dei Creedence Clearwater Revival e di John Fogerty, il ranger con note e silenzi, si è sempre parlato con parsimonia. Poca analisi, righe smunte e il Gran Concerto della Critica attento a non sprecarsi in grandi discorsi, ma bensì diligentemente in coda all’ovvietà, infiorando note e appunti di parole rade e tesi scontate. C’è una profonda ingiustizia dietro questo distacco: perché il gruppo ed il suo mentore hanno un ruolo grande e fiammeggiante sul teatro del rock più fiero e penetrante. Basta immergersi con avvedutezza e lucidità nell’oceano del suono Fogerty per accorgersene. Insomma, è tempo di sistemare le virgole in un campo pieno d’ombre e luoghi comuni, con l’obiettivo di far svanire all’orizzonte il noioso blaterare  che ha accompagnato quella musica mordace e quella voce senza posa.
Creedence Clearwater Revival rappresenta qualcosa di profondo, vero, puro; un qualcosa attraverso cui la luce filtra di continuo. Sembrerebbe lo sproloquio di un mistico, ed invece è ciò che si sentiva rispondere chi chiedeva lumi sul significato di quel nome stravagante dal Sig. John Cameron Fogerty, persona sanissima di mente, paladino della working class – Vedo le cose attraverso gli occhi della classe lavoratrice avrebbe dichiarato a Time nel 1969 e all’universo blue collar egli dedicherà alcuni dei suoi brani più veementi e carichi di colore – sinceramente antidivo, forse un po’ populista, misantropo quanto basta, fermamente socially conscious: Socialmente consapevole è qualcosa di più che impegnato politicamente – spiega il nostro – ti dà sempre nuove possibilità. E come nel baseball: sei sotto prima dellultimo inning ma hai ancora la possibilità per vincere.
E’ ad una manciata di grezzi tesori, ad un'insaziabile sete di spiritualità, alle inquietanti visioni del millennio di lì a venire che Fogerty ci propone, alla sua inesausta ricerca di cunicoli segreti che collegano la realtà quotidiana con dimensioni misteriche e trascendenti, alla sua voglia di scagliare frecce, al suo gusto di tagliuzzare la palandrana all’Estabilishment, di rubare il cappello allo Zio Sam e riempirglielo d’arsenico che appartiene l’essenza magica e pugnace del nostro uomo (Fortunate Son, Bad Moon Rising, Penthouse Pauper, Effigy sono confetti al cianuro la cui preterintenzionalità ha provocato le ire e gli strali di bacchettoni e benpensanti). E ad essi dobbiamo necessariamente rivolgerci se vogliamo comprendere quanto grande e sfaccettata sia la sua (loro) arte.
Un grande mausoleo discografico, insomma, un museo del Louvre che si erge irreale nel cuore del bayou, con Baron Samedì al posto di Belfagor e che immagino a forma di alligatore. Un misterioso  tempio pagano eretto al centro di un viscido e strisciante rettilario in onore di storie tenebrose, di inquietanti ballate e di una masnada di rock’n’roll back to basic. Questo il poco rassicurante edificio in cui vi invito ad entrare; ed esaminando il materiale esposto nelle sue teche vedrete che non mancheranno di emergere motivi di eccezionale interesse. 
Scegliamo di iniziare dal 1969, anno creedenciano senza tema di smentita. 3 albums e 4 singoli, tutti sparati al N° 1 delle charts americane (e non solo di quelle), sono un imprimatur difficilmente contestabile. E' Bayou Country, tempestivo successore del 1° omonimo album pubblicato nel '68 e primo dei tre licenziati da John Fogerty & pards in quegli incredibili 12 mesi, a segnare il cambiamento diventando il manifesto dell'estetica creedenciana: tra i suoi solchi viene certificato l'atto di nascita dello "swamp rock" o rock della palude, un'intuizione destinata a modificare radicalmente l'approccio sonoro del gruppo. Lunghe improvvisazioni, esposizione di più modi di comporre e soprattutto l'instaurazione di quei famosi dialoghi ancestrali, quel fosco ritmo bayou che si dipana tra il gris-gris di Dr. John e le notti della Louisiana. Ed è incontestabilmente con quest’album sontuoso che il destino di colui che era stato definito autore e poeta laureato in pop music  si compirà. Già durante le registrazioni del primo disco, infatti, John Fogerty si era proiettato sul nuovo progetto che sarebbe diventato l’autentico turning point programmatico per il nuovo corso della band di Berkley. Avevamo finito di registrare il primo album proprio quel pomeriggio e stavamo provando per suonare la sera dopo allAvalon. - ricorda John - Suonavamo e non pensavamo a ciò che facevamo ma proprio lì, in quel momento, mi venne lidea e cominciai a scrivere il pezzo; nessuno capì che stavo scrivendo una canzone, tutti pensavano che stessimo provando e scherzando un po. Così è nata Proud Mary  e nel giro di una settimana e mezza tutto lalbum. Alla fine mi scoppiava la testa e ho pensato: non è possibile che io abbia fatto tutto questo.
E’ da queste semplici premesse e spontaneità d’approccio che Bayou Country, rappresentazione in disco di uno scenario di mistero e piccoli brividi assolutamente originale, viene dato alle stampe nel gennaio 1969, giusto per non pubblicare un album dietro l’altro senza soluzione di continuità, come i forsennati ritmi produttivi e la straripante creatività di John Fogerty avrebbero richiesto. Straripante creatività e prove tecniche di leadership, o di talento, se preferite, giacché il nostro già  andava assumento letteralmente e sempre di più il controllo del gruppo, arrivando a costruire con caparbietà persino tutte le parti vocali (anche i backing vocals, intendo), dando inizio alla trasformazione dei conflitti di personalità, fino a quel momento latenti in seno al gruppo, in giochi di potere che avvolgeranno la band come una nube di tossiche e cattive vibrazioni, accompagnandola fino al giorno del suo scioglimento. Apparentemente, anche i Beatles sembravano formare un squadra omogenea, in cui cera un equilibrio tra i diversi contributi – spiegherà con più di una punta di veleno John nel 1997 – In realtà, tuttavia, covavano anche dei conflitti e talvolta la gelosia serviva da pungolo creativo. Allinterno dei Creedence, il talento era ripartito meno bene tra i quattro membri. Tutte le canzoni, linterpretazione e gli arrangiamenti venivano da me. Cantavo tutte le parti vocali. Ci fu il famoso incidente del ristorante italiano, alcune ore dopo che ebbi registrato tutte le voci in Proud Mary. Gli altri faticavano a mandar giù questa situazione. Salvo che non sapevano cantare. E semplice.
Parole dure, sferzanti, che, piaccia o meno, vengono confermate dai fatti: ché la disparità nella forza caratteriale e nel genio lucido e non trattenibile assopiscono l’orgoglio degli altri tre e John detterà legge dal primo all’ultimo solco, non solo strepitando a pieni polmoni, ma andando in paradiso tra una miriade di spezie e profumi che emergono e si fondono con la musica e che diventano marchio di fabbrica della band. Sarà infatti la prima volta dai tempi dei Golliwogs in cui egli riprenderà a suonare l’armonica a bocca, che gli aprirà varchi di nostalgia e nuove possibilità espressive, e soprattutto sarà, grazie al trattamento che fa subire al suo songwriting con un brano come Proud Mary, brano simbolo nella carriera del gruppo, col suo irresistibile appeal radiofonico, un successo incredibile di pubblico e critica che farà decollare il progetto e decreterà l’affermazione di Bayou Country.
Bisogna dire che tutto sembrò avvenire ineluttabilmente, come se l’album precedente avesse preparato il terreno per questo, visto che ci si trova tutto quello che farà dello storico quartetto un gruppo a parte. E’ il segno del cambiamento: tra i solchi di Bayou Countrycon la nascita dello swamp rock, oltre al suono del gruppo, verrà modificato il suo rapporto con la cultura del flower power, allora ritenuta vera ed unica essenza del politically correct in musica.
Aggirarsi tra quelle cosa era cool – racconta John - Comunque cera qualcosa che mi tormentava dentro. Avevo bisogno di cambiare pelle questo spiega sicuramente i miei numerosi riferimenti al voodoo. Dopo il successo di Suzie Q. avrei potuto, alletà di ventidue anni, essere tentato di sfruttare una formula ma, prima ancora che uscisse il primo album, avevo già iniziato a scrivere il secondo, Bayou Country. La mia prima moglie lo può dire, non dormivo la notte, vivevo in una specie di trance, bevevo moltissimo caffè e non avevo neppure la chitarra con me, fissavo il muro dellappartamento e cercavo di attraversare quellorizzonte proiettandomi in un altro universo. Dopo i Beatles e i Beach Boys, sapevo che, se limmaginario coincideva con la musica, io potevo creare non solo un mondo, ma anche un mito.
Da sempre John aveva subito il fascino della musica del sud degli States, musica nata nelle paludi della Louisiana, a New Orleans, a Baton Rouge, nei bayous (dall’indiano Choctaw Bayuk), spettrali e malsane pozze acquitrinose battute del vento ed infestate da famelici alligatori che contornano il delta del Mississippi. Lì, tra impenetrabili intrichi di mangrovie dove la luce del sole filtra a malapena, lo spirito di Slim Harpo convive con quello di Baron Samedì, principe del voodoo e signore del terrore, dando vita ad una musica misteriosa, inquietante, intrisa di atmosfere messianiche e riti pagani. Un sud sonoro mitizzato che trovava nuove posizioni sulla scacchiera dell’esistenza dei nostri eroi: con i riflessi di vecchi 78 giri e le ombre eterne del blues dei campi, con l’eco di spettri neri e lucenti che suggerivano  musica essenziale e con una chitarra e un’armonica allo sbaraglio che disegnavano fregi aurei, lungo le direttive scarne e strappacuore che erano state l’autostrada di tanto rock’n’roll seminato on the road e che John, con più di un’invenzione e ricamo personale, fece suo. Quasi un viaggio iniziatico il cui approdo sembrava essere lo stesso fatale ed emblematico crossroads di Robert Johnson.
 E se il rock’n’roll era sudista, egli decise che anche lui sarebbe stato sudista: Perché  sentenzia - tutto quello che ho imparato veniva dal sud. Tutti i grandi dischi o la gente che li aveva fatti, in qualche maniera proveniva da Memphis o dalla Louisiana o da qualche posto lungo le rive del Mississippi. Il mio sogno di vivere lì è durato tutta la mia vita.
Come mirabilmente osserva Joel Selvin nella sua colorata e ardente presentazione di Bayou Country, acclusa nel booklet di Box On The Bayou, cofanetto di sei CD ed opera archeologica di grande valore filologico sull’epopea della band, nato ufficialmente con l’intento di ordinare i molti materiali sparsi negli anni: Egli cominciò a districare Proud Mary, Born On The Bayou e Keep On Chooglin’ dalla bruma dei romanzi di Mark Twain che aveva letto a scuola, dagli scoloriti B-movies in bianco e nero di cacciatori di coccodrilli nelle scure paludi Cajun e da Will Rogers che cantava del capitano di un battello a vapore. Nellorecchio della sua mente sentì il Mississippi boogie di Bo Diddley e la voce fangosa di Howlin Wolf. Vide James Garner suonare sul battello bisca in Maverick. Sentì il tremulo vibrato della chitarra di Pop Staples e lagile soul di Booker T. & the M.G.s. Conobbe Elvis Presley ed i gialli dischi della Sun Records e bevve dal Mississippi River, una forza mitica nella storia dAmerica. Le stesse sante acque, se ci è concesso chiosare, da cui John esce battezzato.
Bayou Country fu registrato agli RCA studios di Hollywood, dove più celebri suole si erano già posate. Fu lì infatti che gli Stones officiarono il rituale dardeggiante di Satisfaction: una mitica session da Hall Of Fame e un inno di chitarre e calore che non misero in soggezione più di tanto John e pards, né gli impedirono di giocare felice  tra quelle stanze leggendarie, da cui la sua ispirazione eccentrica squadernò un ecclettismo salutare. Con un occhio che guardave la Mason-Dixon Line e l’altro che rovistava tra i canneti del blues, egli frastornò l’ambiente rock con un disco di irripetibile fulgore: il fiore del southern rock tirato fuori dalla sua pelle, tenuto per il tallone e immerso negli acquitrini della Louisiana. Finiti completamente gli interscambi con la schiuma della psichedelia e con i fermenti bohemiens delle strade di San Francisco. C’è una corrente nuova che percorre Bayou Country, una carica prodigiosa che l’attraversa e l’accende: e con quel ritmo, con i vestiti per metà classici e per metà nuovissimi di un suono inventato con genio, John arricchiva la sua ispirazione eccentrica con lunghe tirate bagnate di fango e illuminate di luna, spiate e colte attraverso un prisma unico, assolutamente personale, evidenziando una sanguigna intensità che saliva dal profondo dell’anima con i suoi umori blue. Nascono così brani di febbricitante fascino e tinte forti come Born On The Bayou e creature fuori dal comune come Penthouse Pauper. Capolavori come Proud Mary, un brano che è tutto e niente, ma dall’atmosfera regale e con la tenera presenza di un lirismo forte e indistruttibile, e melopee mortifere come Graveyard Train, canto d’amore e disperazione che riafferma la lezione del blues più sdrucito. Meraviglie fatte di country appassionato quali Bootleg e ritorni al castello del rock più nero e alla frenetica voglia di ritmo come Keep On Chooglin e Good Golly Miss Molly. E’ il momendo d’oro dell’artista maturo: senza puntigli trendistici, senza febbri di rinnovamento, ma con un suono sporco e penetrante che ben si muove nello sbrindellato cosmo della sua ispirazione. Il blues ha solidificato, John punta la Rickenbaker verso la luna (quella blu, se ci s’intende) e all’armonica è uno spettacolo; pare sia stato toccato dallo spirito di Baron Samedì, pare l’officiante di un rito voodoo e titolare di un carisma straordinario che gli permette di vestire idee, sogni, immagini di abiti sontuosi che incantano tutti; e tutto il gruppo sa viaggiare assieme a lui, con fiera sicurezza, al ritmo sanguigno di uno degli album cardine degli anni ‘60.
Ci chiesero cosa avremmo fatto dopo il primo album. - è il ricordo di John - La musica che io amavo veniva dal profondo sud. Mi piacevano le storie di voodoo, di serate umide e misteriose. Suzie Q. non ci differenziava granché dagli altri gruppi. Proud Mary cambiò di velocità, cambiò la storia. Veniva definito il nostro suono, il nostro universo. Il progetto iniziale era quello di creare una sorta di territorio musicale pieno di paludi, alligatori e fantasmi. Era il 68 e si cominciavano a vedere le forme che avrebbe avuto lo stile Creedence. Il gioco è dunque totale, l’artificio completo; Bayou Country è l’album che batte il tempo della nuova situazione, che chiude il cerchio del suono nuovo a tutti i costi e sbollisce i sacri calori della psichedelia che si infilavano un po’ di straforo nel disco precedente, dando modo alle songs dei Creedence di arricchirsi di ulteriori interferenze ed influenze dal passato. C’è tutto un mondo che ora ruota tra le mani di John: una dimensione  popolata di Cajun Queens e hoodoos, di battelli keep on burnin, rollin down the river e New Orleans, in un collage che sbuccia la mela della tradizione colpendo due bersagli contemporaneamente: riuscire deciso e pieno d’inidicazioni, senza correre troppo nel Paese di Alice, e continuare a banchettare con il vecchio blues. Laggiù, nel delta, a dondolar note da una veranda sul bayou o in un bordello di Storyville a soffiar d’armonica con smania violenta e con la voce che si contorce. E’ tutto il cosmo dell’artista e dell’uomo che si fa diverso, regalando all’ascoltatore momenti di pura evasione mentale ed al contempo sensazioni di sanguigno attaccamento alle proprie radici culturali. Tutto ciò senza che né John né gli altri avessero mai fatto conoscenza diretta con quell’ambiente: Anche se non ci avevo mai messo piede, vivevo nel loro mondo  spiega John - Ascoltavo dei dischi, trattenevo delle parole, cercavo di immaginare che cosa potesse essere la loro vita. Fantasmizzavo unesistenza ed un ambiente. Non cè nulla di nuovo in questo. I ragazzi di oggi lo fanno ancora. Ascoltano la musica nella loro camera con la luce abbassata. Io non avevo bisogno nemmeno della luce perché avevo un amplificatore con delle lampadine che diffondeva nella stanza un misterioso chiarore. Sono andato laggiù per la prima volta dopo luscita di Bayou Country. Il bayou è qualcosa di affascinante, inquietante e tremendo. E una cosa che luomo non può né capire né distruggere perché cresce troppo velocemente. E poi continua: In quel viaggio non preparai assolutamente nulla. La prima volta, sono arrivato a New Orleans, ci ho passato due giorni perché è una città che amo soprattutto il French Quarter. Poi sono risalito fino a Hattiesburg, che non è nel Delta. Avevo mancato il bersaglio. Sono rimasto lì cinque o sei giorni e poi sono tornato a casa. Il mio secondo periplo lho preparato molto meglio. Ho letto libri più completi sullargomento, libri sul blues e sulla storia della regione. La prima cosa che ho imparato è stata che è più comodo partire da Memphis. Sono andato a Clarksdale, la città più importante del Delta, e lì ho comprato dei dischi in vinile che ho registrato su cassetta per poterli ascoltare in macchina. Prendevo appunti su dei blocchetti. Avevo con me anche una macchina fotografica. Senza saperlo, lavoravo come un giornalista. Spiavo le cose. La signora Hill pensava che facessi delle ricerche per scrivere un libro. Gestisce il Riverside Hotel di Clarksdale sin dallinizio degli anni 50. Un tempo John Lee Hooker era il suo socio. Prima, era lospedale della città, quellospedale che nel novembre del 1937 rifiutò di accogliere Bestie Smith dopo il suo incidente stradale, perché era nera. E lei morì. Poi è diventato un albergo che aveva tra i suoi clienti Ike Turner, che suonava con i Kings Of Rhythm e che risiedeva lì prima di partire per Memphis per registrare Rocket 88, considerato il primo pezzo rocknroll della storia. Era così che accadevano le cose. Io cercavo di capire come e perché fosse nata questa musica. Non sono ritornato con una risposta scientifica, ma so che se allepoca eri nero e dovevi scegliere tra diventare un musicista e lavorare in un campo di cotone dallalba al tramonto, con una temperatura di più di quaranta gradi, la scelta era evidente. Ecco perché cerano così tanti bravi musicisti. Eppure questo non spiega tutto, non spiega perché questa musica sia così avvincente. Forse cè un rapporto con la terra o con laria, non lo so. Suonavano il blues anche in altre regioni degli Statu Uniti, in Texas, nei piedmonts della Georgia, ma quello suonato nel Delta era più intenso e ispirato di altri. Nella musica di Robert Johnson cè una dimensione metafisica, ma anche un rapporto con il sovrannaturale. Lui viveva nellossessione di qualcosa, e si sente. E numerosi musicisti di quellepoca e di quella regione possedevano un potere di cui ignoro la natura. E, nella misura in cui erano molto coscienti di questo potere, temevano che si ritorcesse contro di loro. Questo elemento ha influito molto nelle mia creazione con i Creedence. Essere là, dove erano stati quegli artisti leggendari, camminare dove loro camminavano, mi ha dato molta ispirazione. E curiso vedere come tanti grandi musicisti provengano da unarea così piccola una sorta di Terra Santa.
Non sapevamo se le cajun vibrations avrebbero smesso di parlarci – puntualizza Stu Cook, l'occhialuto bassista – Nessuno di noi in vita sua era mai stato in Louisiana o nel bayou. John ha adottato il concetto del Mississippi River e noi lo abbiamo fatto nostro. Le nostre influenze musicali sono blues, country ed i primi artisti rocknroll come Elvis, Fats Domino, Little Richard, Ricky Nelson, Jerry Lee Lewis e così via.
La cosa funzionò molto bene per noi  conclude Clifford, l'uomo dietro i tamburi  Il suono della voce di John ed il nostro modo di suonare insieme ci faceva apparire come dei ragazzi della Louisiana. Persino la stessa gente della Louisiana pensava che fossimo loro conterranei.
Per chi scrive non è assolutamente facile parlare di Bayou Country, dato l’amore che mi lega a questo pezzo di plastica nero (niente CD a quei tempi!), che potrebbe farmi apparire poco obiettivo. Questo disco è stato infatti l’inizio di tutto. Letteralmente. E Proud Mary in esso contenuta, il brano che mi convinse con tanta irresistibile rapidità, costituisce il mio primo e decisivo  heavy petting con il rock. Già avevo provato ad appendere il mio cuore al pop genialoide dei quattro di Liverpool, al rock postribolare di Jagger e Richards, alle suggestioni agresti dello Zimmerman post incidente motociclistico, alle geniali allucinazioni di Hendrix; ma la molla che mi fece entrare in un negozio di dischi per acquistare il mio primo pezzo di vinile è stata Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, nell’estate di un 1969 ormai lontano e appeso al reame sempre più sconfinato dei ricordi. E ad ottobre, già tra i banchi di scuola, fresco reduce dai loro ultimi singles  – Bad Moon Rising/Lodi, Green River/ Commotion  visto che i 45 giri non erano più sufficienti a saziare la mia sete di musica e che l’idea che esistesse una dimensione più estesa del mio gruppo preferito mi eccitava, eccomi pronto al salto di qualità, e per la modica cifra di – udite! udite! - £. 2.700 (bei tempi, eh?) a conquistare il mio piccolo trofeo: quell’enorme padellone di 30 cm. di diametro che mi soggiogava ed esaltava al contempo. Sembrava una gran cosa; la copertina con le facce dei quattro in primissimo piano e l’ancor più intrigante lettura dei tempi di durata dei brani mandavano lampi di Fillmore West ed irresistibili tepori californiani. Uno shock culturale. La definitiva consacrazione del mio personale mito. Graveyard Train 832! Keep On Chooglin 740! E Born On The Bayou?! 5’10”!!! Di oltre un minuto più lunga che nel 45 giri!! Sicuramente poco a che fare con trastulli da ragazzini da ascoltare in spiaggia col mangiadischi. Sembrava piuttosto avere, quello strano oggetto, obiettivi diversi e tessere una rete più ampia. Roba da non prendere alla leggera, insomma. Osservando poi quei volti effigiati con effetti flou, al timore reverenziale si aggiungeva la curiosità ed il mistero: quale era John Fogerty? A giudicare dalla voce, quello con barba e baffi. Ed il fratello Tom? Senza dubbio quello con gli occhiali, vista l’evidente somiglianza. Il biondo era certamente Doug Clifford, mentre quello coi baffi, in basso a sinistra, aveva una faccia da Stu Cook. Andò così. Veramente! E mi ci vollero alcuni mesi a pane e Ciao 2001 (all’epoca il magro convento dell’editoria musicale dello stivale – dei miei stivali? - non passava altro) per realizzare che non ne avevo azzeccato nemmeno uno!!!
Tornato a casa eccitato, misi il disco sul piatto e dai rachitici altoparlanti del mio Loewe Opta simil-mobile bar con braccetto di mezzo chilo uscirono dei ganci tremendi. Un’esperienza di teletrasporto direttamente ai piedi del Golden Gate, per poi perdersi oniricamente tra i cieli perennemente cobalto di California e i suoi assolati deserti rosso mattone: due strappi di Keep On Chooglin, giusto l’inizio di Penthouse Pauper ed il favoleggiato incontro per la corona dei pesi massimi rock’n’roll era già bell’é finito, con uno spietato K.O. tecnico a favore di Fogerty & C.
Fuori dal comune è certo la materia di cui è fatta Penthouse Pauper: spirito rock in odore di Memphis sound marchiato a fuoco dalla passione per il suono southern (se ne sono accorti, nel 1980, anche i Molly Hatchett di Beatin’ The Odds, senza peraltro uguagliarne la sensualità, persa in un incedere squadrato e pesante)  e le spinte rhythm’n’blues che le danno le coordinate del pezzo indispensabile. Ha la stessa intensità emotiva di Suzie Q., la varietà di esecuzione di Ninety Nine And Half (Won’t Do) e la carica dirompente dei concerti. Qui la voglia di torturare le corde delle chitarre che pervadeva il precedente album non è più trattenibile: sincopata e funky quella di Tom, lancinante e tesa a far slalom tra gli accordi quella di John, un solista spavaldo e ribollente che si muove sul filo del virtuosismo e che dialoga con irruenza e caparbietà rugosa e flessibile, avendo ormai raggiunto la piena maturità dei suoi mezzi espressivi, ma che cerca soprattutto di dare un’impronta precisa al brano che risulta così una tra le sue prove più impegnative. Due chitarre entrambe amalgamate in un’atmosfera soulful, ma assorbite per intero in un sound diretto, cristallino, duro ed elettrico, mentre la sezione ritmica, con una serie interminabile di stacchi, controtempi e rullate, sembra frutto di un party tra le pareti degli Stax Studios con la prole degenere dei Muscle Shoals.
E poi la voce: un cantato di incontenibile levatura tecnico-stilistica e di terragna funkyness lirica, ad innervare un brano da ascrivere come momento magico di questo nuovo corso musicale creedenciano. If I was a ball player I wouldnt play no second string, canta Fogerty in una sorta di gioco del “se fossi”, palesando per la prima volta con un riferimento diretto la sua grande passione per il gioco del baseball ed arricchendo la sua dizione di istantanee oscillazioni sensitive, ondulanti e carnali nelle loro preziose sfumature costruite da simmetrie trascinanti e mai ambigue o gratuite; poi aggiunge, in ossequio alla tradizione verginale delle dodici battute e all’affermazione del suo individualismo esecutivo,If I were a guitar player, oh Lord, Id have to play the blues, per poi, ineffabile, concludere caustico e sferzante qualche verso dopo (e lascio a chi legge il piacere della traduzione): "If I were a politician I could prove that monkey talk". M-I-C-I-D-I-A-L-E!!! John Fogerty: chi tocca muore!
Possiede le stimmate del capolavoro, Penthouse Pauper, qualora non lo si fosse capito. Per via del suo rifare in superficie il volto del rock e del rhythm’n’blues e della “musica per tutti” più in generale; per via della libertà affermata in ogni sua riga; per via degli schemi azzannati e deglutiti attimo dietro attimo e per il correre felice degli strumenti lanciati fuori orbita. Odio graduatorie e stellette di merito, ma qui siamo al cospetto di un indispensabile documento artistico e culturale, composizione e performance centrali del songbook della band, in cui vengono unite mirabilmente ricerca e tradizione, creatività e buon gusto. Un discorso in musica ove suoni, colori, emozioni, un senso di grande potenza sonora tenuto sotto controllo perfetto, mai meno che affascinante, ed il fluire delle idee in continuo divenire sono il presupposto per l’immortalità dello spirito. Importante non solo per il suono e la pianificazione armonica dell’insieme, ma anche per la sapiente rivisitazione delle nevralgiche coordinate rock-R&B che la formazione ha saputo compiere. Grandissimo. Non c’è da aggiungere altro.


Mauro Rollin On The River Uliana

mercoledì 27 settembre 2017

Stairway To Heaven - Led Zeppelin (1971)



Con Led Zeppelin III i Led Zep dimostrarono la capacità di evolversi dall’etichetta tanto prestigiosa quanto potenzialmente e pericolosamente limitativa di “inventori dell’hard rock”. Ma è con l’ecumenismo di Stairway To Heaven del quarto album che il gruppo di Jimmy Page e Robert Plant cambia radicalmente le regole del gioco. La diversità di profondità ed il cambio di passo e di spessore sono evidenti rispetto alla pur sorprendente malia di tutta la loro precedente (e successiva) produzione. E’ un sostanziale e poderoso balzo in avanti, il culmine della loro creazione che può a ben ragione essere considerato un fulgido esempio di crossover ante-litteram. Una prima parte meditata che sfiora le corde di uno spleen mesmerico e che paga un evidente debito al folk inglese, cui si sostituisce l’andamento nervoso, tanto energico quanto dionisiaco di spasmi e furore, di una sconvolgente seconda parte, fioritura meravigliosa che incendia e santifica il rock ‘n’ roll rileggendo con energia e vigore ineguagliati la cruda energia di qualunque altro sabba elettrico. La perfezione fatta canzone.



Cosa si può dire del brano per il quale negli ultimi 50 anni si sono spese più parole? Che ancor oggi è uno dei pezzi più richiesti presso le radio FM americane? Che quando qualcuno indice un sondaggio sulla canzone più bella di tutti i tempi è immancabilmente votatissimo, quando non il più votato? Non è (più) una canzone, questa: è un’icona, un manifesto. “A sort of white and black pop-rock quasi-classical R&B-infused heavy metal folkie vaudeville-operatic Presley-ballad thing” come da impagabile definizione del giornalista Phil Sutcliffe che di proposito lasciamo in originaleSono i Led Zeppelin messi in formalina nel 1971 e fissati per l’eternità.
Odiata dai punks, che sulla “Scala Per Il Paradiso” ci scatarravano su (e che noi mandiamo tranquillamente a farsi fottere), comunque la si pensi questo è l'asso di cuori nella carriera dei Led Zeppelin, la canzone che ha fatto dello storico quartetto un gruppo a parte mandandolo in paradiso (è il caso di dirlo) tra una miriade di spezie e profumi che emergono e si fondono con la musica e che aprono varchi di nostalgia e nuove possibilità espressive. La “band del dirigibile”, si sa, fu foriera di un viscerale espressionismo, un suono capace di estasi melodiche e sfregi ultra rock, di chiaroscuri semifolk e fanfare in libertà, sul bordo sottile fra la purissima luce di ballate cesellate e l’ipnosi di assalti smagliati e carnivori, fantasie guerriere in cui Robert Plant, efebico angelo biondo dallo spiazzante fascino androgino, con la sua voce magnetica e deragliante si inerpicava su vette himalaiane, mentre gli altri Zeppelin facevano la parte di invasori vichinghi che saccheggiavano, violentavano, incendiavano. Giusto per portare il discorso fuori dall’ambito del normale e dell’inevitabile.
Una band destinata a lasciare il segno, questo furono i Led Zeppelin: quattro cavalieri dell’Apocalisse che hanno saputo fondere come pochi altri, in una vera chiamata universale che raccoglie suoni antichi e moderni, la tradizione anglo-scoto-irlandese con una spessa trafila di grasso rock’n’roll. Un volo verso empirei mozzafiato ed altrettanti mozzafiato martellamenti. Veniva così ritoccato con orgogliosa finzione un passato musicale che pure “doveva” risaltare, essere tappeto volante per le loro visioni bifronti. Quelle che tolsero di peso il gruppo dalle secche della normalità e che, a ben vedere, era lo stesso ruralismo evocativo, quel carattere real and raw in cui il passo di chitarre elettriche e tastiere si confrontava brillantemente con reminiscenze folk e che informava l’opera di altri gruppi coevi come Jethro Tull, Traffic, Family: tutti meravigliosamente eclettici e tutti dediti ad un artigianato musicale che cercava contatto/contaminazione con tutto ciò che costituiva la Babele delle lingue affastellatesi in quegli anni magici. 
Fu veramente un’esaltante epopea quella che i nostri contribuirono a caratterizzare tra i morenti anni sessanta ed il nuovo decennio: una manciata di anni che videro il dirigibile degli Zeppelin sorvolare come un gigante maestoso i cieli rock, lasciando dietro di sé la spirale di un incendiario rifferama cosmico, alternato ad un’estasi di suoni che sapevano di corteccia e di muschio.  Fu, quel volo, uno slancio verso l’Atlantide del suono, un suono strano, un ininterrotto e frenetico andirivieni di estri come cirri in capricciosi cieli di primavera; un orgia di cose inaudite in cui rinnovamento e riflusso di intenzioni andavano a confondersi in un gorgo comune che con la sua anima paradossale era luogo dello spirito più che tratto stilistico definito. Un suono che era miracolo dolcissimo e arazzo sanguinate, e che in definitiva era essenza naturale dello stesso.
Per i Led Zep la salita della “Scala Per Il Paradiso” inizia fin dal ’69, da quel magnetico primo album contenente alcune isole bucoliche in mezzo ad un oceano di ribollente rock-blues: Babe, I’m Gonna Leave You, stupenda e drammatica; Black Mountain Side, già nel repertorio degli Yardbirds di Little Games (di cui Jimmy Page era stato il chitarrista) con il titolo di White Summer che a sua volta era una “libera interpretazione” (ehm!!) di Backwaterside di Bert Jansch, gemma incastonata nello stupendo Jack Orion, misconosciuto gioiellino folk datato 1966. Anche il veemente Led Zeppelin II contiene un episodio ove la band risciacqua i panni in chiare, fresche e dolci acque, costituendo così un quadro dai gocciolanti colori: parlo della struggente Thank You che si immerge in un bagno di tenderness e su quel diapason Page accorda chitarra e cuore. Ma dove l’anima folk della band romperà gli argini sarà nel 1970, all’altezza del terzo album, dove i quattro, ritiratisi in monastica clausura nel cottage gallese di Bron-Y-Our (mancava persino la corrente elettrica), si nutriranno dello stesso cibo per l’anima che imbandiva il desco di Fairport Convention, Steeleye Span, Pentangle, Incredible String Band e tutto l’esercito di bardi e druidi che sarebbe troppo lungo citare.
Ma ancor prima, Jimmy Page, nel suo girovagare come “pistolero a pagamento” più impiegato negli studi della Londra che stava per diventare swinging,  aveva prestato orecchio a ciò che avveniva in quelle contrade, dove gli alti lai al passato british echeggiavano dal repertorio di gente come Bert Jansch (grande influenza per Page), John Renbourn, Martin Carthy e via folkeggiando. Con due delle menti più belle di questa felice new thing del folk il nostro si spinse anche oltre la soglia dello studio di registrazione. Parlo di Roy Harper, grande amico della band (e dei Pink Floyd), nonché stralunato starsailor e titolare di un songbook fatto di ballate visionarie e folk intergalattico. Sparse nella sua corposa discografia, sono ben 10 le canzoni ove è possibile bearsi al suono dei mosaici chitarristici di Page e qua e là, sbirciando tra i credits dei dischi del cantautore di Manchester, fa capolino pure il basso di John Paul Jones. L’incontro decisivo, però, sarà quello con il menestrello scozzese per antonomasia: Mr. Phillips Leitch in arte Donovan. Alla sua corte, Page metterà a disposizione il succo invincibile delle sue stoccate chitarristiche già nel 1966, quando distillerà la sua anima rock all’alambicco fiorito di Sunshine Superman. Ancora John Paul Jones, lo schivo bassista del “dirigibile”, l’anno successivo, a quattro mani con il mitico produttore Mickie Most, sarà alla consolle di regia, dove, tra atmosfere folksy e intuizioni jazz,  ammanterà di un colorato tessuto pop/folk e pennellate di tinte psichedeliche gli arrangiamenti di un altro capo d’opera donovaniano: Mellow Yellow, raffinatissimo masterpiece dalla solare e vivace vena creativa. L’anno che seguirà vedrà di nuovo Page dedicarsi all’assalto alle corde della solista nella fatale Hurdy Gurdy Man, uno dei frutti più lirici e affascinanti che gli Arcani aggirantesi intorno al ‘68 abbiano fatto maturare in terra d’Albione ed in cui una fantasmagoria di corde torturate intrisa di polpa rock sanguigna in salsa forte, a base di watt, decibel e guarnizioni “lisergescenti”, riuscirà a fondersi con il linguaggio eccitante e ultra-moderno di chitarra ritmica, basso e batteria (suonata da John Bonham… ma guarda un po’). Si può senz’altro credere allo stesso Donovan quando affermò che fu proprio la recording session che diede vita a Hurdy Gurdy Man la molla che fece scattare nella mente di Page la decisione di fondare gli Zeppelin, assorbendo da lì quella magica essenza a due facce che sarà per molto tempo tratto distintivo del dirigibile.
E così il cerchio si chiude riportandoci a Stairway To Heaven, un inno che, come i brani del terzo album, viene concepita durante un secondo ritiro nel fatidico cottage gallese di Bron-Y-Our e si materializza attraverso i riflessi folksy che i tanti troubadours d'Oltre Manica stavano regalando al popolo del rock, correndo decisi nel Paese di Alice ed al contempo ribadendo un sanguigno attaccamento alle proprie radici culturali. Page e compagni si affidano ad un arpeggio da madrigale di chitarra acustica e ad un flauto (per essere precisi un recorder, parente prossimo del flauto) dalle struggenti suggestioni atmosferiche che disegnano fregi aurei lungo le direttive scarne che erano state l'autostrada di tanto folk-rock. La voce di Plant si muove con la tenera presenza di un lirismo forte e indistruttibile in una melopea dalla rigorosa severità antica. Poi una corrente nuova inizia a percorrere il brano, una carica prodigiosa che l'attraversa e l'accende: vestiti per metà classici e per metà nuovissmi di un suono inventato con genio e colto da un astrolabio unico, personalissimo. Dietro i tamburi John Bonham inizia a squadernare una vibrante e sanguigna intensità: tinte forti e febbricitante fascino innervano la song, mentre volano alti i fantasmi dalla solennità, raggiungendo ineluttabilmente lo zenith nel grande libro dell’art rock britannico. Infine il dirigibile s’incendia: Page punta la sei corde alla luna ed inizia a bruciare micce colorate, dando vita ad un impetuoso ed aureolato fluire d'immagini. Pare toccato da una stella in una notte speciale, pare abbia ricevuto per vie sconosciute il potere di vestire le note di abiti sontuosi e tutto il gruppo sa viaggiare con lui al ritmo infinito di un brano leggendario.




P.S.
Attorno ai miti crescono le erbacce. Diventare mito vivente significa inevitabilmente trasportare nella propria scia un corollario di effetti collaterali, spesso sgradevoli, e di leggende metropolitane dalla dubbia veridicità, quando non  di autentiche e imbarazzanti miserie umane. E’ tutto il cosmo dell’artista e della sua opera che si contamina; e nel caso di Stairway To Heaven, canzone mito di un gruppo che mito lo è già di suo, è facile immaginare come attorno ad essa abbia preso vita uno stupidario che farebbe invidia alla scaletta di un pomeriggio con Barbara D’Urso.


Capitolo 1° - Integralisti cristiani. Fra le leggende sulla canzone c’è quell’insensata cazzata che vorrebbe contenuti, nascosti tra i solchi e registrati al contrario, messaggi subliminali di origine satanista. L’assurda idiozia, risibilmente fatta circolare da alcuni  integralisti cristiani, prese a diffondersi causa la passione di Jimmy Page per l’occultismo e la sua fissazione per il mago inglese Ailester Crawley. Va da sé che Page smentì categoricamente i deliri messi in giro da quelle teste di cazzo. « Per me è veramente triste, perché Stairway to Heaven fu scritta con le migliori intenzioni, e per quanto riguarda messaggi registrati al contrario, non è la mia idea di fare musica. »

Capitolo 2°- Miserie umane. Bisogna sempre fare i conti con gli eredi. La vicenda più rivoltante fu infatti l’accusa mossa al gruppo dagli eredi di Randy California, compianto chitarrista dei californiani Spirit, i quali per soddisfare un poco giustificabile e comunque basso, bassissimo, esercizio di avidità e cinismo loffio, non trovarono di meglio che accusare i quattro inglesi di plagio nei confronti di Taurus, escursione strumentale in allucinate atmosfere amniotiche, rarefatte e uterine che il quartetto della west coast inserì nel loro omonimo 1° album del 1968. Accusa giustamente caduta proprio in questo 2016 con i Led Zeppelin assolti dopo un estenuante processo. Basta un raffronto tra i due brani per capire come l’improvvida iniziativa legale altro non fu che una forzatura imbarazzante. Il che ci induce a considerazioni amare sulle bassezze di cui è capace l’essere umano e ci porta con un pensiero affettuoso al povero Randy California, costretto, lassù, a guardare, accidioso ed infelice, allo squallido tentativo di lucrare sul suo lavoro che stavano mettendo in atto, quaggiù, quegli stronzi dei suoi eredi.

Capitolo 3° - La canzone non rimane la stessa. Innumerevoli gli artisti che si sono genuflessi davanti al brano della “signora che è sicura che tutto ciò che luccica sia oro”. Due su tutti: Frank Zappa che nel 1991 si inchina deferente fornendoci una calligrafica rendition che potrete trovare in The Best Band You Never Heard In Your Life, live album che documenta il tour del 1988, e che inopinatamente, visto il personaggio e la sua naturale inclinazione allo sbeffeggio ed a sarcastici commentari sociali, nulla aggiunge e nulla toglie all’originale del dirigibile. Senza dubbio più impertinente l’improbabile omaggio/parodia in salsa reggae con cui, sempre nel ’91, si cimentano gli irriverenti Dread Zeppelin (come dire: un nome un programma) in 5.000.000 Tortelvis Fans Can’t Be Wrong, il loro secondo scanzonato album che in un sol colpo sbeffeggia sia Zio Elvis (nel titolo) che gli Zeppelin, grazie ad una copertina che fa ironicamente il verso a quella del 4° album di Page e soci. Al suo interno simile trattamento è riservato ad altri quattro brani ledzeppeliniani: The Song Remains The Same, When The Levee Breaks, Misty Mountain Hop e Nobody’s Fault But Mine che  per l’occasione viene ribattezzata Nobody’s Fault Butt Mon.
E’ tutto. E che Dio salvi Jimmy Page, i Led Zeppelin e la scala per il paradiso. Passo e chiudo.


Mauro Rollin’ On The River Uliana

editoriale

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