Non ha mai ammazzato le classifiche, John Martyn,
ma più di qualche danno coronarico l’ha procurato in chi ha sete di bellezza.
Partito nel 1967 come folksinger che strizza un occhio al songbook dylaniano ed
un altro allo sterminato portfolio della ricchissima tradizione
anglo-scoto-irlandese, approda nel 1973 a Solid Air,
zenith di un adamantino percorso musicale che trae cuore da acoustic music,
canzone d’autore e lunghe ed estatiche improvvisazioni jazz. Solid Air è
un lussureggiante mondo di sincopi e trasognate atmosfere che si liquefano in grappoli di note di vibrafono, maliose rigeneranti brezze di sax e contagiosi tocchi d'organo. Su tutto il canto impressionistico di Martyn, ora licantropico ora pronto ad inabissarsi in oceani contrappuntati d’amore. "Navigatore delle stelle" come Tim Buckley e l'amico Nick Drake, Martyn pone la sua firma in calce ad un disco da isola deserta di disarmante bellezza, vero kooh-i-noor del cantautore scozzese. Capolavoro.
giovedì 19 ottobre 2017
New Year's Day - U 2 (1983)
Ci sono molti modi, tutti validi e nessuno censurabile, per avvicinarsi a questi Dubliners che hanno riscritto le sacre grammatiche del rock. Il primo è continuare a riscaldarsi al fuoco indimenticabile dei primi anni, nel nome dell’amore, l’ultimo è comprendere che i passaggi di tempo portano con sé ascese e inciampi, notti buie e giorni radiosi e che dunque chiedere sempre il massimo non ha senso, non è giusto. Ognuno ha le sue istruzioni per l’uso, per volare con gli U2. Con o senza cinture, con o senza nostalgie. Ma comunque sempre con loro, senza dubbio. Il profilo dei primi U2 era quasi eroico. Quattro guerrieri bibilici. Facce contadine scolpite dall’Irlanda che cantavano di cieli rosso sangue. Come dei profeti dell’apocalisse. Emotivi e drammatici, enfatici di una teatralità tipicamente anni ’80. I dischi e il successo internazionale arrivano presto per gli U2, e il boss dell’Island, Chris Blackwell, non sarà costretto a mentire al mondo affermando che “gli U2 sono l’unico vero gruppo rock moderno perché sono i soli ad aver creato un seguito, una fede, una nuova forma di culto”. Poi sono diventati adulti senza diventare vecchi. Miracolo dell’arte, regalo assoluto alla musica. Per sempre giovani, come cantava Dylan. Per sempre U2, dicono altri. Anche quelli che li amano di meno ma non vogliono (o non possono) farne a meno.
Si dice che gli irlandesi siano cocciuti, gli U2 lo provano con la loro storia. Una storia, quella discografica, che dopo alcuni singoli giunge ai primi due album, Boy e October, troppo ingenui ed innocenti per non riscuotere il nostro affetto. A quel tempo, un po’ superficialmente, i nostri appaiono come un gruppo straordinariamente convenzionale. Questi quattro ragazzi irlandesi dimostrano di aver imparato a suonare degli strumenti per raggiungere tre obiettivi: distrarsi dell’eterno sovraccarico d’energia, far risollevare i loro compatrioti e sfondare le porte ancora chiuse del rock. Dopo aver fatto, nel giro di un anno, due o tre tournée nei club londinesi, hanno subito raggiunti i primi due e, verosimilmente, si sono avvicinati al terzo. Erano gli inizi degli anni ’80, un periodo in cui il rock ‘n’ roll era stato dato per disperso, quando lo sguardo pallido e timido di un ragazzo, sorta di Gesù Bambino crocefisso (ma potrebbe essere anche una versione bambina del nuovo sciamano del rock, riproducendo una posa classica di Jim Morrison) apparve sulla copertina di Boy, esordio esemplare per osservare il punk trasfigurarsi in new wave. Boy non ha niente di una modesta balbuzie. Perché gli U2, nello spazio di alcuni singoli, hanno avuto il tempo di trovare un suono deciso e personale. Tra il 1980 ed il 1981 sentire una chitarra come quella che apriva I Will Follow, per lungo tempo uno dei loro cavalli di battaglia on stage, era una rarità e altrettanto impossibile era sentire un cantante che sciorinava canzoni con aria da sciamano, come era successo soltanto con Jim Morrison. Il problema iniziale degli U2 è quello di un gruppo assolutamente brillante, giustamente fiducioso in se stesso, ma che scopre la propria personalità quasi casualmente. La presenza di Steve Lillywhite come produttore li aiuta a scoprirsi più fragili e meno grandiosi di quanto essi stessi non credano. Ed è proprio questa breccia involontaria che li rende appassionanti. Gli U2 o la timidezza espressionista. Il mistero si dirada e la marcia prosegue. Gli U2 non attingono a nessun culto. E’ il genere di gruppo che può solo andare verso la popolarità.
L’esordio di Boy ruppe il ghiaccio e gli U2, con l’ingenuità tipica dell’età (allora avevano vent’anni a testa, poco meno o poco più), tentarono di bissare il clamore suscitato dal loro primo disco senza cambiare molto: stesso produttore (Steve Lillywhite, che diventerà famoso per il suo big drum sound, un grande suono di batteria), stessa formula, stessa passione. Il risultato, come spesso succede quando si cerca un bis su tempi brevi, fu un disco bello a intermittenza: October, che aveva però il pregio di individuare alcune caratteristiche non comuni ai gruppi rock ‘n’ roll di quel periodo. Oltre al furore ritmico e chitarristico, cominciavano a emergere i testi di Bono e una certa predisposizione a interpretare il proprio ruolo con assoluta fermezza. L’album che ha fatto la differenza è stato War. L’ho scritto nell’introduzione a questo saggio: non amo le classifiche e le stellette di merito, ma ciò non mi impedisce di reputare a livello strettamente personale War, The Joshua Tree ed Achtung Baby i tre capolavori assoluti degli U2, e l’essenza di ciò che dovrebbe essere il rock ‘n’ roll a certi livelli. War è duro, granitico ma, come direbbe il loro manager Paul McGuinnes, ha il coraggio di esporsi alle contraddizioni e non a caso apre con la tormentata Sunday Bloody Sunday. War è il disco della svolta per gli U2 ed è il disco che li porta al diretto confronto con le lordure del mondo. Dalla sua pubblicazione, è il 1983, l’attitudine esplicita degli U2 diventa un naturale marchio che si proporrà, anche se mitigato rispetto all’irruenza iniziale, negli album successivi.
Nel 1983 la band irlandese, per la
prima volta con consapevolezza e forza assolute, cerca di incontrarsi con la
storia. Nel loro viaggio in cerca di un’identità, gli U2 hanno provato
ripetutamente a sentirsi parte del corso degli eventi e War è stato un
disco che provava ad affrontare un intero mondo ferito dalla guerra e dai
conflitti. E’ proprio War, con tutti i suioi riferimenti alla Polonia,
all’Ulster, ai conflitti in generale, l’album che arriva più vicino
all’appuntamento con la storia. War è stato anche un album di reazione
alla musica (pop) dei primi anni ottanta e contiene la forza, l’energia, quella
magica coesione che è tipica di ogni rock ‘n’ roll band al suo stato migliore.
L’impatto, la fiducia, il futuro e il coraggio di sentirsi unici e, nello stesso
tempo, l’urgenza di dire qualcosa sono sono l’essenza stessa del rock ‘n’ roll,
che è quella di intervenire sulla realtà, che poi è stata una caratteristica
costante e coerente degli U2 sempre pronti a sobillare, sostenere, condividere
questa o quella causa. La convivenza con questa loro propensione ha, dunque,
radici lontanissime. La loro carriera, infatti, era iniziata proprio calamitando l’interesse sugli scottanti problemi della loro nazione,
quell’Irlanda protagonista di una guerra che risaliva a secolari cause
economiche e religiose. L’Ulster era alla ricerca di un’indipendenza che non
avrebbe mai trovato e gli U2 hanno mostrato una notevole sensibilità al
problema, anche se vengono da Dublino e non da Belfast, espandendo la loro
interpretazione oltre i confini nazionali tramite la musica. Tutto il mondo
vedeva in loro i cantori della speranza, rinnovando una tradizione che sembrava
averne chiuso il discorso molti anni prima, negli anni ’70. Attraverso un
crescendo di situazioni che li hanno voluti sempre più inseriti in un contesto
umanitario, gli U2 hanno raggiunto le grandi masse mondiali, e sono stati
indicati sempre più come guide spirituali. Live Aid è stata la più grande
vetrina musicale degli anni ’80, anche se sorretta da una buona causa, ed è lì
che che molti artisti hanno acquistato credibilità presso il pubblico, inclusi
gli U2. E’ lì, difatti, che hanno potuto mostrare tutto il loro attraente
fascino per una gioventù alla ricerca di modelli sul quale edificare un mito
per alcuni versi sproporzionato. Ma anche questo genere di risposta da parte
dell’audience non è una novità per il mondo del rock ‘n’ roll. Nel cosmo
musicale vi è sempre stato un gruppo catalizzatore delle folle giovanili, e
nessuno è riuscito, meglio di loro, a rappresentare gli anni ’80, che
sembravano destinati ad una superficialità ed una indifferenza priva di
precedenti, intensificando un risveglio delle coscienze su problemi di gravità
internazionali. Venendo a New Year’s Day, vediamo di
ordinare alcuni appunti. Che sia il piccolo capolavoro dell’album declinato con
la consueta nonchalance penso che il lettore l’abbia capito. Peana scritto in
apoggio al movimento sindacale polacco Solidarnosc di Lech Walesa (ma il tutto era partito da una canzone scritta da Bono per la moglie), la canzone alimenta ancora una volta l’aspetto prettamente
politico della band. La ritmica, guidata dalle poderose linee di basso di Adam Clayton (che ha trovato il bandolo della matassa casualmente durante un soundcheck, lavorando intorno al tentativo di riprodurre gli accordi di - udite! udite! - Fade To Gray dei Visage) ed il drumming preciso ed implacabile di Larry Mullen, colpisce allo
stomaco, anche se, pur non avendone la rigida freddezza, richiama
imperiosamente la pesantezza angosciosa dei Joy Division, mentre le incisive
armonie di chitarra di The Edge, che arabesca accordi all'unisono col pianoforte, mostrano che gli album dei Television non sono passati
inosservati a Dublino. Calda e vigorosa, la voce di Bono cerca di sbarazzare
dalla musica degli U2 tutto ciò che può renderla maligna, furba, obliqua, per
liberare un flusso passionale, contagioso e sublime. Tutto, nel loro caso, si
realizza nel superare ogni genere, nel non cadere nella tentazione di rotolare
con la ruota delle mode, nel fare della propria musica un qualcosa di unico e
d’inimitabile. Gli U2 si impegnano a fondo in un rock denso e
stridente, con una estrema ortodossia melodica e con un risultato
miracolosamente trionfante. Laddove altri si sarebbero impantanati in una
melassa imbarazzante, gli U2 riescono a trovare un soffio, una poesia e una purificazione. Per concludere, nulla ci sembra più adatto che chiosare con una dichiarazione di Bono che così si espresse nell'1983, subito dopo la pubblicazione di War: "Sarebbe stupido iniziare a tracciare linee di battaglia, ma penso che il fatto che New Year's Day abbia conquistato la vetta della la Top Ten abbia suscitato una delusione tra gli acquirenti di dischi. Non penso che New Year's Day fosse un singolo pop, certamente non nel modo in cui Mickie Most potrebbe definire un singolo pop come qualcosa che dura tre minuti e tre settimane nella classifica. Non credo che avremmo potuto scrivere quel tipo di canzone ".
A certificare la centralità di New Year's Day rispetto al songbook dei quattro irlandesi, c’è lo scrupoloso esame del momento della band proposto dalla versione Deluxe Edition di War, un doppio CD che ordina puntigliosamente gli appunti inediti di quelle registrazioni. All’interno del secondo dischetto vengono gelosamente conservate, come in uno scrigno da lasciare in eredità ai posteri, ben quattro takes della canzone. La prima è la versione editata per il mercato dei singoli che nulla aggiunge a quanto già sapevamo, anzi semmai toglie quasi due minuti alla canzone, sottostando alla tagliola pretesa dal sistema discografico e dalle stazioni radio. Più interessante è lo USA Remix che, pur esibendo le ben note virtù che tutti han mostrato di gradire, si fregia di un intro dal pigro portamento, per poi aprirsi all’ingresso dell’energia elettrica dove un lavoro sulle chitarre stupisce quanto basta per quanto differisce dall’originale: echi, fraseggi ritmici, effetti elettronici, metalliche risonanze, intrecci insoliti alla 6 corde di un The Edge onnipresente e più ispirato e convinto che mai, nonché la voce from the outer space di Bono che nasconde streghe fra le corde vocali, sono i colori caldi e persuasivi che cambiano i connotati alla canzone. Quando però arrivano i quasi dieci minuti del Ferry Corsten Extended Vocal Mix lo shock è quasi totale. Il DJ di Rotterdam opera a cuore aperto sulla canzone dandogli quell’aspetto di trance track per il quale è famoso. Nonostante il trattamento sia alquanto radicale il risultato non dispiace nemmeno ad un purista come il sottoscritto. Gli U2, insomma, tanta e tale è la loro personalità, pur mutando pelle e mandando fischi ad un nuovo pubblico restano comunque se stessi e non cadono nell’autoparodismo. Per capirci, pur facendo implacabile terrorismo sonoro, restano comunque gli U2 e non si risolvono fra inganni da basso impero e storta ironia terapeutica, trasfigurandosi in una sorta di Alien Sex Fiend per le masse danzanti. E questo è un bene. A chiudere la partita il Ferry Corsten Extended Radio Mix che altro non è che la versione del precedente mix confezionata per le radio, opportunamente dimezzata nei tempi di durata. E’ tutto Houston. Passo e chiudo.
A certificare la centralità di New Year's Day rispetto al songbook dei quattro irlandesi, c’è lo scrupoloso esame del momento della band proposto dalla versione Deluxe Edition di War, un doppio CD che ordina puntigliosamente gli appunti inediti di quelle registrazioni. All’interno del secondo dischetto vengono gelosamente conservate, come in uno scrigno da lasciare in eredità ai posteri, ben quattro takes della canzone. La prima è la versione editata per il mercato dei singoli che nulla aggiunge a quanto già sapevamo, anzi semmai toglie quasi due minuti alla canzone, sottostando alla tagliola pretesa dal sistema discografico e dalle stazioni radio. Più interessante è lo USA Remix che, pur esibendo le ben note virtù che tutti han mostrato di gradire, si fregia di un intro dal pigro portamento, per poi aprirsi all’ingresso dell’energia elettrica dove un lavoro sulle chitarre stupisce quanto basta per quanto differisce dall’originale: echi, fraseggi ritmici, effetti elettronici, metalliche risonanze, intrecci insoliti alla 6 corde di un The Edge onnipresente e più ispirato e convinto che mai, nonché la voce from the outer space di Bono che nasconde streghe fra le corde vocali, sono i colori caldi e persuasivi che cambiano i connotati alla canzone. Quando però arrivano i quasi dieci minuti del Ferry Corsten Extended Vocal Mix lo shock è quasi totale. Il DJ di Rotterdam opera a cuore aperto sulla canzone dandogli quell’aspetto di trance track per il quale è famoso. Nonostante il trattamento sia alquanto radicale il risultato non dispiace nemmeno ad un purista come il sottoscritto. Gli U2, insomma, tanta e tale è la loro personalità, pur mutando pelle e mandando fischi ad un nuovo pubblico restano comunque se stessi e non cadono nell’autoparodismo. Per capirci, pur facendo implacabile terrorismo sonoro, restano comunque gli U2 e non si risolvono fra inganni da basso impero e storta ironia terapeutica, trasfigurandosi in una sorta di Alien Sex Fiend per le masse danzanti. E questo è un bene. A chiudere la partita il Ferry Corsten Extended Radio Mix che altro non è che la versione del precedente mix confezionata per le radio, opportunamente dimezzata nei tempi di durata. E’ tutto Houston. Passo e chiudo.
How Can You Mend A Broken Heart - Bee Gees (1971)
Dici Bee Gees e la mente subito corre al Travolta di bianco vestito e ai suoi "febbricitanti" balli del sabato sera. Ma quella dei fratelli Gibb è una storia che affondaa le radici molto indietro negli anni. Nel 1971, tanto per fare un esempio, fermano il tempo ed il respiro con questa How Can You Mend A Broken Heart, piazzata al primo posto della classifica americana, ma soprattutto, ed è quel che più conta, piantata dritta in mezzo al cuore sia di chi sa riconoscere una grande canzone d'autore, sia di chi si consuma nel mal d'amore.
Nel 1967, undici anni prima di restare troppo al freddo di notte e beccarsi la febbre del sabato sera, i fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb erano tre belli e onesti ragazzi inglesi rientrati in patria dalla lontana Australia in cerca di fortuna nella Swingin’ London. Originari dell’isola di Man, dipendenza della Corona Britannica (ma non parte, almeno formalmente, del Regno Unito), situata nel mare d’Irlanda, dove erano nati nel 1946 (Barry) e nel 1949 (i gemelli Robin e Maurice) da genitori (Hugh e Barbara) anch’essi musicisti, i tre fratelli presto seguono padre e madre per trasferirsi a Manchester e stabilirsi a Chorlton-cum-Hardy, turbolento quartiere popolare dove lo scorrere del tempo è scandito da risse ed episodi di vandalismo che vedono come protagonista soprattutto Barry, il più grande dei tre. Nemmeno l’ombra, ovviamente, di quella che tra gli ’80 e i ‘90 diventerà Madchester, mecca della scena baggy di Stone Roses ed Happy Mondays, poi terra del marzapane brit-pop e del nightclubbing sfrenato. Anzi, per essere Manchester, Chorlton-cum-Hardy è il buco del culo di Manchester. Ciò però non impedisce ai Brothers Gibb di cominciare ad esibirsi nei cinema del centro, tra un film e l'altro, con il nome di Rattlesnakes. Barry ha solo 9 anni, gli altri due addirittura 6 e già cominciano a farsi le ossa nello spietato ed ultra-competitivo mondo dello show-biz mancuniano. Del resto, per dirla con il Mick Jagger che sarà, che altro può fare un giovane ragazzo per sfuggire alla noia se non suonare in una rock ‘n’ roll band? O almeno fantasticare di poterlo fare. Ma il sogno sembra svanire ancor prima di iniziare allorché, dopo l’ennesimo episodio di teppismo, l’irrequieto Barry incappa in una condanna con la condizionale. E’ il 1958, e i genitori decidono saggiamente di frapporre il maggior numero di miglia possibile tra loro ed un molto probabile andirivieni dalle patrie galere per quelli che, nonostante la giovanissima età, promettevano di avviarsi ad un burrascoso futuro di teddy boys e chissà che altro. Imperativo era evitare di rimanere invischiati sul pericoloso limitare fra un’esistenza modesta ma dignitosa e la marginalità sociale. Lasciatesi dunque alle spalle la Manica e le bianche scogliere di Dover, la famiglia approda a Brisbane vivace capoluogo del Queensland sulla east coast australiana.
Il Dio della musica aveva dotato i
tre fratellini di un talento vocale veramente fuori dal comune e furono queste
innate doti naturali che portarono i nostri a tentare con ammirabile caparbietà
la scalata al successo anche una volta raggiunti gli antipodi. Tenacia e
determinazione cominciarono a farli uscire dal guscio grazie anche all’opera di
Bill Gates: non “quel” Bill Gates (fate caso alle iniziali B e G) bensì un
omonimo del Re di Microsoft cha faceva il dj a "Radio Brisbane".
Talmente imberbi i tre che la stazione radiofonica li andava a prelevare a
domicilio con un auto per poi riaccompagnarli a casa dopo ogni trasmissione. Un
incredibile combinazione volle che l’autista che li scarrozzava si chiamasse Bill
Goode (ancora B e G) e loro erano naturalmente i Brothers Gibb’s o Bros. G.
Insomma, fosse stata, la vicenda, ambientata ai nostri giorni, sarebbe sembrato
di essere sul set di uno spot pubblicitario che stava andando per la maggiore qualche tempo fa e che opportunamente parafrasato avrebbe potuto suonare come “Vedrai
solo B e G!”. Va da sé che con quel proliferare di “B” e di
“G” il passo che li portò a diventare prima B.G.’s e finalmente Bee Gees
dovette apparire ai tre ragazzini come un segno ineluttabile del destino.
E’ da questo momento in avanti che
gli avvenimenti prendono una piega sempre più interessante per i tre aspiranti
rockstar: molte canzoni cominciano a grondare dalle loro
prolifiche penne e prima che il 1960 volga al termine si esibiscono
per la prima volta davanti alle telecamere della televisione australiana e tre
anni dopo, nel 1963, approdano a The Battle Of The Blue And Grey, il
loro primo singolo ufficiale. Qui l’avventura subisce un ulteriore accelerazione:
pochi mesi ancora ed i tre firmano il loro primo contratto con la Festival
Records, pubblicando il singolo Three Kisses Of Love. Nei
successivi due anni appena la band incide una nutrita
serie di singoli che per la maggior parte troveranno posto nell’album The
Bee Gees Sing And Play 14 Barry Gibb Songs pubblicato nel 1965. In queste
canzoni, oltre a pagare l’inevitabile tributo ai Beatles (To Be Or Not To Be
e Claustrophobia su tutte) i
nostri mettono in mostra una personalità che già si sta affrancando da stilemi
troppo battuti, come avviene nelle acustiche Don’t Think It’s Funny e How
Love Was True che in nuce già recano nitido il segno delle future ballad
per cui i Gibb diverranno famosi. Bisogna però attendere il 1966 per ottenere
il primo risultato veramente importante, quando il singolo Spicks And Specks arriva al Nº 1 della classifica
Australiana e l’album omonimo che la contiene, oltre che nella terra dei
canguri, viene pubblicato anche sul mercato internazionale. Spicks And
Specks certifica l’ingresso
dei tre fratelli nell’età adulta: è una canzone in cui si aprono i cieli degli
anni ’60 ormai maturi, ove non bastano più le formule mandate a memoria e
vengono banditi clichés ormai desueti, ma dove invece la rivoluzione dei
tempi nuovi è un abbraccio alla musa della fantasia che richiede la presenza di
un pianoforte incalzante ed una tromba che ancor oggi è raro incontrare sulle
strade del brit-pop. Ed è proprio con Spick And Spell, infatti,
con il suo riff di piano e quell’inusitata tromba, che i nostri inseguono il
loro sogno di un pop da camera.
I tempi sono maturi per il rientro
in un Inghilterra in pieno fermento, dove Beatles, Rolling Stones e tutta la
generazione del nuovo British Rock già aveva posto le basi per la più
importante rivoluzione culturale del ventesimo secolo. Cosa che
avviene nel gennaio 1967. Prima
di lasciare l'Australia, i Bee Gees avevano inviato nastri in audizione al
responsabile dei Beatles, Brian Epstein, deus ex machina della NEMS
Enterprises, compagnia di management dei quattro baronetti. Lì
vengono ascoltati dal direttore generale Robert Stigwood (anche lui di origini
australiane), futuro patron della RSO che avrebbe annoverato in scuderia gente
come Eric Clapton e Yvonne Elliman (massì, dai, fate uno sforzo… la Maria
Maddalena di Jesus Christ Superstar). Costui era manager dei Cream (e di
lì a non molto lo sarebbe stato degli stessi Bee Gees), promoter di
mostri sacri come David Bowie, Mick Jagger, Rod Stewart e produttore di film
come Hair, Jesus Christ Superstar, Evita, Saturday
Night Fever, Grease, Tommy, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts
Club Band e qui mi fermo e scusate se è poco. Un mammasantissima del
rock, avrete inteso. E’ il minimo che si possa dire di lui. Sarà che a Stigwood
quei tre ragazzotti fanno tenerezza, sarà che nell’aria c’è molto più che un
indefinito sapore di nuovo che si è andato a definire con dischi fondamentali
come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band di John, Paul, George e Ringo
o Disraeli Gears dei Cream (e limito le citazioni all’Inghilterra e a
due gruppi che gravitavano nell’orbita di Stigwood, ché in caso contrario non
di righe ulteriori avrei avuto bisogno, bensì di intere pagine). Sia come sia
il produttore viene talmente colpito non solo da ingaggiare i fratelli, ma da
assumerne addirittura il management; e dopo averli messi sotto contratto,
affianca loro due amici musicisti di origine australiane come backup band: il
chitarrista Vince Melouney e il batterista Colin Petersen. E’ un rapporto che parte con
il piede giusto e negli anni si consoliderà sempre di più (è proprio a Stigwood
che si deve, dieci anni dopo, la svolta disco e travoltina de La Febbre Del
Sabato Sera). Con un pigmalione di quella caratura e soprattutto di
quella mallevadoria tutto inizia a correre velocemente intorno ai Bee Gees e la strada sarebbe
andata facendosi vieppiù impegnativa ma anche ricca di gratificazioni.
E’ a quest’altezza che i fratelli
giurano a sé stessi che sarebbero rimasti sempre uniti e fedeli alla causa
dell'impresa, giuramento cui, come vedremo più avanti, i tre non riusciranno
completamente a tener fede. Nei seguenti
cinque anni i Bee Gees si costruiscono una reputazione internazionale
solidissima, stazionando abitualmente nei piani alti delle classifiche di mezzo
mondo grazie a successi come To Love Somebody, inizialmente pensata per
Otis Redding ma poi ripresa in una drammatica rendition da Janis Joplin, Massachusetts,
pensata come una sorta di anti-San Francisco, terra promessa dove tutti ma
proprio tutti sognavano di andare a raccogliere fiori, ma soprattutto a fumare
erba, I’ve Gotta Get A Message To You, che qui da noi fece letteralmente
il botto con la versione italiana di Mal dei Primitives intitolata Pensiero
D’Amore, che stazionò per quattro settimane al N° 1 della Hit Parade, I
Started A Joke, ripresa nel 1998 nientemeno che dai (udite, udite!!!!)
Faith No More che ne daranno un accorata interpretazione, per finire ad album
ambiziosi come il monumentele doppio Odessa del ‘69.
Nel calderone dei Bee Gees non bollivano molti
ingredienti: c’erano i Beatles, ovviamente, il pop ad altissimo tasso di vampe
romantiche, un pizzico di Kinks, una leggerissima spruzzata, ma proprio un velo
sottilissimo, di pop-rock, qualche reminiscenza folkeggiante, gli impasti
sonori dei Procol Harum, le alchimie vocali e gli inni radiofonici degli
Hollies. Insomma, un brodo di coltura molto coerente da cui nasceranno fiori
meravigliosi per almeno cinque anni, ma anche una vera e propria bomba a
orologeria nascosta tra quelle melodie che volavano ad alta quota, con gli ego
dei tre fratelli che si gonfiavano smisurati ogni giorno di più,
vischioso e fetido blob che rischiò di sommergere tutto. Quando le contraddizioni
esploderanno la band si disintegrerà tra le nuvole.
Il momento rancoroso ha origine nel ’69: pomo della discordia First Of
May, ballad in collisione tra melopea natalizia e adamantino pop
orchestrale contenuta in Odessa. Fu il singolo di maggior successo, ma
fu anche la ragione per una velenosa rottura. La causa scatenante va ricercata
nello stress dovuto al tempo trascorso in sala di registrazione, mentre
l’agiografia preferisce attribuire il contrasto a diverse valutazioni sulla
facciata del singolo in cui collocare la canzone: per Barry era quello il brano
da inserire nel lato A, Robin avrebbe invece preferito puntare le sue fiches
su Lamplight, altra perla che fa brillare l'album di luce speciale, che però venne relegato al lato B. Tale aneddoto,
tuttavia, non fu che l’ultimo in ordine di tempo di una serie di dissidi che
avevano iniziato a minare la compattezza della band: la classica goccia che
fece traboccare il vaso, causando l’abbandono del sodalizio da parte di Robin,
che, venendo meno al giuramento di cui si parlò alcune righe sopra, decise di intraprendere la carriera solista. Presto
abbandonarono la baracca anche Petersen e Melouney. Una breve agonia e una
morte ancor più rapida per il gruppo che molti avevano incoronato come i veri
eredi dei Beatles.
Mentre Robin continuava ad essere
l’inquilino più presente nei piani alti delle classifiche di vendita sia con il
singolo Saved By The Bell che con il suo primo album solista Robin's
Reign, Barry e Maurice, che conservarono la titolarità della sigla Bee
Gees, rispondevano con l’ennesimo hit single, Don't Forget To Remember
che continuò a mantenere le vendite cospicue tanto in mezza Europa quanto in
Australia e Nuova Zelanda e l'album Cucumber Castle, che conteneva
brani utilizzati per uno special TV con
il medesimo titolo. La
separazione durò fortunatamente qualche mese soltanto e non diede vita ad una
miserevole epopea in cui solitamente perdono tutti, come purtroppo è successo a
troppe band (chi ha detto Pink Floyd?). Non fu insomma una storia che lascia in
bocca un tale sapore di fiele per il male che di solito si fanno a vicenda i
protagonisti, da non poter più ascoltare quelle canzoni senza che un rigurgito
torni a sciupartele (ma insomma, chi ha detto Creedence Clearwater Revival?).
Quando nel maggio 1971 viene
pubblicata How Can You Mend A Broken Heart,
il momento di sbandamento è infatti già un ricordo dato che le
controversie erano già state composte fin dall’estate
dell’anno precedente. Barry
e Robin Gibb hanno
infatti scritto la canzone nel mese di agosto 1970 contemporaneamente a Lonely Days che
avrebbe visto la pubblicazione già nel novembre successivo con l’album 2
Years On. "Robin è venuto a casa mia", ricorda Barry
", e quel pomeriggio abbiamo scritto How
Can You Mend A Broken Heart? che, ovviamente, era anche
un’allusione al fatto che eravamo tornati insieme. Abbiamo chiamato Maurice per
completare il brano, poi siamo andati in studio e ancora una volta, con un solo
Broken Heart come una struttura di base e un'idea
appena abbozzata per Lonely Days, siamo riusciti a terminare entrambe le
canzoni che sono state registrate quella notte". Originariamente la canzone era stata offerta al
crooner Andy Williams, ma hanno finito
per registrala loro stessi. Barry
spiega anche che: «Potremmo scrivere pensando ad un certo gruppo, in seguito
potremmo appropriarci della canzone che ci si adatterebbe comunque
perfettamente".
Arrivati fino a quel
punto della loro avventura, i nostri possono fare un bilancio della loro
carriera ed è una contabilità di cui andar fieri: guardando a ritroso, a sei anni dall’esordio adulto e
a quasi cinque dal loro rientro in madrepatria, i tre fratelli possono rimirare
ciò che s’erano gia buttati alle spalle: otto album tutti gradevoli ed un pugno
di canzoni dalla qualità strepitosa e riprese praticamente da tutti. La loro
arma invicibile erano le melodie e le armonie vocali, non ancora condotte sul
filo dei falsetti che tanta fortuna hanno poi portato al trio nell’era della
disco music, ma talmente perfette che avevano pochi rivali nel mondo del pop.
Registrata a Londra il 28
gennaio 1971 e prodotta in collaborazione con Robert Stigwood, How
Can You Mend A Broken Heart è una pain street che sembra
volerci condurre lungo l’intero suo cammino di 3’58”, una canzone in cui a
dominare è il pop puro e di classe superiore, quello che con gli opportuni
aggiustamenti in chiave soul può anche trasformare una song come questa in una torch
ballad che potrebbe fare la gioia di un Curtis Mayfield o di uno Smokey
Robinson. Il risultato mozza il respiro e ti ulcera il cuore fin dalle prime
note iniziali, costruite secondo dopo secondo da Robin e Barry: organo in
sottofondo e chitarra simil country, raddoppio di tastiere con cinque note
cinque di piano e due sole note di basso precise e ben assestate che nel loro
quasi nulla dicono tutto, e ascoltare è come essere dentro quel niente. Sapete,
uno di quei coup de foudre che ti dimostra come anche una sola nota
nell’istante e nel modo opportuni sia spesso più efficace di tanti complicati
fraseggi. E’ la semplicità da maestri che si raggiunge sfrondando il superfluo,
con la convinzione che a determinare il valore di un brano non sia quanto metti
dentro ma quel che lasci fuori. E poi gli echi costruiti intorno al crooning
di cristallo di Robin Gibb che pare venire da un qualche lontano paradiso
incantato e noi già belli e cucinati a dovere con il conta-tempo del lettore
che ancora non è arrivato a 15 secondi. “Niente di che” avrebbe detto poi Robin Gibb “l’ho scritta
in un’ora”. Un incipit riuscito per lui, la folgorazione per un giovane Al
Green al di là dell’oceano che, avendo capito come il baroque soul della
canzone fosse magnificamente in sintonia con le vibrazioni black del
periodo, se la sarebbe cucita addosso come un abito di alta sartoria e
l’avrebbe piazzata a far bella mostra di sé nel monumentale Let’s Stay
Together dell’anno successivo.
Giusto il tempo di farsi catturare dalla melodia di
questo inizio, e la canzone prende quota per arrivare al momento sublime
quando il magico
intreccio delle voci dei Gibb intona quel “we could never see tomorrow…”
e allora pensi a Burt Bacharach o a qualche genio di Tin Pan Alley (1). O magari
ai Beatles più lirici come quelli di Let It Be o The Long And Winding
Road; oppure allo smisurato talento del Brian Wilson di Pet
Sounds. Ché i riferimenti non possono essere che questi per un gruppo che
fluttua in puro stato di grazia. Ma How Can You Mend A
Broken Heart nasconde molto altro: ci riferiamo al ritornello,
dolcissimo, delicatissimo, intensissimo, dove il vibrato di Robin non ha quasi
un piano su cui poggiarsi senza tremare, per poi raddoppiare con una splendida
innodia a due voci. Cose da specialisti di “alto pop”.
Non meraviglia quindi che la canzone voli al primo posto nelle classifiche
americane. Robin Gibb: “La stesura del brano non fu
ne faticosa ne disagevole. Il tutto ha richiesto circa
un'ora per essere completato. Il brano ha raggiunto il primo posto, con nostra
grande soddisfazione". Fu dunque indiscutibilmente un successo How
Can You Mend A Broken Heart, anche se nemmeno lontanamente paragonabile a Stayin’
Alive e a tutte le febbri del sabato sera, se per successo s’intende quella
cosa delle classifiche di tutto il mondo occupate in pianta stabile, ma è una
di quelle canzoni che, al contrario di molta della roba inquietante che
dominava la radio (soprattutto italiana) di inizio anni ’70, ha preso a
schiaffi il tempo e la caducità del business con la semplice arte della
bellezza.
Mentre faccio mente locale su quanto appena scritto
mi rendo conto di come nessuno tra le teste d’uovo della stampa musicale
(almeno di quella italiana) abbia fatto mai gli accostamenti di qualche riga
sopra e di come anzi i Bee Gees siano sempre stati un gruppo piuttosto
vilipeso, quasi come fossero figli di un Dio minore. Di loro oggi sembra non
ricordarsi più nessuno. Anzi, peggio: se li ricordano in molti, ma con
imbarazzo. Pare non ci sia nulla di più uncool che citarli come propria
influenza; e infatti nessuna band si sogna di farlo. Sarebbe come se un comico
esordiente sostenesse di avere come modello Jack Lemmon. E dire che in questi
anni si è rivalutato di tutto. I Bee Gees no, loro rimangono dei paria
intoccabili. A volte invece non c’è nulla di più bello che riscoprire. Ben
sapendo che c’è un modo dolce e segreto per farlo, senza mai aver dimenticato
il sense of wonder che ci ha colto da adolescenti, quando la musica era
un universo tutto da scoprire che si apriva davanti ai nostri occhi. Ma tant’è.
La canzone apre sontuosamente un disco come Trafalgar, uno pseudo concept-album,
secondo come ambizione solo al monumentale Odessa, senza però
eguagliarne la grandezza. Pseudo perché nessuno dei brani in esso contenuti ha
attinenza con la celebre battaglia navale (2): non
la title track che parla di solitudine e pene esistenziali, né Walking Back
To Waterloo, nonostante il titolo potrebbe far pensare a Napoleone
Bonaparte. Trafalgar non è infatti stato pensato come disco organico ma
piuttosto come semplice raccolta di canzoni. L’album annega l’ascolto in scie
di romanticismo tra voci dal suono di velluto ed un oceano di tastiere, e
probabilmente questo è il suo limite. Ciò lo rende infatti piuttosto monocorde,
un album che non tocca nuove e diverse terre ma che viceversa sembra proteso
verso un’unica direzione. Non fraintendetemi: le canzoni, anche se nessuna
raggiunge gli apici emotivi di How Can You Mend A
Broken Heart, sono piacevoli, ineccepibili se ascoltate una
per una. Qualcuna è addirittura un piccolo capolavoro, come accade per Don’t
Wanna Live Inside Myself (non a
caso secondo sigolo tratto dall’album) che sembra guardare all’America ma lo fa
con splendida malinconia, cavalcando il vento che le porta in dote un motivo
preso a prestito da Helpless di Neil Young e da I Shall Be Released
della Band; oppure come per Lion In Winter che colpisce con implacabile
ferocia i sensi e la mente con l’ipnotico mezzo minuto iniziale di batteria e
la voce straziata di Robin Gibb che se fosse una chitarra non esiteremmo a
definire acidissima.
Ma a parte qualche
impennata il clima generale di Trafalgar è piuttosto consolatorio e
pericolosamente autoindulgente nei suoi 47 minuti (e ne esiste una versione extended
pubblicata solo negli USA che con due brani aggiunti porta i minuti a 53) e
francamente tre quarti d’ora di ballate e melodie à la Bee Gees,
ancorché suonate e cantate impeccabilmente dai Bee Gees medesimi, all’ascolto
risultano sinceramente faticosi. Se poi consideriamo come, eccettuata How
Can You Mend A Broken Heart e poco altro, il programma non contenga nulla
che mandi in orbita davvero, la raccomandazione di prendere il tutto a piccole
dosi appare quanto di più sensato si possa consigliare al lettore.
Cio dimostra che anche
se celebrati musicisti, geni del pentagramma, eroi generazionali, rockstar
dall’ubiqua popolarità, quando non veri e propri miti, viventi e non, quando ne
celebriamo musica e gesta è pur sempre di fallaci, terreni e fragili esseri umani
che stiamo parlando. Pradigmatici in tal senso i tre Gibb: nel corso di oltre
quarant’anni, l’odissea del gruppo a sfiorato vette olimpiche, ma è scesa anche
per vallate assai meno attraenti che occorre misurare a grandi passi per
trovare le prospettive meno anguste. Negli annali del pop inglese i Bee Gees
sono diventati l’anello mancante tra i melodici con velleità sinfoniche,
collocazione condivisa con Procol Harum e Moody Blues (tanto per fare due nomi)
e la trasformazione di quei suoni in qualcosa di diverso, unendo con un
trattino – come nella Settimana Enigmistica – innumerevoli puntini
sonori che vanno dai Beatles al rock progressivo, alla dance.
Una canzone come How Can You Mend A Broken Heart è uno tra i più
importanti di quei puntini che testimonia lo stile di una band che ha
assimilato la lezione dei crooner più languidi e che sente di poter guardare
dritto negli occhi quei maestri perchè sa di aver creato qualcosa di nuovo ed
eccitante. Strappalacrime? Barocca? Decadente? Zuccherosa? Ruffiana? Sì, tutto
vero: e allora? Allora succede che ci piace anche a 45 anni di distanza. Perché la magia teen
del “pop d’amore” è eterna.
Se poi qualcuno vi dirà che, in fondo, quelle dei
Bee Gees erano, più o meno, solo zuccherose canzonette, lasciatelo parlare.
Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.
(1) Con Tin Pan Alley (cioè "Vicolo della padella di
stagno") s’intende il nome dato all'industria musicale esclusivamente newyorkese che era egemone rispetto all’intero
mercato della musica popolare USA.
In seguito tale termine diventò omnicomprensivo e riguardò anche quella del
resto del paese. I suoi confini temporali
sono compresi tra la fine dell’ottocento (1885) e l’inizio del novecento
(attorno al 1930), quando la Grande Depressione e l'avvento di
radio e riproduzione a mezzo disco posero fine al
dominio degli editori musicali. Altri prolungano l’era di Tin Pan Alley agli
anni ‘50 e fanno coincidere la sua fine con l'avvento del rock and roll. Il singolare nome pare
trovi origine nella cacofonia del suono di più pianoforti, che dalle sale
prova fuoriusciva dalle finestre per poi riversarsi nelle strade (alley
è il nome con cui vengono designati i tipici vicoli newyorkesi). Tale suono
ricordava quello che si otteneva percuotendo delle padelle di stagno. La
Tin Pan Alley aveva sede nella 28esima strada Ovest tra la Quinta e la Sesta
Avenue. Uno dei nomi più conosciuti associato a Tin Pan Alley è senza
dubbio quello di George Gershwin che
negli studi lavorava come song
plugger, un pianista che suonava
le nuove canzoni per promuovere la vendita degli spartiti.
(2)
Quella di Trafalgar fu una
celeberrima battaglia navale che
si combattè durante la guerra
della terza coalizione, parte
delle guerre napoleoniche. Il 21 ottobre 1805
la Royal Navy si trovò di
fronte la flotta alleata franco-spagnola nell'Atlantico al largo della costa
sud-occidentale spagnola, ad ovest di Capo
Trafalgar nei pressi di Los Caños de Meca (Cadice). La flotta britannica
riportò la vittoria navale più decisiva dell’intera guerra. Ventisette vascelli da guerra britannici, al
comando dell'ammiraglio Horatio Nelson che dirigeva le operazioni da bordo
della HMS Victory, sgominarono
trentatré navi da combattimento franco-spagnole, agli ordini dell'ammiraglio
francese Pierre Charles
Silvestre de Villeneuve. La flotta alleata perse ventidue navi, senza che un
solo vascello britannico venisse affondato. Avete capito adesso perché
Trafalgar Square è la piazza che viene considerata il cuore di Londra?
God Only Knows - Beach Boys (1966)
Con Pet Sounds i Beach Boys archiviarono definitivamente la poetica delle tavole da surf, delle hot rods e delle California girls. Quell'album sviscerava tematiche ed emozioni a metà strada tra l'autobiografico ed un intenso richiamo spirituale, il tutto, ovviamente associato ad una perfezione tecnica di rara enfasi vocale e strumentale. Il baricentro emotivo del disco va ritrovato soprattutto nella commovente God Only Knows (a detta di Paul McCartney il più bel brano di parole e musica mai scritto).
E’ possibile iniziare un saggio che si annuncia ponderoso il giusto, perdipiù sulla miglior canzone contenuta in un disco che molti considerano il miglior album pop del mondo, tirando in ballo la Mina nazionale e la sua surreale filastrocca Tintarella Di Luna? Massì: “la tintarella color latte. Tutta notte sopra i tetti. Sopra i tetti come i gatti”. E’ possibile, è possibile e non vi azzardate a dire in giro che purtroppo a quello che sembrava promettere essere un discreto scribacchino ha dato di volta il cervello. Si dà il caso, miei malfidati lettori, che la connessione tra tetti e rock è più diretta e molto meno strampalata di quanto voi avreste mai potuto immaginare. Ci sono band che sui tetti hanno filmato una live performance passata alla storia, ce ne sono altre che, per non essere da meno, hanno suonato sul tetto solo per imitare i primi.
E’ possibile iniziare un saggio che si annuncia ponderoso il giusto, perdipiù sulla miglior canzone contenuta in un disco che molti considerano il miglior album pop del mondo, tirando in ballo la Mina nazionale e la sua surreale filastrocca Tintarella Di Luna? Massì: “la tintarella color latte. Tutta notte sopra i tetti. Sopra i tetti come i gatti”. E’ possibile, è possibile e non vi azzardate a dire in giro che purtroppo a quello che sembrava promettere essere un discreto scribacchino ha dato di volta il cervello. Si dà il caso, miei malfidati lettori, che la connessione tra tetti e rock è più diretta e molto meno strampalata di quanto voi avreste mai potuto immaginare. Ci sono band che sui tetti hanno filmato una live performance passata alla storia, ce ne sono altre che, per non essere da meno, hanno suonato sul tetto solo per imitare i primi.
C’è una band, in particolare, che dopo anni si
ritrova sul tetto di un palazzo, assieme ancora una volta, anche se un paio di
loro hanno evitato accuratamente di incrociare gli sguardi. Uno è osservato a
vista da una moglie da cui non vuole separarsi. I fotografi si accalcano, il
momento è solenne: sembra che qualcuno sussurri. “Vorrei solo dire grazie,
da parte mia e del gruppo e speriamo di aver superato l’audizione”. In
breve tutto è finito. I cinque si dividono di nuovo. Cinque, sì. Che avevate
capito? Stiamo parlando dei Beach Boys o, meglio, quello che ne restava una
decina di anni fa al tempo dei fatti di cui vi sto dando conto: Brian Wilson,
Mike Love e Al Jardine, con i rincalzi storici Bruce Johnston e David Marks,
nel 2006 si sono riuniti in cima alla torre della Capitol per ricevere un
doppio disco di platino per le clamorose vendite della solita antologia di
vecchi, vecchissimi successi. Non solo: quell’anno c’erano da festeggiare gli
anniversari di Pet Sounds e Good Vibrations e, forse, mettendo da
parte gli antichi dissapori, era arrivato il momento della reunion, anche se
Dennis e Carl Wilson non c’erano più da molti anni, anche se Brian, la mente,
il genio, il diamante pazzo dei ragazzi di spiaggia, aveva trovato un
equilibrio mentale solo quando si era definitivamente allontanato dalla band,
dalle sue pressioni, dalle grandi aspettative che la circondavano. Perché per
un periodo che oggi sembra breve e lontano, lontano nel tempo, i Beach Boys
sono stati davvero i più grandi. Nelle pagine che seguono leggerete parte della
loro storia: il racconto di una famiglia, di tre fratelli che amavano cantare
con un genitore pigmalione che si sarebbe ben presto trasformato nel più classico
dei padri/padrone, di un opera discografica eccelsa, inarrivabile e di una
canzone che ne costituisce l’apice. Insomma, come annunciavano gli speaker
quando i nostri guidavano l’esercito del surf indossando camice a righe ben
stirate: “Ladies & gentlemen, from Hawthorne, California, The Beach
Boys!”
Le prime tracce di tavole di legno usate per trasporto ma,
soprattutto, diporto sull’acqua risalgono al 400 avanti Cristo e si trovano
alle Hawaii. Il primo testimone nell’evo moderno ha il nome altisonante del
capitano James Cook che s’imbatté in un surfer proprio vicino a
quell’arcipelago, nella seconda metà del XVIII secolo. All’inizio del novecento
il surf arrivò in California e fù subito popolare, soprattutto fra i giovani.
Un mix di equilibrismo, tenacia, coraggio, spericolatezza, velocità a cavallo
di onde alte e, anche, pericolose. “L’oceano mi terrorizza”, avrebbe
confessato Brian Wilson qualche decennio dopo. Ma allora, nell’estate del 1961,
il surf sembrava l’unica cosa da fare.
A differenza di suo fratello maggiore, impegnato ad
ascoltare musica troppo seria, e contrariamente al minore, che si dannava per
apprendere nuovi fraseggi sulla sei corde, Dennis trascorreva il suo tempo in
spiaggia e si dava da fare sulla tavola. Era il suo secondo sport preferito (il
primo era rimorchiare le ragazze più avvenenti). La colonna sonora ideale
arrivava dalle radioline che trasmettevano veloci pezzi strumentali di Link
Wray e di Duane Eddy, dei Ventures e di Johnny & The Hurricanes. Gli
storici, invece, considerano i Bel Airs la prima vera formazione di questo
“genere” che, a ben vedere, è inesistente. Si tratta, in fondo, di un tipo di
sound impartito dalla chitarra solista. Il maestro era Dick Dale. Non si
trattava di uno sprovveduto ma di un musicista coi controfiocchi: un’indagine
sulla sua carriera porterebbe a scoprire che è stato cavia e suggeritore per
Leo Fender; il primo a poggiare le mani su una Stratocaster, colui che pretese
leve, pedali e ampli potenti per le sue scorribande elettriche. Che dice Dale?
Cos’è la surf music? “E’ uno stile molto definito, con un fraseggio staccato
e rumoroso, con l’apporto di un riverbero per rendere il tutto più scorrevole,
evitare i toni più piatti e fare durare le note all’infinito”. E basta
ascoltare quello che fece ad un sirtaki greco, Misirlou, per capire cosa
intendeva. E cosa ascoltava Dennis quando si asciugava al sole. Brian non aveva
mai cavalcato un onda. Allo stesso modo, con tutto il suo amore per per le
armonie vocali, chissà quanto si era soffermato ad ascoltare i brani di Dale.
Una cosa è certa: il chitarrista ha coniato il termine nel 1961, prima non si
parlava di surf music.
La saga dei Beach Boys ha inizio in prossimità della costa
californiana del Pacifico, precisamente a Hawthorne, una ridente area suburbana
di Los Angeles, a poche miglia da Hollywood, fiera di vantarsi come “la città
dei buoni vicini”. Sulla 119esima strada di Hawthorne abitavano i coniugi Murry
e Audree Wilson insieme ai loro figli, Brian, Carl e Dennis. Nel salotto di
casa Wilson era posto l’Hammond su cui il giovanissimo Brian (il maggiore dei
tre fratelli) spendeva gran parte del giorno cantando e suonando le armonie dei
Four Freshmen, che quel ragazzino precoce idolatrava al pari di Gershwin
e delle strane sincopi della sua Rhapsody In Blue, e degli Hi-Lo’s, due
dei vocal group più in voga negli anni cinquanta. Non ci volle molto perché
Brian insegnasse nottetempo a Carl e Dennis, direttamente dal suo letto, come
cantare quegli stessi motivi intonandoli nella giusta maniera.
La musica divenne così la passione e l’intrattenimento
principale della famiglia Wilson, spalleggiata di buon occhio dal padre Murry
che non mancava mai di vantare la sua passata, benché breve, esperienza di
cantautore. Ciò nonostante, Murry non risparmiava ai figli il suo carattere
dispotico e accentratore, creando così un clima familiare pieno di tensione e
foriero dei futuri rancori che Brian (già da piccolo sordo da un orecchio per
via delle gratuite percosse ricevute in casa) avrebbe più in là manifestato nei
confronti del padre. “Ah, gli ho spazzolato il culo, sapete, come farebbe
ogni padre con suo figlio, gli ho solo dato qualche bella ripassata” si
difenderà Murry qualche anno dopo “No, non ho mai colpito l’orecchio del mio
bambino. Ero troppo forte: tutto quello che posso augurare a chiunque sia stato
a mettere in giro questa voce… beh, gli auguro ogni male per almeno dieci anni.
Perché non ho mai picchiato mio figlio Brian sull’orecchio, mai”. Fatto sta
che, attorno ai dieci anni, il piccolo primogenito di Murry e Audree Wilson
perde l’udito al timpano destro. E’ stato suo papà? Lui non se ne ricorda o ha
rimosso l’episodio. Secondo la madre potrebbe anche trattarsi di un difetto
congenito ma non avrebbe mai detto una parola contro il marito. Pochi, invece,
sanno che quel signore che appare sorridente nelle foto d’epoca, e che i figli
descriveranno, al contrario, come un tiranno di inaudita ferocia, aveva a sua
volta una menomazione. Perse l’occhio sinistro nel 1945, quando lavorava alla
Goodyear. Si era sposato nel ’38 e aveva avuto due figli. Il primo è Brian
Douglas e vede la luce nel 1942, come Al Jardine e Bruce Johnston, due
personaggi che avranno grande peso in questa lunga vicenda. Il primo vocalizzo
del piccolo Wilson arriva in un ospedale di Los Angeles il 20 giugno: a un
oceano di distanza, due giorni prima, tale James Paul McCartney ha emesso la
stessa nota. I due poppanti non lo sanno ma inizia in quel momento una
competizione che si trascinerà per tutta la durata delle loro vite.
Dennis Carl Wilson è nato il 4 dicembre 1944. Murry ha già
avuto l’incidente, ha già cambiato lavoro un paio di volte e si è già messo in
proprio con il fratello (vendono macchine industriali) quando nasce il terzo ed
ultimo figlio, il 21 dicembre 1946: i genitori scelgono il nome Carl Dean. A
Hawthorne la famiglia vive vicino alla sorella di Murry che ha sposato un uomo
dal cognome incantevole, Love, dal quale ha avuto numerosi figli: il
primogenito è Michael, di un anno più vecchio di Brian. I due bambini giocano e,
con i genitori, si ritrovano a cantare tutti assieme. Perché l’interesse
principale dell’invadente e dispotico Murry è la musica.
All’epoca c’era un certo Lawrence Welk che da anni
conduceva uno show per la ABC. Dirigeva un’orchestra, era il volto tranquillo
della TV americana. Oggi non se lo ricorda più nessuno (a parte i siti Internet
dedicati alle bizzarrie del passato) ma allora il suo spettacolo era un incubo
per la generazione dei fratelli Wilson: un programma conservatore come pochi,
con un’orchestra stabile che vantava anche un organetto a canne che faceva le
bolle di sapone, un fisarmonicista esperto nella polka e anche una cantante,
Norma Zimmer. Murry costrigeva i figli a guardarlo. Carl era troppo piccolo,
non diceva nulla. Dennis era un bambino esagitato, non stava mai fermo, uno di
quei pargoli che saltano a molla per tutta la stanza. Brian no: la musica era
qualcosa di veramente importante per lui. Guardava e ascoltava Welk con
attenzione. Ma anche con invidia. Norma cantava One Step, Two Step, una
canzone innocua come tutte le altre. Ma c’era una piccola, significativa
differenza, però: portava la firma di Murry Wilson. Quell’unico, trascurabile,
ridicolo exploit compositivo del padre avrebbe perseguitato il suo figlio
maggiore per diversi anni.
Abbandoniamo l’infanzia dei fratelli Wilson non senza registrare come tutti e tre i figli, parlando ancora del padre, in occasioni diverse, avrebbero usato sempre la stessa espressione che qui riportiamo per dovere di cronaca: “He beats the shit out uf us”. Gli anglofoni sono liberi di tradurre: è una frase che così poco si addice all’immagine dei ragazzi di spiaggia. E’ anzi incredibile come una musica che fù l’apoteosi massima e suprema della spensieratezza adolescenziale, quale quella dei primi Beach Boys, avesse potuto nascere da un ambiente familiare tanto cupo ed opprimente.
Abbandoniamo l’infanzia dei fratelli Wilson non senza registrare come tutti e tre i figli, parlando ancora del padre, in occasioni diverse, avrebbero usato sempre la stessa espressione che qui riportiamo per dovere di cronaca: “He beats the shit out uf us”. Gli anglofoni sono liberi di tradurre: è una frase che così poco si addice all’immagine dei ragazzi di spiaggia. E’ anzi incredibile come una musica che fù l’apoteosi massima e suprema della spensieratezza adolescenziale, quale quella dei primi Beach Boys, avesse potuto nascere da un ambiente familiare tanto cupo ed opprimente.
Già: ma come avvenne? Quando decisero di essere un gruppo
musicale? Non ci fù nessuna festa parrocchiale a Wolton, né uno scambio di 78
giri blues su un treno diretto a Londra. I Beach Boys sono nati sul sedile
posteriore dell’automobile di famiglia. Brian era ossessionato dalla musica e
perseguitava i fratelli. Aveva imparato a suonare il piano da autodidatta e poi
si era messo a studiare le note e le armonie: c’erano le lezioni a scuola,
quanto basta per leggere uno spartito. Ci fù, è vero, un breve sbandamento per
il football che rischiò di regalare allo sport un mediocre quarterback e di
sottrarre al rock un genio. Già: un genio. Era la parola che Brian si sentiva
ripetere più spesso, anche da un amico coonosciuto fra le yarde del campo, un
aspirante dentista che suonava la chitarra. Al Jardine era stupito dalla
bravura di questo ragazzone alto, magro, dalla voce squillante (la bocca
leggermente piegata in direzione dell’orecchio sano). Non poteva sapere che
cantava sempre sul retro della macchina assieme a Carl e ai genitori. Alla sera
quel quartetto si riuniva attorno al pianoforte ed era quel ragazzino a
insegnare intricate parti vocali al padre, orgoglioso e geloso al tempo stesso.
Murry: “Brian è stato l’insegnante di se stesso. Riesce a immaginare armonie
in sei parti invece che in due o tre. Non è solo un compositore: è un
arrangiatore e ha una concezione dell’armonia che è quasi soprannaturale.
Quando aveva solo otto anni ha cantato in un concerto e la canzone era di Mike
Love”.
Chissà se l’aneddoto è vero. Sicuramente il cugino era un
ospite fisso di casa Wilson e quando le due famiglie si riunivano per Natale, i
Beach Boys stavano provando, senza sospettarlo, tutti i futuri Christmas
Album della loro carriera. E Dennis? Adolescente inquieto, già si è visto
come il suo pensiero fisso fossero le ragazze, correva alla spiaggia,
scalpitava per prendere la patente il prima possibile. Ma alla sera, quando
entrava nella cameretta che condivideva con idue fratelli, il maggiore lo
costringeva a cantare perché non gli bastava armonizzare con il solo Carl.
Quest’ultimo aveva un pregio ma anche un grande complesso: di positivo c’era
che stava iniziando a suonare la chitarra; purtroppo lamentava anche una certa
tendenza alla pinguedine, fomentata dalle massicce dosi di all american food
della premurosa Audree. La signora Wilson
è l’eroina non celebrata di tutta questa vicenda, la fata madrina pronta
ad appianare le divergenze fra il padre e i figli, tra i fratelli in litigio,
tra le mogli e i mariti, sempre disposta a spendere un buona parola per chi le
era vicino. Quando Brian compì sedici anni fu lei ad avere l’idea giusta:
niente macchina, niente moto da corsa, il genio di casa ebbe in dono un
registratore a bobine. Gli anni sessanta sono ormai alle porte e Brian
incomincia a rivelarsi anche come un discreto compositore. Chuck Berry ed Elvis
Presley furono i nuovi eroi che entrarono a far parte del suo immaginario e le prime
intuizioni musicali, che nel frattempo avevano preso la forma di vere e proprie
canzoni, accesero sempre più l’entusiasmo di Carl e Dennis.
Chissà se Murry fece mai ascoltare ai suoi amici, Hite e
Dorita Morgan, i frutti di quelle primordiali registrazioni. Di certo la
coppia, che di mestiere pubblicava canzoni, nel 1960 si imbatte in Al Jardine
che propone loro la sua versione del poema The Wreck Of The Hesperus,
musicato con l’amico Gary Winfrey. Ma i Morgan non hanno tempo da dedicargli:
hanno deciso di costruire uno studio di registrazione. Il giovanotto, deluso,
decide di lasciar perdere e se ne va nel Michigan a studiare. Nel frattempo
Mike Love trova il tempo di farsi sbattere fuori di casa incrinando la vita
idilliaca di Hawthorne: Frances, la sua fidanzata, è incinta. A sua madre Glee
la cosa non va per nulla: è una Wilson, non dimentichiamolo. Gli altri Wilson,
Brian ed un Carl appena quattordicenne, in primavera hanno iniziato ad esibirsi
spronati dal successo conseguito suonando per sostenere l’elezione di un amico
nel consiglio scolastico. Le prime apparizioni musicali dei tre fratelli
rimandano infatti ai tempi del liceo. Il genio studia con profitto, eccelle in
psicologia e, naturalmente, in musica. Per convincere il fratellino, un po’ recalcitrante,
battezza una di quelle formazioni estemporanee – dopo essere passati da Kenny
& The Cadets per approdare infine a The Pendletones - Carl & The Passions. The Islanders,
invece, sono un’idea di Al Jardine, appena ritornato dal Michigan: oltre a Brian
e Carl, è della partita anche Mike, neosposo e neopapà.
E’ il 1961 e i coniugi Morgan hanno finito di costruirsi
il loro piccolo regno e si ricordano di quel ragazzo con le orecchie a
sventola. Al si presente accompagnato da Brian. Hite e Dorita riconoscono il
figlio di Murry e sono ansiosi di ascoltare cosa sa fare. E’ fine agosto, a
Hawthorne fa più caldo che mai, ma i tre fratelli, Dennis compreso, Al e Mike
si ritrovano in quel piccolo studio cercando “qualcosa”. “Non avete canzoni
vostre?” domanda Morgan. Ma quasi nessun artista, all’epoca, scriveva i
suoi successi. C’erano state, è vero, notevoli eccezioni: Chuck Berry, tanto
per cominciare, che sia Brian che Mike adorano, ma anche Buddy Holly, Eddie
Cochran, Sam Cooke. L’amico di Murry non era lungimirante: si occupava di
edizioni, ecco tutto. Voleva brani da pubblicare. La saletta con i microfoni e
i manopoloni serviva solo per per fabbricare demo dei medesimi pezzi da
sottoporre ad altri interpreti. “Non avete niente?”. Con l’innocenza
della gioventù, senza consultarsi con gli altri, Dennis “la minaccia” mente: “Sì,
Brian e Mike hanno scritto una canzone sul surf”. Sguardi imbarazzati,
sorrisini, un arrivederci ed eccoli in strada. “Dennis… Dennis! Ma proprio
il surf?”.
Comunque siano andate le cose, il genio e il cugino
scrivono un brano dal titolo, a quel punto, quasi obbligato: Surfin’.
Non è niente di particolare ma funziona. Ma come fare ad inciderlo? E’ il primo
weekend di settembre (in America è il labour day) e i coniugi Wilson se ne
vanno per qualche giorno lasciando un po’ di soldi ai loro ragazzi. La leggenda
vuole che quel capitale sia servito nell’acquisto di una strumentazione base.
Carl e Al suonano, come previsto, le chitarre. Mike si limita a cantare anche
se cerca di estrarre qualche nota da un sax. Dennis è il meno dotato e, quindi,
va alla batteria: è logico (o almeno lo era in un’epoca in cui, per tenere il
ritmo, poteva bastare anche un solo colpo ben assestato all’unisono a rullante
e grancassa: basta non perdere il tempo). Brian suona il piano molto bene, è in
grado di eseguire tutta la sua prediletta Rhapsody In Blue a memoria. Ma
è difficile trasportarselo dietro e poi manca mezza sezione ritmica: ecco
allora che il genio impara, si dice in poche ore, a suonare il basso elettrico.
Beninteso che tutti e cinque i componenti dei Pendletones contribuivano insieme
al canto e alle armonie vocali (con la sola eccezione di Mike Love, incaricato
da Brian di fare da voce solista e frontman).
Una prima prova dai Morgan conduce alla firma di un
contratto per le edizioni e alla promessa della pubblicazione del brano che
viene reinciso in ottobre. Il titolo ed il tema della canzone provennero da
Dennis Wilson, paradossalmente l’unico del quintetto che praticasse
abitualmente il popolare sport californiano. Quello
che viene immortalato su vinile è un brillante mix tra le armonie doo-wop dei
Four Freshmen e alcuni semplici accordi à la Dick Dale che diviene
improvvisamente un piccolo hit locale, ma è assai probabile che la storia dei
Beach Boys si sarebbe fermata qui se Murry Wilson non avesse preso in mano le
redini della situazione avocandosi l’incombenza di fare da manager al gruppo.
Il temibile papà era rientrato dal viaggetto con la moglie e ha scoperto che la
prole, invece di darsi alla pazza gioia con le bellezze in bikini, ha creato un
gruppo chiamato Pendletones, come la griffe delle celebri camice a righe
indossate dai ragazzi, all’epoca assai di moda tra i surfisti: “Ho lasciato
ai ragazzi abbastanza soldi per mangiare intanto che eravamo via per tre
settimane. Quando sono tornato indietro avevano speso tutto per comprarsi degli
strumenti, volevano formare una band. Cosa potevo dire? Sono diventato il loro
manager”. Alla fine di novembre è un
etichetta piccola piccola, la Candix Records, a pubblicare Surfin’ (sul
retro c’è una sciocchezza chiamata Luau), dopo che la band aveva
abbandonato il nome Pendletones per adottare quello di Beach Boys. Sono i
titolari di quella casa, Joe Saraceno e Russ Regan, a decidere che quel 45 giri
va accreditato ai Beach Boys e non ai Pendletones (e neppure ai Surfers, come a
un certo punto era stato ventilato). I cinque non sono felicissimi di
quell’improvviso battesimo ma hanno ben poco tempo per pensarci. La canzone
piace, le radio di Los Angeles la trasmettono e arriva anche l’ora del debutto
ufficiale sul palcoscenico. E’ il 23 dicembre, solo lo spazio per due brani. La
star del Rendez-Vous Ballroom, quella sera, è proprio Dick Dale.
Ancora niente di serio, però. Con l’anno nuovo Al Jardine riprende
a studiare odontoiatra e Brian inserisce in formazione un altro vicino di casa:
si chiama David Marks ed è persino più giovane di Carl, classe 1948. Nonostante
l’improvvisa fortuna di Surfin’, che entra nella Top 100 di Billboard
salendo fino al 75° posto, i fratelli Wilson non sanno bene quale sarà il loro
futuro. Addirittura incidono un paio di pezzi ribattezzandosi Kenny & The
Cadets in compagnia di mamma Audree. Murry, intanto, ha fondato la propria casa
di edizioni, la Sea Of Tunes, perché il genio di famiglia ha composto qualche
nuovo brano troppo bello per lasciarselo scappare: Surfin’ Safari, Surfer
Girl e 409. Armato di queste registrazioni un genitore più motovato
e aggressivo che mai, grazie ai suoi brevi trascorsi nel ramo della musica e
dello spettacolo, tenta il tutto per tutto riuscendo a procurarsi un
appuntamento con Nick Venet, responsabile del reparto “Artisti e Repertorio”
della Capitol. Il biglietto da visita che che Murry porta a quell’incontro è un
demo di quattro brani che a sue spese aveva fatto appositamente incidere al
gruppo presso i Western Studios di Hollywood. Quel nastro, in cui figuravano le
prime registrazioni mai realizzate di Surfin’ Safari, 409, Lonely
Sea e Judy, includeva anche una versione a cappella di Their
Hearts Were Full Of Spring che, rispolverata parecchi lustri dopo (1993)
nel box set Good Vibrations, testimonia quanto la tecnica vocale dei
Beach Boys fosse già ricca di sfumature e personalità, ancor prima di essere
ulteriormente levigata da Brian con mezzi e possibilità più professionali. Il
discografico, contro ogni parere contrario dei superiori, accetta e propone un
contratto a quelli che, ormai, devono per forza chiamarsi Beach Boys. Sembra
quasi impossibile, oggi, pensare che ci si potesse interrogare sul potenziale
commerciale di quelle canzoni ma, all’epoca, un quintetto vocale che cantava di
surf, ragazze e macchine veloci pretendendo, pure, di scriversi e arrangiarsi i
pezzi da sé non era cosa di tutti i giorni ed era difficile prevederne gli
sviluppi. Alla fine il nuovo singolo, che accoppiava Surfin’ Safari a 409,
conquista il quattordicesimo posto rompendo ogni indugio: il foglio viene
firmato mentre Brian, da sempre sicuro sulle sue doti di compositore, non si
sente altrettanto bravo nel ruolo di paroliere. Suoi partner, in quel periodo,
sono Mike Love, l’amico Gary Usher e, in seguito, il dj Roger Christian.
Malauguratamente non c’è molto tempo per creare: bisogna
assemblare un album in fretta e furia e poi partire in tour. Il 33 giri si
intitola come il singolo e ottiene un rispettabile tretaduesimo posto.
Qualitativamente, però, il debutto sulla lunga distanza non è di quelli
memorabili: risente della frenesia e Venet alla consolle non riesce a
mascherare le carenze strumentali dei cinque che, invece, mostrano un affiatamento
vocale incredibile. Fatta eccezione per per Surfin’ Safari e la già nota
Surfin’, qualcos’altro di buono arriva da 409 (la prima hot rod
song in assoluto, introdotta dal rombo della 348 Chevy di Gary Usher registrato
fuori casa Wilson), da The Shift, da Ten Little Indians e dalla
strumentale Moon Dawg (un brano lanciato nel 1959 dai Gamblers).
Vocalmente parlando, in genere la parte principale è affidata al
timbro nasale di Mike Love (nelle armonie si occupa invece dei bassi), mentre
Brian si distingue per l’acuto falsetto. Carl e il nuovo arrivato, David,
pensano ai cori con la sporadica partecipazione di Dennis. Quest’ultimo ha
altre qualità: la sue voce non è pura come quelle dei fratelli e si inasprirà
ulteriormente col passare del tempo, mentre il suo stile ai tamburi… beh, è
quasi inesistente. Ma è muscoloso, abbronzato e secondo le ragazzine è lui il
più bello, quello che ottiene gli applausi più forti nei concerti. Addirittura,
prima che interpreti qualche pezzo come cantante solista, gli si concede un
momento, Dennis’ Drums, dove tiene i quattro quarti fra le ovazioni del
pubblico femminile. Chissà che ne pensa Brian che nel frattempo ha trovato
negli studi Capitol un giocattolo molto più grande del suo piccolo registratore
casalingo.
Entro la fine del ‘62 escono due frivolezze che portano la sua
firma come produttore: The Revo-Lution di Rachel & The Revolvers e The
Surfer Moon di Bob & Cheri. Sono incisioni che non lasciano traccia
mentre il solco più profondo è quello che scava nel cuore del giovane artista
un’amica della fidanzata di Usher, Marilyn Rovell. E’ intonata e l’innamorato
la convince a formare un trio, le Honeys, con la sorella e una conoscente,
ripetendo, in rosa, il modello “tutto in famiglia” dei Beach Boys. Questi
intanto azzeccano un nuovo hit con Surfin’U.S.A.: il singolo è terzo
nelle classifiche nazionali, l’omonimo long playing secondo. Il quintetto è
ormai il gruppo più popolare degli Stati uniti anche se ai legali di Chuck
Berry non sfugge che la canzone altri non è che la vecchia Sweet Little
Sixteen, il cui motivo era stato spudoratamente, ma genialmente, rubato da
Brian che la rivestì con un nuovo testo sempre ineggiante alla tavola incerata.
Inevitabile
la causa legale che stabilì come il merito fosse da riconoscere esclusivamente
a Chuck Berry che a tutt’oggi ne possiede tutti i diritti. Tuttavia
l’orgoglioso Brian Wilson, avendola dopo tutto scritta egli stesso, non ha mai
accettato quella sentenza e non smetterà mai di dichiarare che la canzone fu
solamente influenzata da Berry e non copiata pari pari.
Distratto da Jan & Dean, un duo di successo con cui si diverte
a sperimentare, Brian ne combina un’altra grossa, regalando loro e cantandoci
pure sopra senza autorizzazione, Surf City che tocca, inaspettatamente,
la vetta delle classifiche: pubblicano per un’altra etichetta ma quel falsetto
è inconfondibile e irrita non poco la casa madre. A quel punto quel tono acuto
si trasforma in una voce grossa: il genio esige di produrre i Beach Boys e la
Capitol capitola, scusate il bisticcio di parole, trasformando quel ragazzo
dotato nell’artista più invidiato d’America. Il fatto è significativo per due
aspetti: primo, perché mai in precedenza un gruppo major era riuscito ad
escludere in maniera così totale un colosso discografico dalle proprie scelte
artistiche; secondo, perché Brian Wilson inizia da questo momento a ritagliarsi
il proprio spazio creativo a spese del fin troppo invadente padre Murry.
“L’album era la prova che i miei arrangiamenti vocali per i Beach
Boys possedevano uno stile unico” – ricorda Brian – “Farmer’s Daughter fu
la mia prima occasione per dimostrare che cantavo bene in falsetto. Ho cantato
in vari modi durante la mia carriera. La mia voce sembrava non avere limiti di
alcun genere. Non mi sono mai piaciute le voci di seconda classe. I ragazzi
dovevano sempre dare il massimo oppure non se ne faceva niente Su quest’album
avevamo raggiunto un passo veloce, quasi atletico e naturale. Alla gente
piacevano testi competitivi come quelli di Shut Down, dove si istigava a
distanziare e superare gli altri nelle gare di velocità in auto. Ho cantato
Lonely Sea dal profondo del cuore e tutto era ispirato da una gigantesca
piscina chiamata oceano. Per i Beach Boys l’oceano ha sempre rappresentato un
mood, uno stato d’animo che traspariva apertamente nella loro immagine
pubblica”.
Oggi si tende a identificare il produttore come una sorta di
musicista aggiunto, un’altra testa pensante che dialoga con la star o con la
band di turno, che imprime il suo tocco alla registrazione. Non si tiene conto
dell’aspetto più importante: quello economico. Chi conduce la session di
registrazione, per conto di chiunque lo stia facendo, sta gestendo un budget
monetario. Quelle risorse vanno a coprire le spese di affitto dello studio, la paga
dei musicisti coinvolti, dei tecnici, persino del nastro che si utilizza. Non
sono precisazioni di poco conto visti gli sviluppi della carriera di Brian che,
sulla scorta dei buoni risultati commerciali, inizia a scrivere e comporre con
notevole prolificità permettendo ai Beach Boys, oltre a Surfin’ U.S.A.,
di scodellare nell’autunno del ’63, in tempi inconcepibili nel terzo millenio,
altri due album a distanza di un solo mese l’uno dall’altro: Surfer Girl
(settimo posto e il primo su cui Brian inizia ad essere segnalato come
produttore) e Little Deuce Coupe (quarto). Il secondo è quasi un
concept, si dirà col senno di poi, perché tutte le canzoni parlano di
automobili (ma non era tematico trattare solo di surf?).
Con questo tris d’assi i Beach Boys dominano le classifiche
stanziandovi per mesi, merito tanto di stupende ballads quali In My Room,
Surfer Girl, The Surfer Moon, Spirit Of America (tutte con
Brian alla voce solista), quanto di brani più surf-pop e rock ‘n’ roll come Catch
A Wave, Little Deuce Coupe e Be True To Your School. Accanto
a questo repertorio la band non mancava tuttavia di includere surf strumentali
dal ritmo più primitivo e incalzante quali Punchline, The Rocking
Surfer, Stocked (un vero gioiellino) e una cover di Misirlou,
meglio nota, come visto più sopra, per l’interpretazione datane da Dick Dale,
artista assieme al quale i Beach Boys portarono il genere surf rock al culmine
della popolarità negli States fino a quando l’onda non fu cavalcata in seguito
da formazioni quali Jan & Dean, Ronny & The Daytonas, Tornadoes,
Ventures e Trashmen. Sempre Brian Wilson a proposito di questo primo periodo: “Surfer
Girl rappresentò un passo avanti verso la giusta direzione. Ero stanco di
fare concerti e questo album mi aiutò a rilassarmi e a essere creativo. Il
singolo Surfer Girl fu la ballad che scrissi per il gruppo. Per me ha
sempre significato molto, intendo spiritualmente, è la canzone chiave con cui
il gruppo iniziò a produrre delle ottime armonie… Catch A Wave fu invece
il mio primo grande esperimento sugli arrangiamenti vocali. Quando finii di
scriverla saltai dal pianoforte e gridai ai miei genitori di venire ad
ascoltarla. Ci restarono secchi. I ragazzi si elettrizzarono quando la
registrammo. Amavamo suonare anche Little Deuce Coupe. Aveva un buon
ritmo shuffle, differente da quello che le radio solitamente facevano ascoltare
a quel tempo… è la mia car song preferita. Ricordo che mi piacque molto
produrre In My Room. C’è una storia dietro questa canzone. Quando io,
Carl e Dennis eravamo dei ragazzini e ancora abitavamo ad Hawthorne dormivamo
tutti nella stessa stanza. Una notte cantai il motivo di una canzone di Otia
William intitolata Ivory Tower e a loro piacque. Poi, un paio di
settimane più tardi iniziai ad insegnare loro come cantare le armonie di
accompagnamento di quella canzone. Ci misero un bel po’ per apprenderle ma alla
fine ci riuscirono. Poi la cantammo notte dopo notte. Quando registrammo In
My Room i primi versi del testo toccavano proprio a me, Carl e Dennis e in
quel momento ci sembrò come se stessimo cantando dai nostri letti. Dedicai
A Young Man Is Gone alla memoria di James Dean, mentre Surfer Moon fu
il mio primo arrangiamento con una sezione d’archi. In quel periodo avevo
appena finito di scrivere, produrre e masterizzare Little Deuce Coupe,
il nostro quarto album fino a quel momento e il terzo uscito nel 1963. La
Capitol si sentì autorizzata a spremere ogni singola nota da me e dai Beach
Boys prima di accorgersi che il fenomeno del surf e delle auto stava per
scomparire. Non c’era pausa. Reclamavano in continuazione nuove canzoni. E’
difficile descrivere l’accelerazione e la convulsione di quei giurni. Interi
mesi sembravano compressi in un unico pomeriggio. Tutto era così nuovo,
eccitante, minaccioso e terrificante allo stesso tempo. Mi ero trasferito dalla
casa dei miei genitori al mio primo appartamento e da lì al mio secondo. Avevo
rotto con una ragazza e iniziato una nuova relazione, girato gli States e
terminato di scrivere e produrre tre album che includevano più di mezza dozzina
di hit singles”.
Un
anno fortunato si conclude con un singolo natalizio, Little Saint Nick.
Gli eventi sono cosi concitati che quasi nessuno si rende conto che David
Marks, a quanto pare capriccioso e impertinente, se n’è andato fra il secondo a
il terzo album, permettendo il ritorno di Al Jardine. Allo stesso modo solo gli
ascoltatori più attenti hanno modo di intuire che fra i solchi che affollano
questi dischi qualcuno stia tentando esperimenti più arditi. Paradossalmente,
infatti, questo clima di pressione rinvigorì piuttosto che svilire la vena
creativa dei Beach Boys. Ormai la band era un treno in corsa che rispettava
tutte le fermate senza perdere un colpo. Lo stile canoro e musicale non era più
una semplice amalgama di doo-wop, surf e rock ‘n’ roll ma molto altro ancora.
Anche i testi, inizialmente ingenui ed immediati, presero a sviluppare emozioni
e messaggi più sofisticati, improntandosi al ricercato gradiente spirituale che
affiorava progressivamente nel carattere sensibile di Brian Wilson.
Nel
1964 altri avvenimenti influirono sulla storia musicale del gruppo. Stremato
dalle angherie in sala d’incisione, stufo di essere trattato come un moccioso
davanti a tutti, il giovane Wilson licenzia suo padre: non sarà più lui il
manager dei Beach Boys. Sempre più in conflitto con il figlio Brian, che era
ormai il leader indiscusso, Murry Wilson fu esautorato da ogni compito che
avesse a che fare con l’immagine e la gestione artistica della band. Gli altri
sottoscrivono tirando un enorme sospiro di sollievo. Murry è sconvolto e si
chiude in camera sua per diversi giorni senza neppure alzarsi dal letto (a
quanto pare, un vizio di famiglia). Audree cerca di ricompattare la situazione
ottenendo, invece, un doloroso divorzio dal coniuge. Brian si sente
responsabile. Il discusso genitore aveva cresciuto i suoi figli con un forte
senso della competizione. E’ forse per questo motivo che quello che anche i
giornali iniziano a etichettare come “genio” (è il secondo artista rock a ritrovarsi
appiccicato il nomignolo, il primo è stato Ray Charles), vede Phil Spector come
un modello ma, soprattutto, come un rivale. Quell’uomo aveva un’unica forma di
modestia: non pubblicava con il suo nome. Le sue voci erano quelle femminili
delle Ronettes o delle Crystals, oppure quelle maschili dei due Righteous
Brothers, antagonisti di Jan & Dean. Per il resto scriveva, produceva,
pubblicava con la sua etichetta brani registrati con un pugno di musicisti che
considerava proprietà privata e con i quali aveva sviluppato una tecnica nota
come “wall of sound”: strumenti che ripetono le stesse parti all’unisono fino a
ottenere un volume imponente con un uso spropositato dell’eco. Uno stile che si
esprime molto meglio in monofonia per mantenere l’integrità dell’impatto sonoro
originale. Brian era stato testimone di quella creatività partecipando a
qualche session di Spector come membro aggiunto dei cosiddetti regulars.
Si trattava, probabilmente, di un premeditato assalto psicologico: Wilson venne
allontanato senza troppi complimenti mentre un ghigno sinistro attraversava il
volto di Phil, soddisfatto di aver umiliato il “nemico”.
Però
Brian si serviva dei suoi orchestrali sempre di più, cercando, in un primo
tempo, di nascondere le pecche strumentali dei fratelli, accorgendosi ben
presto che interpreti più preparati erano in grado di occuparsi di spartiti ben
più complessi di quelli confezionati fino a quel momento. Fu così che iniziò a
disertare i concerti in modo da disporre di maggior tempo per la composizione e
la produzione. Ma aveva poco tempo: il ritmo era forsennato e in sovrappiù ci
fu un evento destinato di lì a poco ad incidere notevolmente sul futuro
musicale di Brian e della band: il primo tour effettuato negli States dai
Beatles, un quartetto dalle incredibili doti, che sono, per giunta,
“dipendenti” della consociata britannica della Capitol, la EMI. “L’invasione
dei Beatles mi sconvolse” – confessa Brian – “Eclissarono quasi tutto
ciò per cui avevamo lavorato; eclissarono l’intero mondo della musica. Io e
Mike c’incontrammo per discuterne. Ci sentimmo minacciati da ciò che stava
accadendo”.
La preoccupazione di sfidare e superare l’arte dei Fab
Four fu, da questo momento, il chiodo fisso di Brian, la ragione ultima di un
rilevante dispendio di energie fisiche e mentali per cui il leader dei Beach
Boys strinse d’assedio il proprio genio e optò per scelte radicali che
sarebbero occorse negli anni a seguire. La prima, stupefacente risposta a
questa minaccia provenne dalla realizzazione di ulteriori quattro album da top
ten nello stesso anno, nell’ordine Shut Down Vol. 2 (il primo volume era
una compilation di vari gruppi legati alla surf music), All Summer Long,
The Beach Boys Concert e The Beach Boys Christmas Album, tutti ai
primi posti con il live che tocca, per la prima volta, il numero uno. Ma fu All
Summer Long con il singolo I Get Around, il primo che raggiunse la
vetta massima della classifica tra i tanti sfornati fino ad allora, e distante
anni luce dalle cose di di pochi mesi prima, a mostrare a tutti quanto fosse
cresciuta e maturata sia la tecnica vocale del gruppo sia l’abilità di Brian in
sede di produzione e composizione.
“Sentivo finalmente che i Beach Boys erano stati capaci
di mettere in piedi un album competitivo nei confronti di Phil Spector e dei
Beatles” – ricorda Brian – “Le Parti vocali erano solide, la produzione
più nitida e creativa rispetto alle precedenti. Ero la colmo della gioia, ma
l’euforia durò poco poiché lo sforzo e la tensione psicologica di cosa fare
subito dopo stavano toccando una soglia pericolosa. Sebbene stessi pagando una
penale pesante per scrivere canzoni che potessero piacere alla gente,
nell’autunno del 1964 i Beach Boys spiccarono letteralmente il volo, eppure
nessuno sembrava preoccuparsi della mia salute. L’album raggiunse il quarto
posto e contemoporaneamente vantavamo molti altri singoli in classifica. Ebbi
la sensazione che fossimo i Cassius Clay del rock ‘n’ roll, invincibili,
indisponenti e nettamente americani quando seguimmo i Beatles all’Ed Sullivan
Show”.
Ad incrementare la qualità, nonostante il contratto
capestro costringesse alla sovrabbondanza di materiale, lo scontro a distanza
con i Beatles fa sì che All Summer Long sia un album zeppo di numeri
strabilianti: la title track, tanto per cominciare (un vero soffio di gioia
estiva che sprizza dai cori e dalle note), la rockeggiante Little Honda
(con la sempre più incisiva chutarra di Carl Wilson e il basso “fuzzato” di
Brian ad ispessire il groove del brano), Wendy (semplicemente perfetta
nel trasmettere purezza ed innocenza adolescenziali) e Don’t Back Down
(quanta fortuna costruì Brian intorno a quegli ‘hooo’ sovrapposti a grappoli e
in levare dietro le armonie e i passaggi vocali centrali).
Dal canto suo l’album Shut Down Vol. 2 teneva il
passo con Fun Fun Fun (il ritornello mozzafiato, la chitarra di Carl che
clona nell’intro Johnny B Goode di Chuck Berry e l’effetto garage
dell’organo di Brian ne fanno una delle gemme pop rock dei Beach Boys), il
capolavoro Don’t Worry Baby (la più bella risposta alla spectoriana Be
My Baby delle Ronettes) e due superbe interpretazioni vocali di Brian in
falsetto, ossia Why Do Fools Fall In Love (anch’essa registrata presso
il wall of sound di Phil Spector) e la melanconica The Warmth Of The Sun
(scritta da Brian e Mike poco dopo l’assassinio di John F. Kennedy).
Non contenti di ciò e quasi a sfatare il detto che il
successo logora, i Beach Boys affrontano nello stesso anno un lungo tour
europeo che tocca trionfalmente il Regno Unito. Per Brian sarà anche l’ultima apparizione
in pubblico con la band poiché al ritorno, dopo aver sposato Marilyn, sceglierà
volontariamente di farsi sostituire sul palco dall’amico Bruce Johnston. Un
passo necessario per evitare l’accumulo di ulteriore stress e scovare con
calma, nel proprio studio casalingo, i mezzi d’espressione più ricercati per
accrescere le prodezze musicali del gruppo. Così un giorno abbandona ipso facto
il tour invernale. “Nessuno sapeva cosa stava succedendo“ – ricorda
Brian – “Non riuscivo neppure a guardarli, i ragazzi. Quella sera il road
manager mi ha riportato a Los Angeles e non volevo vedere nessuno tranne mia
madre”. Il genio è crollato. Sul volo diretto a Huston scoppia a piangere e
tocca il fondo di un esaurimento nervoso davanti a tutti: “Stavo precipitando,
mentalmente ed emotivamente, perché stavo correndo in giro senza sosta,
saltando da una città all’altra, da un jet all’altro, senza mai fermarmi più di
una notte, e intanto producevo,
scrivevo, arrangiavo, cantavo, pianificavo, insegnavo agli altri le loro
parti… Sono arrivato ad un punto in cui non avevo pace, neanche la possibilità
solo di sedermi a pensare o a riposarmi. Ero così confuso e iperattivo. Stavamo
partendo per Houston per iniziare un tour di due settimane. Ho detto addio a
Marilyn: non stava andando troppo brnr
fra noi. Credo che l’aereo fosse in aria da pochi minuti quando ho detto
ad Al che avrei potuto crollare in qualsiasi istante, ma lui mi ha risposto di
calmarmi. Allora ho iniziato a piangere, ho messo la faccia in un cuscino e ho
gridato, ho urlato, dicevo a tutti che non sarei mai sceso dall’aereo. Ero
andato troppo in là, ero sfinito, avevo un esaurimento e mi ero completamente
lasciato andare. L’elastico si era teso al massimo: non potevo fare di più”.
Quando recupera le idee chiama a raccolta la band e cerca di spiegarsi: “Prevedevo
un grande futuro per i Beach Boys ma l’unico modo per raggiungerlo era
dividerci. Io avevo il mio lavoro da fare e i ragazzi avevano il loro. Dovevano
cercarsi un rimpiazzo per me sul palco”. Gli altri non la prendono bene: “Mike
perse la calma e disse che non c’era motivo di continuare. Dennis ha preso un
grosso portacenere e ha urlato ai presenti di andarsene, altrimenti li avrebbe
colpiti. Al piangeva e aveva i crampi allo stomaco. Solo Carl non si lasciò
prendere dal panico”. Il primo sostituto si chiama Glen Campbell, un
musicista più anziano ed esperto che ha ambizioni solistiche e, quindi, non si
ferma molto (per ringraziarlo Brian scrive e produce per lui la bellissima Guess
I’m Dumb). Poi arriva Bruce Johnston, dall’aprile 1965, un membro aggiunto
della band che, nonostante il tempo e l’impegno profuso, per qualche anno non
verrà accettato come Beach Boy a tempo pieno.
L’idea, comunque, sembra funzionare: il gruppo torna agli
show, il leader si chiude in studio a ciclo continuo per sfornare i brani che
andranno a far parte di Beach Boys Today! che tocca il quarto posto in
classifica alternando canzoni veloci, come una cover di Do You Wanna Dance
di Bobby Freeman, a una serie di brani
più profondi e armonicamente complessi. E’ la strada che intende intraprendere
spronato anche dal suo primo contatto con l’acido lisergico. Per quanto
riguarda Today! possiamo già parlare in termini di un mezzo capolavoro.
Si tratta del primo vero e riuscito tentativo di confezionare un album con una
percentuale abbastanza alta di pop-rock orchestrato. E’ in questo frangente che
Brian inizia ad assumere forti dosi di hashish e marijuana con l’evidente
intento di moltiplicare i canali della sua percezione artistica. In modo più
esplicito e consapevole prende corpo anche il nuovo processo di produzione e
registrazione. Brian acquisisce e sviluppa ad un livello più alto i metodi di
Phil Spector, assoldando molti suoi turnisti e la crema dei musicisti impiegati
di solito negli Studios di Hollywood. I brani sono teorizzati e costruiti come
sinfonie in miniatura, lo studio sugli arrangiamenti e le parti vocali di ogni
singolo pezzo prende giorni se non settimane (le voci di Carl, Dennis, Mike e
Al sono trattate alla stessa stregua di strumenti musicali), mentre il basso di
Brian suona, sovrapponendole al momento dell’incisione finale, due distinte
linee melodiche (una tecnica innovativa in seguito adottata dallo stesso Paul
McCartney).
“L’intero secondo lato di Today! lo scrissi e
arrangiai mentre ero sotto l’effetto dell’erba” – ricorda Brian – “Paragonata
a quella dei precedenti lavori dei Beach Boys, la musica aveva un ritmo più
lento, più malinconico ed emotivo. La struttura degli accordi era più
complessa, la produzione, più densa di sfumature sprigionava un suono ricco e
avvolgente. La mia concezione su come registrare era profondamente mutata.
Essendo diventato abile nell’arrestare in qualsiasi momento le canzoni per
apportare piccole modifiche, iniziai a lavorare singolarmente su ogni
strumento, legando i suoni tra loro uno alla volta”.
Sulla scorta di questa nuova alchimia nascono brani
unitari ma internamente complessi, pietre miliari della stagione pop anni
sessanta quali la sopra citata Do You Wanna Dance (ripresa poi con
successo dai Ramones), Please Let Me Wonder, When I Grow Up (To Be A
Man), Dance Dance Dance e la struggente She Knows Me Too Well.
Ma c’e una battuta d’arresto, secondo Brian: nonostante contenga un brano fra i
più belli e celebri della storia del rock, California Girls, per il
genio il successivo Summer Days (And Summer Nights) è una mezza
delusione. La Capitol ha esercitato troppe pressioni perché fosse ultimato in
fretta. “Mai più!” pensa Brian, mentre la sua ambizione lo spinge verso
nuovi orizzonti. Ciononostante fu l’album che diede al gruppo le maggiori
soddisfazioni commerciali. E’ qui infatti che trova posto, oltre a California
Girls, la contagiosa Help Me Rhonda. Sono due dei maggiori hit
singles del gruppo che andarono a piazzarsi rispettivamente al terzo e al primo
posto di Billboard. Con California Girls (in cui troviamo Mike Love alla
voce solista) Brian Wilson taglia già il traguardo di una produzione eccelsa e
originale al massimo grado, essendo questa una delle prime sinfonie pop costruite
a puzzle, una regola che poco appresso troverà vasta eco in Pet Sounds e
il suo climax supremo nel corpo di Good Vibrations. Il doppio Hawthorne,
CA. e il quinto dischetto incluso nel box Good Vibrations – Thirty Years
Of The Beach Boys mostrano oggi la tecnica con cui Brian e i Beach Boys
usavano mettere in piedi le basi strumentali e le armonie vocali di molti dei
titoli fin qui citati, incluse due magnifiche alternate versions di Barbara
Ann (un originale dei Regents, perla dell’album di cover Beach Boys’
Party) e del singolo pubblicato
isolatamente nell’ottobre del ’65, The Little Girl I Once Knew, che con
i suoi inconsueti cambi e arresti di ritmo costituisce una tra le più
suggestive e affascinanti pagine musicali del gruppo.
Il periodo che va dal 1966 al 1967 fu insieme uno dei più
esaltanti e drammatici al tempo stesso dell’intera carriera di Brian Wilson. La
mente del leader manda definitivamente al macero la tematica delle tavole da
surf e delle automobili per sviscerare un universo di emozioni dal carattere
spiccatamente intimistico, in delicato equilibrio tra l’autobiografico ed un
insopprimibile afflato spirituale (saranno anche loro, assieme ai Beatles,
ospiti, in India, del discusso santone Maharishi Yogi) il tutto, ovviamente,
sfoggiando la consueta esaltante tecnica di inarrivabile perizia vocale e
strumentale.
La storia di Pet Sounds, l’opera che marcherà a
lettere d’oro i nomi di Brian Wilson e dei Beach Boys negli annali, due nomi
che pronunciati consecutivamente faranno salire unanimi commenti di
approvazione ed inchini nelle discussioni sullo stato della musica, inizia un
po’ ingloriosamente nel novembre del ’65, quando il “genio” (ormai lo chiamano
tutti così grazie anche alla campagna del nuovo addetto stampa, Derk Taylor,
scippato proprio ai Beatles) si chiude nei prediletti Western Recorders, a
Hollywood, per concentrarsi su un nastro a nome Dick, “cazzo”. “Cos’è
lungo, sottile, coperto di pelle e solo Dio sa quanti buchi conosce?”, chiede
una voce femminile maliziosa. “Il cazzo!”, risponde Brian con prontezza.
“No”, ribatte lei, “Un verme”. Risate. Forse chi sostiene che si
abusasse di certe sostanze non ha del tutto torto. E’ chiaro, fin dall’ultimo
singolo pubblicato, quel The Little Girl I Once Knew citato più sopra,
che Brian si sta imbarcando in qualcosa di molto difficile, abbandonando di
proposito quello stile commerciale che lo vedeva autore di irresistibili hit
orecchiabili, fatti di pochi accordi e di liriche spensierate. Per mettere
insieme questi tasselli, però, occorre tempo e la Capitol non è disposta a
concederne. La soluzione proposta dal leader è dignitosa: registreranno in
pochi giorni, come all’inizio, tanto per pubblicare qualcosa, poi lui tornerà
in studio per lavorare al suo capolavoro. Tutti d’accordo. Il risultato è Beach
Boys’ Party!, un album che è fatto di niente: chitarre acustiche,
bonghetti, l’atmosfera dei falò sulla spiaggia.
Le canzoni sono quelle che i ragazzi preferiscono, brani
dei Fab Four e persino di Dylan. C’è pure un vecchio pezzo dei Regents, Barbara
Ann, con Dean Torrance (quello di Jan & Dean) che si aggiunge come voce
solista. Una doppia umiliazione per Brian: la pressione per pubblicare che lo
costringe a creare un intero “album riempitivo” in quattro e quattr’otto per
continuare a lavorare indisturbato sul capolavoro da tempo vagheggiato, Pet
Sounds, e la nascita, casuale, del pezzo più ricordato della carriera della
band. Infatti, non solo l’album riempitivo piace fin troppo al pubblico ma
quella cover, l’irresistibile Barbara Ann, che non ha nulla della sua
visione e neppure la sua voce ed è in pieno contrasto con le sue sinfonie
tascabili, diventerà il tormentone più caratteristico dei Beach Boys. Povero
Brian, verrebbe da dire, ma questo inconsapevole precursore di tutti gli unplugged
è davvero delizioso, con la sua atmosfera scanzonata e gli omaggi ai Beatles
(ben tre: I Should Have Known Better, Tell Me Why e You’ve Got
To Hide Your Love Away) e a Dylan (The Times They Are A-Changin’).
Al momento, di tutto questo Brian pare non curarsene troppo e ritorna in studio
per le ventisette costosissime sessions che porteranno alla realizzazione di Pet
Sounds. A preoccuparlo, semmai, è la bellezza di Rubber Soul,
disarmante capolavoro dei Beatles.
E’ il momento della verità per il genio di Brian Wilson.
Allorché i Beatles pubblicarono Rubber Soul, sul finire del del ’65, la
competizione con la coppia Lennon/McCartney riemerse più forte che mai. La sua
ammirazione per quell’album fu ben presto soppiantata dalla volontà di
superarlo. Al pari di un valente stratega Brian pianificò nei più piccoli
dettagli tutte le mosse nesessarie alla rimonta e al definitivo sorpasso. Brian
Wilson: Rubber Soul era un album di canzoni che in qualche
modo andavano insieme come in nessun album mai prodotto, e io ero molto
sorpreso. Dissi: "Ecco. Ora sono davvero stato spinto a fare un grande
album." »
A ragione s’è detto che Pet Sounds fu un disco
composto e prodotto da Brian per proprio diletto, tenendo in poco conto quelle
che potevano essere le reazioni e le aspettative commerciali sia degli altri
Beach Boys sia della Capitol. Negli States fu inizialmente un mezzo flop (e
causa di ciò fu proprio la casa discografica che non badò a promuovere il
disco, pensando che si trattasse di un capitolo estemporaneo e che alla prova
successiva la band sarebbe tornata sui propri passi), ma la critica e
soprattutto il pubblico dall’altra parte dell’oceano ne riconobbero subito i
meriti e gli invidiabili pregi. Intuendo che gli sarebbe occorso molto tempo in
studio per preparare, provare e registrare tanto i suoni che le parti vocali,
Brian cercò subito una persona che almeno gli desse l’opportunità di
risparmiarne una parte, aiutandolo a stendere i testi delle canzoni. La scelta
cadde su Tony Asher, un ignoto compositore che lavorava a Los Angeles per
un’agenzia di jingles pubblicitari. Tony Asher svolse, tuttavia, l’oneroso
compito assegnatogli in modo più che brillante, traducendo in parole, con
perspicacia e spirito d’immedesimazione davvero notevoli, le emozioni e gli
stati d’animo che Brian era desideroso di comunicare. «La scelta del tono delle
parole era quasi sempre sua», disse Asher successivamente, «mentre le parole vere e
proprie erano solitamente mie. Ero solo il suo interprete».
Dell’opus magnum di Brian Wilson si è già parlato
troppe volte negli ultimi anni, di come decise di confezionare una serie di
“mottetti pop”, di come cercò di coniugare strumenti inusuali come la
fisarmonica e l’oboe, di come i versi rispecchiassero le sue sensazioni
riguardo la maturità, di come, a un certo punto, avesse deciso di aspettare e
di non includere un nuovo brano, una cosa sulle vibrazioni che da qualche tempo
gli frullava in testa, per concentrarsi su quell’unico progetto in un secondo
tempo. Good Vibrations sarebbe sicuramente finita
sull'album” ricorda Al Jardine “Ma Brian scelse di lasciarla fuori. Era
una decisione che spettava a lui: noi eravamo contrari, ma lasciammo che fosse
lui a scegliere”.
Parliamo dunque d’altro, di come da questo momento il
ruolo di cattivo della storia passa di mano: non più Murry Wilson, il
padre/padrone, bensì Mike Love, il parente/serpente, depositario della
famigerata cars & fun in the sun. Dov’era tutto questo in Pet
Sounds? “Chi ascolterà questa merda? Un cane?”, chiese Mike a Brian,
quando questi gli suonò le canzoni sulle quali stava lavorando. Di fronte al disprezzo del
cugino, Wilson colse la palla al balzo. “Ironicamente” osservò “l’asprezza
di Mike ispirò il titolo dell’album”. L’abbaiare dei cani (tra i quali
Banana, quello di Brian) spicca tra i suoni “trovati” nell’album. I
Beatles si fecero un punto d’onore di
riprenderli in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: un riconoscimento
dell’ispirazione di Pet Sounds per il loro capolavoro. Quel gesto
completò un cerchio di influenze: Brian aveva aveva concepito Pet Sounds
per superare Rubber Soul dei Beatles. “Fu Pet Sounds che mi fece rimettere i piedi per
terra” rivela Paul McCartney ”Adoro quell'album. Ne ho appena comprato
uno ciascuno per i miei figli per la loro istruzione. Credo che nessuno sia
musicalmente istruito finché non ha ascoltato quell'album. Adoro l'orchestra,
gli arrangiamenti. Potrebbe essere esagerato dire che è il classico del secolo.
Ma, per me, è di sicuro un classico che è insuperabile sotto tanti punti di
vista. Ho spesso ascoltato Pet
Sounds e poi pianto. Lo
feci ascoltare così tante volte a John che gli sarebbe stato difficile
scappare dall'influenza. Era l'album del suo tempo. La cosa che mi fece davvero
mettere a sedere e prendere appunti furono le linee di basso, quel dare una
melodia alle linee di basso. Credo sia quella la grossa influenza che mi diede
quando registrammo Pepper.
God Only Knows è una
delle mie preferite, molto passionale, mi ha sempre lasciato senza parole. E in You Still Believe In Me, adoro
quella melodia, davvero è la mia preferita, è così bella verso la fine,
ondeggia in queste armonie dalle molte variazioni. Mi dà i brividi”.
In
Pet Sounds il contributo vocale degli altri Beach Boys è minimo: in
pratica Pet Sounds è il solo Brian with a little help dei
compagni. Ne è ben conscio l’autore che, passata l’euforia iniziale, inizia a
chiedersi: ai Beach Boys piacerà l’ultimo dei Beach Boys? Di certo la Capitol
non gradisce. Quando ascoltano il master i dirigenti non capiscono: perché fare
una cosa del genere? Perché non accontentarsi del surf, delle automobili, delle
ragazze, dell’estate? Insomma: che è ‘sta roba? Pare che, tra i tanti nastri realizzati
in quel periodo, Brian ne abbia approntato uno con la sua voce che risponde “Si”,
“No” e “Puo ripetere?”, stanco di questionare con i capoccia.
Alla fine l’etichetta cede alle sue insistenze e manda nei negozi il disco.
Avevano ragione i boss: anche se piace agli inglesi, che lo portano al secondo
posto in classifica, in America si ferma al decimo. Non è solo la classiifica a
creare un problema: il produttore aveva perso di vista il budget, l’album era
costato troppe ore in studio (Brian insisteva a registrare dove si trovava
meglio e non nelle sale di proprietà dell’azienda), i musicisti avevano fatto i
tripli turni, il rientro, insomma, era sproporzionato all’investimento. Non che
la Capitol fosse sull’orlo della bancarotta per colpa sua, intendiamoci, ma la
musica pop doveva essre un affare semplice e veloce. Di sicuro non era arte.
In effetti, paragonato alla velocità con cui Brian e i
Beach Boys registrarono i precedenti album (in soli tre anni la Capitol ne
licenziò una dozzina), Pet Sounds fu una faccenda lunghissima ed
estremamente faticosa. Le prime sessions ufficiali ebbero luogo il 17 novembre
del ’65, ma i nastri del disco furono consegnati alla Capitol solo a metà
aprile dell’anno successivo. Quasi una cinquantina di musicisti si avvicendarono
in tre differenti studi di registrazione (il Western, il Gold Star e il
Columbia Studio) dispiegando un parco strumenti a dir poco impressionante:
archi, ottoni, chitarre a sei e dodici corde, ukulele, piano, clavicembalo,
vibrafono, percussioni varie, senza poi dimenticare la prima apparizione del
theremin in un disco di pop rock.
Com’era sua consuetudine Brian effettuò il missaggio
finale in monoaudio. Tale scelta scaturiva non dalla nota deficienza di udito
che lo affliggeva, bensì da una logica e personale concezione acustica secondo
cui la riproduzione in mono induceva l’ascoltatore a fruire suoni e voci nella
precisa gamma di toni e volumi predisposta da Brian (una riproduzione
stereofonica avrebbe alterato tale gamma anche solo con la posizione arbitraria
degli speaker rispetto all’impianto hi-fi). Brian incise le basi strumentali su
un nastro a quattro piste riversandole poi su una sola traccia di un altro
nastro che poteva comprendere un totale di quattro o otto tracce. Le restanti
tre o sette tracce del nastro erano utilizzate esclusivamente per le parti
vocali. Registrate queste ultime si procedeva a fondere il tutto (base musicale
e voci) su un’unica traccia di un terzo nastro, ritornando così alla versione
in mono, utile per il master finale.
Quando nel 1996 l’ingegnere del suono Mark Linett lavorò
alla versione in stereo dell’album (apparsa per la prima volta nel box set The
Pet Sounds Sessions del ’97) e dovette ripercorrere l’iter all’inverso,
si ebbe finalmente coscienza di quanto fosse intricato lo stratagemma adottato
da Brian. Mike e soprattutto Carl ammisero di essere usciti spesso dalle
sessions stremati e sconsolati per l’insoddisfazione di Brian riguardo alle
loro prestazioni vocali: «Facevamo e rifacevamo le armonie” – spiega Mike Love – “e, se c'era anche il più
piccolo accenno di un diesis o di un bemolle, non potevamo andare avanti.
Brian cercava ogni minuscolo difetto a cui si potesse umanamente pensare. Tutte
le voci dovevano essere giuste, tutte le voci con la loro risonanza e tonalità dovevano essere giuste. Il tempo doveva essere giusto. Il timbro delle voci doveva essere giusto, a
seconda di come lui si sentiva. E poi magari, il giorno dopo, poteva gettare
completamente al vento e pretendere che si rifacesse tutto da capo. »
La cosa sorprendente è che tanta cerebralità, accompagnata
da un ripetuto smantellamento di quello che via via si stava costruendo,
produsse alla fine canzoni miracolosamente immediate e spontanee, con le quali
Brian sviscerò illusioni e timori
privati mettendo per la prima volta a nudo la propria anima e
personalità. I sentimenti di frustrazione, alienazione ed
infelicità collegati al progressivo svanire dell’età adolescenziale
costituiscono, infatti, la base concettuale di Pet Sounds, un disco che
insieme a tutto questo è anche una supplichevole e devota preghiera al Signore.
In un’epoca vicina al caos del Vietnam, alle lotte antirazziali e allo
stravolgimento dei costumi sociali e sessuali da parte della Summer Of Love,
la soave tranquillità, il velato pessimismo di fondo di Pet Sounds ed i suoi amoreggiamenti col silenzio furono
le solide fondamenta di una meravigliosa cattedrale nel deserto. Il baricentro
emotivo del disco va ritrovato in brani come That’s Not Me, caramella
pop che restituisce il genere alla propria purezza grazie ad una produzione
rarefatta (l’unico episodio in cui i Beach Boys al completo abbracciano i loro
strumenti); Caroline No (singolo poi pubblicato a nome del solo Brian),
soffuso ed intimistico caleidoscopio minimale, scarno ed essenziale, fatto
assolutamente di nulla nonostante si doti di un parco musicisti di ben dodici
unità e venga impreziosita nel finale con suoni preregistrati come lo
sferragliare di un treno e l’abbaiare del cane di Brian; la straordinaria Wouldn’t
It Be Nice che Brian Wilson descriverà
come la canzone di "ciò che tutti i bambini pensano prima o poi... non
sarebbe bello essere più grandi, per poter così fuggire via di casa e
sposarsi?". “Ascoltate le fisarmoniche rockeggianti e le eteree chitarre nell'introduzione”
spiega Brian
“Tony ed io avevamo visualizzato una scena in mente. Sentivamo una
sensazione nei nostri cuori, una specie di vibrazione. La mettemmo in musica,
ed essa trovò autonomamente la sua strada sul nastro. Fummo veramente
soddisfatti di quella canzone”. Altri brani cruciali sono l’umorale I
Just Wasn’t Made For This Times, canzone della rassegnazione e della
solitudine di un genio troppo avanti con i tempi e frustrato per non essere
capito; You Still Believe In Me, che custodisce una disarmente
connotazione infantile e che meriterebbe un piccolo trattato a parte tanto per
i trucchi utilizzati in studio (Asher: “Per ottenere il sound
dell'introduzione, uno di noi entrava dentro il pianoforte per pizzicare
le corde, mentre l'altro suonava sui tasti le note corrette”), quanto per il fatto di
essere un seme che germoglierà nell’orto sia dei Beatles di She’s Leaving
Home che di quelli più tardi di Because; Sloop John B, forte
di un ritmo vivace e di facile presa (una traditional song presa in considerazione
da Brian su esplicita richiesta di Al Jardine). Ma il pathos vocale di Brian
trova però il suo apice nell’eterea invocazione al silenzio di Don’t Talk
(Put Your Head On My Shoulder), sinfonia per un sentimento d’amore
telepatico e stupefatto allo stesso tempo e nell’altra mini-sinfonia tascabile
che è I’m Waiting On The Day, un'insolita combinazione tra una ballata orchestrale e
un brano rock che Brian indicò essere la traccia che gli piaceva di meno su Pet Sounds a causa della sua esibizione canora
nel pezzo, da lui ritenuta non soddisfacente.
Altra
causa di insoddisfazione fu una parte del testo di Hang On To Your Ego
(che sull’album apparve ufficialmente con il titolo di I Know There’s An
Answer) che accese un aspro dibattito fra Mike e Brian. Quest’ultimo,
sempre più dipendente da sostanze stupefacenti quali cocaina, marijuana ed LSD,
esplicitò con una strofa tanto allegorica quanto inconsapevolmente profetica (“Hang
On To Your Ego. Hang On, But I Know You’re Gonna Lose The Fight”) la
precarietà psichica e la perdita di equilibrio che stavano iniziando ad
affliggerlo. Per Mike (il più polemico e scettico tra i membri del gruppo
riguardo il nuovo corso musicale inaugurato da Pet Sounds) la strofa in
questione sembrò troppo forte oltre che essere nociva per l’immagine dei Beach
Boys e pretese che fosse cassata dal testo. Sulle basi strumentali,
incredibilmente elaborate, ormai non si poteva più intervenire ma, almeno,
andava modificato il testo autistico di Hang On To Your Ego per
sostituirlo con un più sobrio I Know There’s An Answer: “Sapevo che Brian stava
cominciando a sperimentare l'LSD e altre sostanze psichedeliche” – spiega Mike Love – “
Nelle credenze più popolari legate alla droga si credeva che l'LSD distruggesse
l'ego, come se fosse stata una cosa positiva... Io non ero interessato a
prendere acido e a sbarazzarmi del mio ego”. “Brian era molto preoccupato” – ricorda Al Jardine – “Voleva
sapere cosa ne pensavamo noi. Per essere onesti, penso che ai tempi non
sapessimo nemmeno cosa fosse un ego... Infine Brian decise, e disse: ‘Lasciamo
perdere. Cambio il testo. Ci sono troppe polemiche’. E così fece".
Intanto
Brian fuma dosi sempre più imbarazzanti di hashish: “Prendevo un sacco di
cocaina, un sacco di eccitanti e mi sono incasinato la vita.” – confessa il
nostro – “Mi hanno gettato in un tale stato di paranoia per cui sniffavo
nella mia stanza e mi piaceva farlo solo lì. Poi, molto presto, non mi piaceva
più così tanto ma ormai non avevo scelta perché ero incastrato in questa cosa:
non potevo uscire dalla mia stanza. E non ero in grado di creare a causa della
droga. All’inizio stimolava la mia inventiva, dopo, invece, ero arrivato al
punto in cui non riuscivo nemmeno a raggiungere il pianoforte: ero troppo
triste”. E’ in questo stato di alterazione che installa in salotto la
famigerata sabbiera per suonare e comporre con i piedi appoggiati ai granelli.
L’effetto collaterale soni i cani che si ascoltano alla fine di Caroline No,
Banana e Louie, che la riempiono di puzzolenti bisognini con somma disperazione
della moglie Marilyn. Mrs. Wilson inizia a domandarsi se il celebre marito non
stesse, per caso, perdendo la trebisonda: “Voleva una sabbiera e ha avuto
una sabbiera. Voglio dire, chi sono io per dire a un creativo cosa può
fare? Disse: ‘Voglio suonare nella
sabbia, voglio sentirmi come un bambino piccolo. Quando scrivo queste canzoni
voglio sentire davvero quello che sto scrivendo, tutta la gioia’. Così ha
chiamato un falegname molto bravo che ha costruito un’enorme sabbiera di legno
in mezzo al soggiorno. Era alta circa 75 centimetri. Poi sono arrivati con un
camion e ci hanno scaricato dentro otto tinnellate di sabbia. E, siccome non
c’era il sole, la sabbia era fredda, quasi gelata. Comunque ai nostri cani
piaceva molto”.
Ma
cerchiamo di uscire da stravaganze e gossip, e rientriamo piuttosto nei ranghi
del nostro percorso critico ché Pet Sounds rimane soprattutto la
rappresentazione del Brian Wilson più grande e personale e della sua vena pop
più felice. Lo comprovano gemme dello scrigno Wilsoniano come Here Today,
istantanea meravigliosa che ricopre un posto d’onore nell’economia dell’album.
E’ una delle composizioni più ambiziose di Brian, che si porta dentro quel
senso di meraviglia che ritroviamo in tutti i momenti migliori del genio di
Hawthorne (oltre a tramandare alla posterità uno dei migliori impasti
basso-tastiere mai ascoltati a memoria d’uomo). Ma anche i due strumentali
presenti sull’album sono fior di musica estratta dal cappello di Mago Brian: Pet
Sounds, la title track, reca nitido il segno delle colonne sonore realzzate
negli anni sessanta da John Barry per i film di James Bond. Al lussureggiante
panorama sonoro Brian aggiunge il coup de foudre di un’effettistica
prosciugata, essenziale, come le lattine di Coca Cola suonate dal batterista
Richie Frost, mentre Let’s Go For A While è un sussurro musicale dallo
slancio onirico che sax e vibrafono conducono in porto con dolcezza
indescrivibile.
Ma
è soprattutto nella commovente God Only Knows che Brian, toccato da mano
divina, riesce a mettere in mostra tutta la straniante dolcezza delle fascinose
polifonie scaturite dalla sua sublime ispirazione. La sua scrittura è stupenda
in ogni secondo del brano, la sua fantasia è entusiasmante, la sua musicalità
sovrasta ogni cosa, ogni istante, ogni passaggio. God Only Knows è un pezzo di magica intensità disseminato di
cose memorabili, nonché governato da un vasto senso architettonico e sviluppato
attraverso fasi dinamiche equilibratissime.
Con
questo brano Wilson fissa un nuovo punto fermo della sua ricerca estetica e
vellica le orecchie degli ascoltatori con un suadente invito all’ascolto,
disvelando in maniera definitiva
la sua capacità di armonizzatore prezioso.
Un ascolto distratto non le renderebbe merito, ché questo è proprio uno di quei
brani che richiede un piccolo sforzo in più da parte dell’ascoltatore per
essere compreso appieno, per coglierne con dovizia di particolari ogni
sfumatura. Non che sia un pezzo ostico. Tutt’altro. Ma un ascolto superficiale
equivarrebbe a sorvolare il nostro pianeta ad altissima quota con un jet e
pretendere di averlo capito. Una fuggevole visione d’insieme vi farebbe perdere
tutta la bio diversità in esso contenuta, la splendida complessità della sua
orografia, l’infinita varietà dei suoi ambienti, la sua diversa coposizione
etnica, la bellezza delle città e la maestosità dei loro monumenti. Tutto
questo andrebbe inevitabilmente perso. Sono convinto quindi che valga veramente
la pena scendere di quota. Meglio ancora atterrare e proseguire l’esplorazione
a piedi: sono i dettagli che contano. L’incipit è memorabile, modellato (come del resto l’intero
album) secondo dopo secondo con la creta di una strumentazione che, pure in
un’epoca sovraeccitata e carica di novità e trasgressione come i medi anni sessanta,
dovette apparire alquanto eccentrica agli occhi degli esegeti (corno francese,
clavicembalo, flauto, fisarmonica, viola e violino, due bassi, per non parlare
dei ben sedici musicisti accreditati sul disco, avevano rarissimi precedenti
nel piccolo mondo antico del pop). Il climax, poi, è quanto di più
commovente sia dato di ascoltare, un
mood nelle cui spire, secondo
quanto rivelato da Brian Wilson stesso, vennero letteralmente rapiti molti dei
musicisti che presenziarono alla seduta di incisione. Molti di loro, infatti,
affermarono che quella sessione era stata "l'esperienza musicale più
magica e stupenda a cui avessero mai partecipato". Questa non è solo la
più bella canzone d’amore mai scritta (anche
se Tony Asher, argutamente, non ha mancato di notare
la sottile contraddizione di come quella che è considerata una delle più
struggenti canzoni d'amore di sempre, cominci con la frase: “I may not always love you”
"Io potrei non amarti per sempre"), ma è musica che si consuma
tanto nel ventre che nella testa e sviluppa idee di rilievo e stimolanti.
E’ stato fatto notare da
più parti come la canzone sia una delle prime ad utilizzare la parola Dio nel
titolo: utilizzo né gratuito, né, tantomeno, irrispettoso, bensì perfetta
corrispondenza semantica fra parola e suono, ché tutto qui pare un’esperienza
trascendentale, un capodopera notoriamente sublime ed irripetibile che veicola messaggi esistenziali. Ascoltate la primissima sezione del pezzo, e ditemi in quale altro
luogo vi sentirete proiettati se non in un’immensa cattedrale. Tra le sue
immaginarie navate la solennità di un corno francese (un inedito assoluto in
ambito pop, se escludiamo gli estemporanei interventi di John Entwistle con gli
Who) ci trasporta in una dimensione onirica e mistica. Poi, alla fine del
sereno descrittivismo della prima sezione, a Brian viene l’idea di rimettere
tutto in discussione e ravvivare la partitura con nuove nuances,
discrete ma sostanziali: il riferimento è al primo dei tre break (tre bozzetti
musicali tutti risolti, si badi bene, con tre diverse soluzioni sonore e
armoniche) e alla stupenda intuizione di innestare sul ceppo del corno francese
i succhi dolci del flauto. L’avvicendamento dei flauti che concludono, in un
continuum di fluidità quasi respiratoria, ciò che il corno aveva cominciato, è
un piccolo frammento che conferma lo stile lirico di Brian, il suo finissimo
senso timbrico, intensamente espressivo, sensibilissimo. Ma siccome è, appunto,
di Brian Wilson che stiamo parlando, altre sottigliezze ci attendono durante i
tre minuti scarsi del brano. Sicuramente un altro gustosissimo unicum è il
rimarchevole telaio ritmico che sostiene la canzone, dove piano e clavicembalo
vengono sostenuti da schioccanti percussioni che gli anglosassoni, con
felicissima onomatopea, definiscono clickety-clacking e poi
l’entrata in scena dei due bassi pulsanti di Lyle Ritz, ma soprattutto di Carol
Kaye (turnista tra le più prolifiche in America, avendo suonato in circa
diecimila sessioni di registrazione, stimate, in oltre cinquant'anni di
carriera) che arrecano un sofisticato apporto ritmico di
superba naturalezza, innervando di pulsanti turgori le linee portanti della
partitura che vengono ispessite e aumentate di profondità, come molte altre
volte avviene in diversi altri momenti di Pet Sounds. E’ a questo punto che, “I may not always
love you”, sale al proscenio la voce di Carl Wilson, ineguagliabile
arcangelo cantatore che riesce a volare
con le sue ali anche ad eccelse altezze. Con il
suo lirismo ed il suo carezzare parole e versi, la sua capacità di commuovere viene qui prodigamente esemplificata e il più giovane dei Wilson si rivela
perfettamente à son aise in un mood da pop sinfonico, quando di pop
sinfonico ancora nessuno aveva sentito parlare. Ma le nuances
sofisticate continuano a svilupparsi una dopo l’altra senza soluzione di
continuità, facendo di questo autentico gioiello di canzone il susseguirsi di tutta
una varietà di situazioni e di soluzioni che affascinao e rapiscono. Finisce il primo intervento vocale e di seguito, dopo
un secondo break sulle note gravi del piano, tutto riprende con un diverso
succoso impasto timbrico, complice un hammond, discreto ma fondamentale, il cui
soave fondale aggiunge lirismo a lirismo. E’ a questo punto che il brano, con
un ultimo spettacolare balzo, si invola verso lo zenith: spento l’angelico
canto di Carl, emerge un terzo, più elaborato break, magistralmente risolto in
un secco e pulsante obbligato dove i flauti procedono con mano salda
nell’esposizione dell’intervallo all’unisono con le tastiere. Ma è ciò che
segue immediatamente dopo ad essere la rappresentazione “scenica” perfetta e
geniale in cui Brian ha ulteriore modo di confermarsi quale il raffinato
alchimista sonoro che è: da questo punto, infatti, chiunque avrebbe risolto la
cosa incastonando lì, nel bel mezzo della canzone, un assolo e nessuno avrebbe
avuto nulla a che dire. Già, un assolo, ma di quale strumento? Non certo di
chitarra, visto che Pet Sounds è l’album a più basso tasso di chitarre
ascoltato fino a quel momento in ambito pop. Brian aveva a disposizione
un’intera orchestra: escludendo i tecnici ed i Beach Boys stessi, più di
sessanta musicisti erano transitati nello studio per partecipare alle
registrazioni, eppure l’uomo era in ambasce. Del resto non avrebbe mai permesso
a se stesso di mettersi in coda all’ovvietà, lui voleva davvero mostrare di
appartenere ad un’altra dimensione musicale. E’ così che il genio ci sorprende
e incanta una volta di più per la sua immensa intelligenza musicale, estraendo
dal profondo del suo universo poetico una stupenda innodia a tre voci,
costruita con un senso architettomico profondissimo, che si libra spiccando
altissimi voli. Pare una serenata alle stelle: con essa Brian vuole sviscerare
le potenzialità del terzetto vocale costituito, oltre che da se stesso, da Carl
e Bruce Johnston, facendo entrare l’ascoltatore in sintonia con un mondo
fantastico ed evocativo, di grande portata emozionale, con l’intreccio
alternato delle voci dei tre che si rincorrono angeliche per poi trasfigurarsi
in gioiosa fanfara che sale al cielo come una preghiera.
Giunta ben oltre la metà del proprio percorso, alla
canzone manca giusto una strofa ed un degno finale per essere completata. Se ci
fate caso, non sono poche le canzoni pop che in questo frangente vedono la
comoda e rassicurante ripetizione della strofa. Questo consolidato modus
operandi, manco a dirlo, non vale per Brian Wilson: lui, melodico e perfezionista oltre ogni limite, oltre a sprizzare
scintille di magistrale e felice creatività, è anche un convinto fautore del
concetto che potremmo riassumere in “asimmetrico è bello”. Così, nel finale, il genio sferra un’ultima zampata,
esplicitandosi una volta di più attraverso una diversa gamma di colori e
dinamiche. E allora sì alla riproposizione della strofa, ma in una geometria
ulteriormente raffinata, che la vede
contrappuntata da improvvisi (e molto pertinenti) grappoli di flauto che
emanano fascino e bagliori di bellezza, dando sempre l’impressione di un’ancor
maggiore riserva di invenzioni nascosta, e pronta ad essere usata. Cosa che puntualmente avviene, ma siamo
veramente allo sfumare della canzone, con la riesposizione del tema cui si
allaccia un'altro magnifico intervento vocale (molto diverso dal precedente. Era il
caso di precisarlo?) che è l’ennesimo momento estatico dove le voci sono
circondate da un alone onirico, misterioso, ritualistico. Il nostro ha dato
ancora una volta vita a quelle idee nate in laboratorio, lunghe lingue
spiraliformi fatte volteggiare aeree sotto il soffitto della vostra stanza.
Provare per credere. La song termina così e, arrivati a fine corsa, ciò che
resta è un silenzio assordante e quasi assoluto: l’unico rumore che potrete avvertire è
quello del vostro cuore che batte all’impazzata e se condividete la diffusa
opinione che Brian Wilson sia davvero uno dei musicisti numeri uno degli anni
sessanta, quest’incantevole canzone pare fatta apposta per rafforzare l’idea. “ Non avevo mai sentito
delle note così magiche, e così magnificamente registrate. È un album
bellissimo e senza tempo, pieno di incredibile bellezza e genio.” Sembra chiosare Elton John
accodandosi alle sperticate lodi rivolte dal resto del mondo all’indirizzo del
nostro.
Ma
il dopo Pet Sounds di Brian Wilson non sarà un periodo facile. Sarà
bensì un tristissimo discendere i gradini dell’esistenza fin quasi alle soglie
della tragedia. Le leggende sugli anni oscuri della vita di quest’uomo
regredito all’età unfantile rivaleggiano con quelle che circondarono Syd
Barrett (quando il primo leader dei Pink Floyd andò fuori di testa i compagni
cercarono di conservarselo come autore dichiarando: “Poteva diventare il
nostro Brian Wilson”). Indossava ogni giorno lo stesso accappatoio azzurro,
mangiava senza sosta (dolciumi soprattutto), ingrassò fino a 154 chili, si
lavava di rado, si fece crescere barba e capelli a dismisura, fumava anche
cento sigarette al giorno, abusava di pillole e di alcol.
Il
4 giugno 1973 il cuore di Murry Wilson smette di battere all’improvviso: pochi
giorni dopo la morte del padre, Brian Douglas Wilson, trent’un anni, coniugato,
padre di due bambine, varca la la soglia della sua camera nella bella casa di
Bellagio Road, Bel Air. Si sdraia sull’enorme letto e non si alza più. Le
piccole Carny e Wendy si ricordano soprattutto di una canzone che risuona,
ossessivamente, per le stanze della casa. Brian ha un vecchio 45 giri di Be
My Baby, successo di Phil Spector con le Ronettes. Lo suona tutto il
giorno, per giorni, settimane, anni. Ce ne vogliono tre per convincere
quell’uomo a lasciare il suo rifugio. Ma per parecchi anni ancora Brian
funzionerà ad intermittenza. Verrà rimesso in piedi da uno psichiatra assoldato
da sua moglie, tale Eugene Landy. Si rivelerà un aguzzino che, prima di essere
messo al bando dalla famiglia Wilson per gli esorbitanti onorari, manipolerà
con micidiali misture di farmaci e droghe psicotrope la personalità di Brian.
Quanto
ai Beach Boys, all’infuori di un vacuo ritorno di fiamma nel 1988 (dato dal
successo in classifica del singolo Kokomo, estratto dalla colonna sonora
del film Cocktail che vedeva Tom Cruise come interprete principale), la pubblicazione degli incerti Still Cruisin’ (1989) e Summer
In Paradise (1992), il decesso
per annegamento di Dennis (1983), quello per cancro di Carl (1998) e le
successive liti per continuare ad impugnare il nome del gruppo tra Al Jardine e
Mike Love (risoltesi in tribunale a favore di quast’ultimo) sono gli unici temi
ed eventi per i quali la band ha continuato a destare l’attenzione dei
rotocalchi musicali internazionali.
Non
poteva finire così, però. Sarebbe stato profondamente ingiusto e immensamente
triste. Così, nel 1997 viene inaspettatamente pubblicato The Pet Sounds
Sessions, sontuoso quadruplo cofanetto, maniacale, esaustivo che di più non
si poterebbe, sogno proibito di ogni Beach Boys fan all’insegna del tutto
quello che avresti voluto sapere ma non hai mai osato chiedere, dedicato al
capolavoro Wilsoniano, mentre dal 1998, riguadagnato con l’aiuto della seconda
moglie Melinda uno uno stato psico fisico accettabile, Brian Wilson è riapparso
in pubblico per tenere concerti e rimettersi a lavorare a nuovi progetti
discografici (precedenti avvistamenti si ebbero, peraltro, nel 1988 con il suo
primo album solista, nel 1995 con la sua proficua collaborazione all’album Orange
Crate Art di Van Dyke Parks e con I Just Wasn’t Made For These Times colonna sonora dell'omonimo
documentario sulla vita di Wilson diretto da Don
Was nello stesso periodo e
successivamente con la realizzazione del quasi fallimentare Imagination,
album solista apparso nel 1998). Ma è l’avvento del terzo millenio a
rappresentare addirittura un apoteosi per Brian: nel 2004 pubblica il
fantomatico e favoleggiato Smile (uscita prevista… ehm, 1967) che
l’autore stesso aveva definito teenage symphony to God, nel 2011 bissa aprendo ancor di più il vaso di Pandora degli archivi
dando alle stampe il monumentale The Smile Sessions (5 CD’s, 2 LP’s e 2
sette pollici), surclassando in maniacale completezza il già notevolmente
ponderoso The Pet Sounds Sessions. Nel mezzo ci sta
pure una carriera solista che a tutt’oggi è forte di ulteriori sei album, mentre nel 2012, in occasione del cinquantesimo anniversario, al
pantagruelico banchetto in musica viene pure servito That’s Why God Made The
Radio, ventinovesimo album di studio dei Beach Boys. Il tutto condito da
una sorta di endless tour in giro per l’orbe terracqueo che come l’endless
summer, l’estate senza fine da sempre connessa al nome Beach Boys, continua
tutt’ora e che il 26 luglio di quell’impensabile 2012 ebbe modo di portare due
soldi di felicità anche al nostro tormentato paese.
Siamo così strafelici di apprendere nel migliore dei
modi che il genio di Brian Wilson sia oggi sopravvissuto alle drammatiche
circostanze che erano sul punto di annientarlo, e comunque il fatto che il
nostro si provi a rimetterlo in gioco è già di per sé un avvenimento che fa
bene al cuore. Good morning Mr. Wilson!
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