lunedì 26 agosto 2019

All Eyez On Me - 2Pac (1996)




Doveva succedere. E infatti è puntualmente successo. Fortissima è la sensazione che prima o poi a 2Pac sarebbe accaduto ciò che ai più appariva inevitabile accadesse. Praticamente un predestinato. Troppi infatti i segnali che avevano preceduto quella che era subito apparsa come una tragedia annunciata: la nascita ad Harlem e l'infanzia e l'adolescenza trascorse a Brooklyn, non esattamente i quartieri più tranquilli ed esclusivi della Grande Mela; la madre attivista delle Black Panther (in particolare del famigerato gruppo estremista Panther 21), il padre totalmente assente ed il resto di una famiglia alquanto turbolenta seguace del Black Panther's Black Liberation Army, gruppo paramilitare che vaticina marxismo e nazionalismo nero. Assata Shakur, sorella del padrino che l'aveva cresciuto, conoscerà più volte le patrie galere fino all'arresto nel 1981 per aver preso parte ad uno scontro a fuoco in cui persero la vita una guardia e due poliziotti. La stessa madre di Tupac, rinchiusa nel carcere di Rikers Island per aver piazzato alcuni ordigni esplosivi in un edificio di Brooklyn, viene scarcerata un mese prima di metterlo al mondo. Spesso e (mal)volentieri madre e figlio saranno costretti a cercare ospitalità tra lo squallore e la puzza di urina dei ricoveri per senza tetto, dove verranno fatti oggetto delle "premure" e "gentilezze" di spacciatori, stupratori, tossici, fratelli cazzuti dei ghetti di Brooklyn e varia umanità out of border. Nel 1988, con la famiglia si trasferisce in California, a Marin City, "ridente" sobborgo di San Francisco pullulante di criminalità organizzata, dove comincia a spacciare droga e ad essere avviato lui stesso all'assunzione di ogni tipo di sostanza stupefacente. Se nei dintorni c'è qualcuno di poco raccomandabile e da cui tenersi prudentemente alla larga, potete stare certi che lui è lì a stringere fraterne amicizie e pericolose alleanze. Piuttosto è veramente incredibile come riesca a fare abilmente slalom tra gli articoli del codice e mantenere la fedina penale miracolosamente pulita. Nemmeno dopo aver raggiunto fama, successo e denaro, però, i problemi con la legge e con il mal di vivere smetteranno di inseguirlo e tormentarlo: nell'ottobre 1991 manda a farsi fottere due poliziotti che l'hanno fermato per una banale infrazione al codice della strada, i quali per tutta risposta lo massacrano di botte. Lui non ci sta e fa causa al Dipartimento di Polizia Federale di Oakland. Vince, ma in luogo dei 10 milioni richiesti, il risarcimento che ottiene è di soli 42mila dollari. Epilogo più che sufficiente a far sì che l'odio e la disillusione verso il sistema WASP americano aumentino. Nel 1992, durante un festival musicale all'aperto ed in circostanze mai completamente chiarite, dalla pistola di Tupac, che sta cercando di dividere i due contendenti di una furiosa rissa scoppiata davanti al palco, viene accidentalmente sparato un colpo che uccide all'istante un bambino di 6 anni che ha il solo torto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Assolto per insufficienza di prove. Nell'ottobre del 1993, ad Atlanta, il nostro imbottisce di piombo le gambe ed il deretano di due poliziotti fuori servizio che stanno importunando un automobilista di colore sul ciglio di una strada. Riesce a dimostrare che i due erano sotto l'effetto di cocaina e marijuana, nonché ubriachi ed in possesso di armi illegali. Le accuse vengono ritirate. Nel novembre del 1993 viene accusato di violenza sessuale. L'ultima seduta del processo si svolgerà del 1995 e lo vedrà condannato a guardare per qualche mese il sole a scacchi. La cosa incredibile è che nonostante sia dietro le sbarre il nostro troverà energia ed ispirazione per preparare Me Against The World, terzo album dal titolo che è tutto un programma. E' un disco potente e imprescindibile in cui uguaglianza e orgoglio si smarriscono nel buco nero del disagio esistenziale. In esso 2Pac ci fa partecipi delle sue angosce e dei suoi incubi,  soffiando vita nel disco della maturità e della consapevolezza attraverso il quale l'artista cerca risposte nuove come musicista ed il proprio riscatto come uomo. L'ultimo episodio cruento risale al novembre 1994, quando a New York gli sparano cinque colpi di pistola in una presunta rapina. Si salva per miracolo, ma sembra il prologo di quanto accadrà nemmeno due anni dopo. A tre ore dall'intervento che lo rimette in sesto e contro il parere del medico, lascia il Bellevue Hospital ed il mattino seguente presenzia su una sedia a rotelle al processo che lo condanna per l'aggressione sessuale del novembre 1993. Nemmeno un addetto alle pulizie dei tribunali potrebbe vantare, come lui, una tanto assidua frequentazione delle aule di giustizia. Su molte di queste vicende aleggia la feroce rivalità e la tensione continua fra i rappers delle due coste (senza mezzi termini una vera e propria faida) ed il consumo di stupefacenti che non conosce momenti di flessione. Ma la mano nera che ghermisce l'esistenza di Tupac Shakur, in arte 2Pac e all'anagrafe Lesane Parish Crook, non è la sua stessa mano che stringe una siringa nell'atto di farsi un buco in vena, come il suo stile di vita sempre ad un passo dal limite e l'iconografia dell'artista maledetto vorrebbero, ma è la mano del suo assassino che alle 23:15 del 7 settembre 1996, a Las Vegas, all'incrocio tra East Flamingo Road e Koval Lane, impugnando una Glock calibro 22 di buchi gliene fa 4: due al petto, uno alla coscia e uno al braccio. L'esecuzione in perfetto stile mafioso avviene dopo che Shakur aveva assistito all'incontro di boxe tra Mike Tyson e Bruce Seldon. Fa un gran caldo quella sera a Las Vegas. Un caldo torrido. Per questo Tupac decide di non indossare il giubbotto antiproiettile che di solito lo protegge. Un'imprudenza che gli deriva anche dalla consapevolezza che in centro la polizia di Las Vegas è estremamente attenta e onnipresente, allo scopo non turbare il soggiorno dei milioni di turisti che ogni anno tentano la fortuna ai tavoli verdi della città. Mai scelta si rivelerà più sbagliata. A nulla servirà la corsa disperata all'ospedale; Tupac muore per emorragia interna dopo 6 giorni di agonia. Le ultime parole che rivolge al poliziotto che lo assiste nei suoi ultimi momenti e che gli chiede se abbia visto chi gli ha sparato, sono "Vaffanculo". Fedele fino all'ultimo al codice non scritto dell'omertà tra le gang di strada. Moriva così 2Pac, uno dei più grandi e influenti rapper di sempre. Uno che si è sempre sentito investito di una missione alta: essere il testimone della faccia scura e tragica del rap. Con la sua morte anche l'hip-hop ha finalmente avuto il suo Jim Morrison. Anche i B-boys hanno avuto il loro Cristo effigiato su di un santino insanguinato da piangere e adorare. Dolore e rabbia tanto più acuti se consideriamo che 2Pac se ne va all'apice del suo fulgore artistico e commerciale. Se infatti non fossero bastati il clamore e le lodi sperticate suscitate dal disco preparato in cattività, sette mesi prima della morte l'artista pubblica quello che sarà il suo testamento artistico. Ed è uno shot che lascia senza parole. Non era facile ripetersi dopo un disco come Me Against The World, ma Tupac risponde nel solo modo che compete ad un vero artista, pubblicando il monumentale All Eyez On Me"Tutti gli occhi erano puntati su di lui" (è il caso di dirlo) e lui non si sottrae chiamando vecchi e nuovi amici (Dr. Dre, Snoop Dogg, George Clinton) per realizzare un'opera sincretica e sfaccettata ma pervasa da un costante spleen: quello di una tensione disequilibrata tra una realtà dura e spietata ed il suo sogno magnetico ed irresistibile. Non pago di tutto questo estrae dal cilindro il singolo più venduto di tutti i tempi in campo hip-hop: quel California Love in coppia con Dr. Dre, costruito adattando, rivedendo e manipolando struttura e melodia e adagiando il tutto su di un magistrale campionamento di Woman To Woman di Joe Cocker. Piccole tentazioni pop crescono. Già, perché proprio questo è California Love, un arabesco su ritmo cadenzato che convince e seduce anche chi non ama l'hip-hop. E se è vero, come è vero, che questa è una canzone che si guadagna il Paradiso, al vostro scriba piace immaginare Tupac ed il vecchio Joe seduti su una nuvoletta, impegnati a far muovere il culo ad un esercito di angioletti.


 

Mauro Rollin' On The River Uliana

The Stone Roses - Stone Roses (1989)



Per molti il ​​nome Stone Roses rimanda a guerre all'arma bianca con le case discografiche (sia la  FM Revolver, prima label del gruppo, che soprattutto la Silvertoneseconda etichetta ad assicurarsi i loro servigi, hanno causato più di qualche mal di fegato ai ragazzi), ad un contratto capestro firmato incautamente (appunto) e soprattutto allo psicodramma di una traversata del deserto durata cinque anni senza che la band riuscisse a pubblicare il secondo, agognato disco. Per gli gnomi tignosi della Silvertone fu questo il tempo necessario per liberare la banda mancuniana e farla finalmente approdare tra le munifiche braccia della Geffen. Cinque anni esiziali trascorsi tra la pubblicazione di un debutto adulto che aveva messo il mondo sull'attenti e quella di un secondo album spasmodicamente atteso ma che una volta raggiunti i negozi avrebbe deluso i più. A noi, refrattari a business e burocrazia, piace invece associare il nome Stone Roses esclusivamente a quel primo album straordinario che è uno dei più influenti quadri da appendere al muro della storia del rock, un disco connesso alla "seconda summer of love", che darà, tra l'altro, la stura a tutto l'affaire Madchester, la temperie creativa di fine anni '80, nota anche come baggy,  che a Manchester avrebbe demolito e superato gli steccati tra indie rock, psichedelia, acid house, dance, funk e hip-hop. Quel che si dice un disco seminale, avrete inteso, che tra le altre cose è anche il primo a portare le stimmate di quello che nel decennio successivo si chiamerà brit pop. Che The Stone Roses meriti il primo posto sul podio delle uscite del 1989 è dunque quasi banale affermarlo. Tra i suoi solchi si intrecciano gli strumenti alla maniera dei gruppi più grandi del rock, si intonano canzoni per gli angeli con la poesia dei grandi, si catturano note perdute grazie a 4 musicisti che a buon diritto possono essere considerati tra i migliori della loro generazione. Guardando per esempio ai due della sezione ritmica, autentico cuore pulsante della band, non ci troviamo di certo al cospetto di un bassista e di un batterista facilmente reperibili ad ogni angolo di strada, bensì di un fantastico duo oggi considerato leggendario dai più. Gary "Mani" Mounfield, un Mr. Bassman un pò Paul McCartney un pò Jack Casady (Jefferson Airplane e Hot Tuna), entra in formazione nel 1987 in sostituzione di Pete Garner, dopo che la band aveva inciso i suoi primi due singoli. Il primo, del 1985, era So Young, frutto acerbo (ma in fondo nemmeno troppo) in cui la band fa ogni sforzo per esplorare i sentieri di un punk più "riflessivo", accompagnato sul retro da Tell Me, efficace schizzo psycho wave oriented dal vitale impatto fisico; il secondo risale al maggio del 1987 e si chiama Sally Cinnamon, gioiellino guitar pop tra Byrds e garage rock. Sul retro l'arrembante e ritmata Here It Comes e All Across The Sand, dove la fisicità si attenua appena un po' per lasciare spazio ad atmosfere più riflessive. Un po' più antica e risalente al momento in cui il gruppo aveva assunto la denominazione definitiva, la militanza negli Stone Roses di Alan "Reni" Wren, implacabile time keeper e fantasioso cesellatore di passaggi dalle pulsazioni mirabilmente scandite che ogni band vorrebbe in formazione. Il suo è un apporto fondamentale ed entusiasmante, al punto da poter asserire senza tema di smentita che il giovanotto può già misurarsi alla pari con le migliori "bacchette" del rock. Non meno fondamentali gli altri due membri della formazione, non foss'altro che per il fatto che ne sono i fondatori e gli autori di quasi tutti i brani. Ian Brown, cantante dalla voce adenoidale e dallo stile indolente, oltre ad essere un tipino con un caratteraccio spocchioso e strafottente, è anche titolare di una nutrita carriera solista in cui sciorinerà in ogni possibile declinazione le proprie influenze black e sarà una riconosciuta influenza per più di una generazione di vocalist britannici; John Squire, pittore per vocazione e chitarrista di professione (nonché titolare di un paio di interessanti album solisti), è un Jackson Pollock della 6 corde (confrontate i quadri del pittore americano con le copertine dei dischi della band ad opera del chitarrista e l'analogia vi si disvelerà in tutta la sua evidenza) la cui tavolozza sonora è imbrattata tanto dei giallorossi hendrixiani quanto dei verdiblu di David Gilmour. Facile sarà dunque descrivere il chitarrista alla stregua del viaggiatore di un  overdrive interstellare che parte dal mitico delta nell'emisfero sud di Saturno, fa tappa sul lato oscuro della Luna e atterra in fine in quel d'Albione, dove viene inghiottito dai club di Madchester. Un manipolo di musicanti, insomma, dal talento puro e cristallino: fatto, questo, indiscutibile. Raggiunta così la stabilità della line up e soprattutto un seguito di culto che cominciava a farsi alquanto radicato, i nostri si ritrovano nell'ottobre del 1998 ancora in sala di registrazione con Peter Hook, ex Joy Division e New Order, alla consolle. Ne usciranno con Elephant Stone,  loro terzo singolo contenente tre nuove, straordinarie canzoni. La prima è la title track, una squassante e pugnace istantanea dall'impatto semplicemente devastante: il lavoro di Reni alla batteria, autentico uomo faro dalla labirintica vena creativa, è qualcosa di sovrannaturale, mentre riguardo l'imbarazzante valentia del resto della band mi sento solo di dire che se i Byrds fossero nati 20 anni dopo avrebbero suonato sicuramente come gli Stone Roses (e non è un apprezzamento da poco, credetemi). Full Fanthom Five  è Elephant Stone suonata al contrario. Ciò che esce dall'artificio è pura psichedelia di stampo hendrixiano che si fregia di un cromatismo multiplo che vaga con la fantasia più sfrenata e si gonfia al suono di un'incomparabile fusione di voci e chitarre. Mentre The Hardest Thing In The World  è un'altra pagina densa di memorie antiche sfogliate dal diario di Roger McGuinn ove il tintinnio delle chitarre esplora gli umori epici già scandagliati in dischi come Younger Than Yesterday Notorious Byrd Brothers. Album epocale, già lo si è detto, lo storico debutto degli Stone Roses rivela lo spaventoso gusto espressionista della band. Tristemente straniante che con questa pagina magica il gruppo di Manchester firmi in contemporanea il proprio capolavoro ed il proprio epitaffio.  



Esordire con un disco che vende più di 4 milioni di copie in tutto il mondo non è certo impresa riservata a tutti. Gli Stone Roses ci sono riusciti, ma il prezzo che hanno pagato è stato altissimo. Ad ogni modo la conquista delle vette delle classifiche non è avvenuta così, d'amblé (usando un linguaggio più schietto diremmo "di pacca"), ma è stata la conseguenza di un meticoloso lavoro di avvicinamento fatto di una capillare, incessante attività live perfettamente funzionale alla circolazione del nome del gruppo. Ma una presenza, per quanto indefessa, sui palchi di mezza Inghilterra non è sufficiente a spiegare il successo dell'album. Quanti sono, infatti, i gruppi che si "sbattono" sui palchi di mezzo mondo senza riuscire a raccogliere nemmeno una frazione infinitesimale delle soddisfazioni commerciali raccolte dagli Stone Roses. E 'evidente che c'era qualcosa di più. Diciamo che la musica del gruppo era arrivata al momento giusto. Al momento giusto ma anche nel posto giusto: un posto chiamato Hacienda, tempio della cultura rave fondato da Bernard Manning (attore comico perennemente in attesa di realizzare il magnifico miraggio di diventare re per un giorno), Tom Wilson (signore e padrone della Factory Records) e Rob Gretton (manager dei New Order). I tre trasformeranno quello che era sempre stato un anonimo club di R&B sconsolatamente demodé nel modaiolo ed eccitante dancefloor dove si sarebbe consumata la scandalosa copula tra l'house music americana proveniente da Chicago, New York e Detroit ed il rinascimento di un jingle-jangle sound che guardava all'arcadia sonora degli anni '60: Byrds innazitutto, ma anche Buffalo Springfield, Jefferson Airplane, i Love di Arthur Lee, Mamas & Papas, Moby Grape e i Beach Boys post surf per quanto riguarda l'America, mentre le influenze inglesi venivano da Beatles, Kinks, certi Yardbirds e segnatamente quelli di Little Games con Jimmy Page alla chitarra solista e dal Donovan prodotto da Mickey Most, quello meno troubadour e più starsailor. E 'lì, in quell'ambiente edonista e artificiale, tra le luci stroboscopiche, le  mirror balls e le tonnellate di pasticche di extasy dell'Hacienda (1) (ma anche di club come lo Shoom, lo Slam, il Trip, il Future) che la musica degli Stone Roses diventa presenza fissa ed irrinunciabile sui giradischi dei DJ's più di tendenza, assieme a quella di Happy Mondays, 808 State, Alien Sex Fiend (questi primi tre i più danzerecci dell'allegra brigata), Jesus And Mary Chains, Echo And The Bunnymen, Spacemen 3, My Bloody Valentine e, ovviamente, degli eroi locali come Smiths e New Order. E' questa in estrema sintesi la colonna sonora della Second Summer Of Love, semanticamente ispirata alla Summer Of Love del 1967 a San Francisco, col cui edonismo e libertà veniva tracciato più di un parallelismo. Ma il quadro non sarebbe completo se a quanto fin qui enunciato non aggiungessimo un ulteriore elemento chiarificatore. Va detto, infatti, che l'Inghilterra era pronta per un disco come The Stone Roses  (e per la manciata di singoli che gli avevano fatto da apripista, va da sè), con il suo recupero di atmosfere musicali pregresse, la sua riscoperta di un afflato melodico che si esplicita attraverso un saccheggio affettuoso di arpeggi mesmerici ed un effluvio di cori emozionali. Tutti gli ingredienti che confluiscono in una miscela sonora che assume movenze dionisiache e misticheggianti e che si muove su un terreno già dissodato agli inizi degli anni '80 da gruppi soliti interrogare la musa del sentimento quali Housemartins, Microdisney, Prefab Sprout, gli australiani Church, Triffids e Died Pretty, gli americani Feelies più tutta la fantastica compagine del cosiddetto paisley underground (R.E.M. compresi), cui vanno doverosamente aggiunti gli ambasciatori del suono Postcard come Orange Juice, Aztec Camera, Josef K. e Go-Betweens (australiani pure loro). Tutti gruppi, questi, che risolvevano in ascesi stilistica il loro amorevole approccio alla psichedelia, il cui costrutto sonoro era in completa comunione con il salmodiare di ricche armonie vocali e con l'interplay tra queste e la chitarra. E' con questo bagaglio di premesse che gli Stone Roses entrano ai Battery Studios di Londra nel giugno 1988 per rimanerci (salvo alcune sessions complementari ai Konk e Rockfield Studios) fino a febbraio 1989. Lì dentro i quattro danno vita ad un album di trasognata spensieratezza che New Musical Express si affretterà ad incoronare come il miglior album britannico di tutti i tempi (audaci!!!!).  A smussare gli angoli o ad appuntirli a seconda delle necessità, la mano esperta del produttore John Leckie, già demiurgo di altri gruppi  new wave di quegli anni: tra coloro che hanno usufruito dei suoi servigi, Magazine, XTC, Be-Bop Deluxe, Adverts, Simple Minds, Human League, Public Image Ltd., preceduti da una lunga collaborazione come ingegnere del suono per alcuni dei più quotati mostri sacri degli anni '70 come George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Syd Barrett, Pink Floyd, Roy Harper, Soft Machine e Mott The Hoople. Appena completate le registrazioni e con l'album non ancora nei negozi, i quattro, ansiosi di collaudare le canzoni di The Stone Roses su di un palco, si esibiscono all'Hacienda davanti ad un pubblico adorante (esaudendo così il desiderio di Ian Brown espresso nella famosa canzone). Sull'onda di quell'esibizione, il giorno dopo la stampa albionica subito si precipita nell'inserire l'avvenimento nella categoria dei mitici e degli imperdibili. Sentite cosa scriveva all'epoca Andrew Collins su New Musical Express: "Sto già scrivendo una lettera ai miei nipoti dicendo loro che ho visto gli Stone Roses all'Hacienda!". Si sa, i giornalisti fanno il loro mestiere e anche se nel caso in esame chi scrive non c'era, tendo a tenermi a debita distanza dalle loro fascinazioni. Ciò non toglie comunque che quello sia stato indubbiamente un concerto di alto profilo che ha contribuito a rendere gli Stone Roses un nome caldo, anzi bollente, del pop-rock britannico. Ma andiamo finalmente al fatidico 2 maggio 1989, quando un disco con un disegno di copertina à la Jackson Pollock, dove fanno bella mostra di sè tre fette di limone e tre strisce tricolori bianco, rosso e blu  (la bandiera francese) sovrapposte ai criptici cromatismi pollockiani, viene distribuito in tutti i negozi del reame di Rockonia. E dato che la copertina è la cosa con cui si entra preliminarmente in contatto quando ci si approccia ad un disco, è interessante sentire come l'autore John Squire ci introduce a quella che spiega come una sottile trasposizione visiva dei moti del maggio francese del 1968 intitolata Bye Bye Badman, come la canzone riferita al medesimo tema, e che la rivista Q valuta come una delle 100 migliori copertine di tutti i tempi: "Ian (Brown) aveva incontrato questo francese quando faceva l'autostop in giro per l'Europa, questo tizio era stato nei disordini e ha detto a Ian come i limoni erano stati usati come antidoto ai gas lacrimogeni". Va detto che, copertina a parte, The Stone Roses ricevette all'inizio consensi contrastanti tanto dalla critica (a parte Melody Maker che lo definì "divino" e  NME ) quanto dal pubblico. Particolarmente mal disposto l'americano Robert Christgau (una delle penne di punta del Village Voice) che dopo aver definito il disco overhyped  (modaiolo e "pompato" oltremisura) si chiede caustico: "Cosa fanno gli Stone Roses che i Byrds ed i Buffalo Springfield non stessero facendo meglio già nel 1967?". La tracotante risposta dei Roses arriverà a stretto giro di posta affidata alle parole di un Ian Brown più megalomane che mai, che nel 1990, al momento di annullare il tour americano a pochi giorni dalla partenza dichiarerà: "L'America non è ancora pronta per una band grande come la nostra". Nel giro di pochi mesi si ricrederanno comunque tutti e torneranno a Canossa convertiti al culto degli Stone Roses. Ma se questi erano i presupposti visivi e culturali, nonché gli umori circolanti, vuoi finalmente dirci dannato scribacchino come cazzo suona 'sto benedetto disco? Presto fatto: suona molto meno danzereccio (quasi per nulla, anzi) dei lavori di altre band del movimento baggy, come Happy Mondays, 808 State, A Guy Called Gerald, ma a parte questo suona benissimo. Non tanto e non solo perché il lavoro di John Leckie in sala è impeccabile, ma perché è proprio impianto generale che convince: registrazione cristallina (e vorrei vedere che nel 1989 non lo fosse...) con i suoni che escono dalle casse come esseri animati, grandezza del gesto strumentale a costruire un'architettura sonora di rara bellezza e perfezione, vena felice delle composizioni e regia perfetta ad inanellare una scaletta magistralmente congeniata che possiede la stessa magia dei lavori prodotti a Pepperland. Prendete l'apripista, quella I Wanna Be Adored che per gli Stone Roses è diventata una sorta di biglietto da visita: "Chi? Gli Stone Roses? Ah già, quelli di I Wanna Be Adored". Dove poteva essere piazzata se non in apertura dell'album? Ipnotica e minimalista sia nella musica che nel testo, il suo destino è quello da farsi ricordare. Come I Am The Resurrection del resto, una sorta di contraltare con trame strumentali sciamaniche, calorose e stregonesche, posta strategicamente, e non a caso, in chiusura. Entrambe emblematiche dell'atmosfera che si respirava a Madchester  nei tardi anni '80,  sono un vero e proprio manifesto del fenomeno  baggy.  Anche perché, diciamolo, chi se non un narcisista ed edonista sfrenato, uno che vede nel culto (da parte degli altri) di sè lo scopo principale della propria vita, potrebbe mai cantare  "Io sono la resurrezione" o addirittura "Voglio essere adorato" per quasi 5 minuti? Non meno intrigante il resto del programma che conta altri 9 pezzi (10 se consideriamo la versione full length di Fool's Gold , che arricchirà la versione americana dell'album uscita a novembre 1989), tutti in grado, nessuno escluso, di diventare inni della liturgia rock. Intrigante e sorprendente: pensate che ad un certo punto parte inaspettatamente una brevissima (meno di un minuto, poco più un intermezzo) Elizabeth My Dear, che altro non è che una versione scarnificata del classico  Scarborough Fair di Simon And Garfunkel, dall'immenso Parsley , Sage, Rosemary And Tyme, album folk-rock tra i più grandi di sempre targato 1966. C'è di che strabuzzare gli occhi! Altrettanto sorprendente e forse anche di più la provocatoria meraviglia dei nastri mandati al contrario che sono stati utilizzati nel gioco di specchi dell'accoppiata Waterfall e Don't Stop. Se infatti la prima è uno degli inni più amati della band, con le sue suggestioni bifronti che rimandano tanto ai Byrds quanto ai Beatles di Paperback Writer, la seconda è, senza tanti giri di parole, la prima mandata in reverse con Ian Brown che gli canta sopra un'armonia vocale inventata ex novo. Un giochetto, quello del nastro fatto girare in reverse, che tanto aveva già divertito proprio i Fab Four, che nobilitarono la pratica facendone uso proficuo in due capisaldi del loro canzoniere come Rain e Strawberry Fields Forever. La ricetta è interessante ma la band non ama certo far capire come funziona il gioco. E allora ecco lo stratagemma dei contrasti, regola aurea per non annoiare gli ascoltatori (soprattutto i più distratti). I produttori bravi queste cose le sanno benissimo. E 'per questo che John Leckie all'andamento solenne della già citata I Wanna Be Adored contrappone immediatamente la movimentata e frizzantina She Bangs The Drum, cui da carattere e identità l'incipit contagioso di batteria e basso suonati da una sezione ritmica da urlo. Del resto, vi avevo avvertiti che la cura messa nella sequenza delle canzoni è uno dei motivi di fascino dell'album. Lo dimostra plasticamente il trittico centrale, dove alle serene atmosfere folksy di Elizabeth My Dear fanno seguito gli accordi aperti dell'inno (Song For My) Sugar Spun Sister ed il riff jingle-jangle del gioiellino Made Of Stone, astuta (ma forse inconsapevole) copula tra la linea cantata di Paint It Black  degli Stones e quella di Richard Cory di Simon & Garfunkel (ancora loro!). Ma tutto l'album è un gioco di rimandi e vecchie suggestioni che si susseguono incastrandosi gli uni nelle altre quasi senza soluzione di continuità. Che volete farci? Gli Stone Roses sono fatti così: prendere o lasciare! La loro regola è ascoltare, introiettare, digerire e risputare aggiornando il tutto. Con The Stone Roses loro ascoltano, introiettano, digeriscono e via con malinconiche melopee come Bye Bye Badman, elegante song intimista che pare un outtake dal terzo album dei Velvet Underground; oppure con creature strane come Shoot You Down, in cui i laconici tocchi di chitarra di John Squire annegano in un liquido amniotico e uterino che non può non ricordare il Peter Green del tempo che fù; oppure ancora con l'epica This Is The One dove su un arpeggio maestoso seguito da un fendente assassino di Rickenbaker si distende una chanson de geste che sarebbe stata benissimo tanto su Revolver dei Beatles quando su Declaration degli Alarm (non ve li ricordate? Fate un gesto d'amore verso voi stessi e date il via ad un'immediata azione di recupero), ma soprattutto su uno dei dischi faro licenziati dagli Who tra la fine dei sixties ed i primi anni '70. Giunto a questo punto, dovere di completezza mi impone di darvi conto di Fools Gold, dodicesimo brano inserito in scaletta con la ristampa americana dell'album, avvenuta nel novembre 1989. Lo faccio con immenso piacere anche perché ho così modo di parlare dell'unico numero veramente dance del lotto. Basteranno pochi secondi:  groove di basso, batteria e percussioni, una chitarra funky a regolare il ritmo e quasi dieci minuti per muovere il culo. Niente di più, niente di meno. Vi pare poco? Non ditelo nemmeno per scherzo. Provatela piuttosto! Vi sembrerà di stare all'Hacienda in piena Madchestermania  e non riuscirete più a fermarvi come il pupazzetto delle pile Duracell. 


(1) La classe media e gli strati meno abbienti della popolazione avevano trovato in Madchester la terra promessa del divertimento e dello sballo. Da tutte le Midlands si riversavano così in città fiumi di persone desiderose solo di dimenticare la vita noiosa e grigia della provincia e delle periferie. E' evidente ed inevitabile che in quell'oceano di gente fossero compresi anche tossici, spacciatori e piccola e varia criminalità. Molti club divennero una sorta di supermarket fornitissimi di ogni tipo di droga diventando terreno di scontro tra le gang che cercavano di accaparrarsi i luoghi di spaccio più remunerativi. Nei rave era anche peggio: illegali e quindi fuori dal pieno controllo della polizia, furono teatro di sparatorie, pestaggi, morti per overdose e retate delle forze dell'ordine. Un carissimo prezzo pagato sull'altare del divertimento che non sembrava preoccupare nessuno. In realtà, fu uno dei momenti della storia della musica in cui le cicatrici portate da quella stagione furono più profonde e numerose. Se esiste la tempesta perfetta, ed esiste, quella di Madchester possiamo dire sia stata l'illusione perfetta. Erano gli anni di Ronald Reagan che si rivolgeva a Margareth Thatcher chiamandola Maggie, mentre insieme stavano organizzando il Nuovo Ordine Mondiale turbo-capitalista che avrebbe svecchiato l'economia; l'Unione Sovietica aveva assunto con Gorbaciov il proprio liquidatore fallimentare (e questo è un bene, intendiamoci) che sul tetto di quella villetta di Rekyavik issava la bandiera bianca della resa; cadeva di conseguenza il muro di Berlino e sulle sue macerie sarebbe stata eretta l'Europa dei burocrati di Bruxelles che ancor oggi tanto pesano sul nostro groppone. In tutto questo contesto Manchester con la sua scena baggy era paradigmatica: la città e la sua tribù che balla erano l'emblema di una nazione (e di un Occidente) che dopo il no future di  Johnny Rotten aveva ripreso la strada verso un radioso domani. Quando invece la realtà era ben diversa: sotto il primo strato di pelle sicurezza zero, disoccupazione a livelli mai visti in precedenza, idem dicasi per la criminalità giovanile. Mai le galere erano state così piene ed un "fottio" di gente perse la vita. Quando andava bene perdevano il contatto con la realtà bruciandosi il cervello a suon di pasticche. Eppure all'Hacienda ed in tutti gli altri club, da Manchester a Berlino, da Ibiza alla Costa Smeralda, ogni sera le luci sfavillavano e la musica continuava a dare la sensazione che tutto andasse bene, che il divertimento e il ballo (ma soprattutto lo sballo) sarebbero potuti continuare all'infinito. Dopo pochi anni il risveglio da quella bolla non sarebbe stato solo brusco, ma anche traumatico.                  



One By One

I Wanna Be Adored

Dire che I Wanna Be Adored è foriera di un suono al contempo regolare e lunatico significa fare agli Stone Roses ed alla loro irrequietezza stilistica il più bello dei complimenti. Quello che convince e strega, infatti, sono i due piani su cui si regge la canzone e che la band dispiega da par suo sul prato della creatività. Dilatata e atmosferica, scevra da qualsivoglia rielaborazione ossequiosa dei temi sixties tanto cari alla band, la song mette in mostra, nel primo di questi due piani umorali, un solido impianto new wave aggiornato con fierezza di tempi moderni,  ove  gli spettri di gente grande (leggi U2 e Joy Division) fanno capolino dal loro mosaico. A riprova di ciò valga  l'iniziale,  evocativa progressione di basso (pare un giro rubato proprio ai Joy Division), chitarra (soprattutto) con un insistito riff alla The Edge che chi "sa di musica" mi dice essere a scala pentatonica e infine batteria, perfetto contrappeso down to earth che Reni scandisce con gesto misurato. In parallelo i quattro sanno dare al pezzo quel sapore di serenata alle stelle e litania autunnale che in fondo I Wanna Be Adored è: a tale bisogna si adoperano la voce di Ian Brown che scivola via delicatamente malinconica a tappezzare un cuore coperto di foglie e l'eterea, sfuggente chitarra di John Squire a salmodiare in un canto più ampio, tra strana dolcezza e colorata irrealtà. Premiata sul mercato dei singoli con un 18° posto nella classifica americana (che può sembrare poca cosa, ma con i proventi derivanti da un piazzamento del genere potreste assicurare un discreto vitalizio a voi stessi e alla vostra discendenza), I Wanna Be Adored farà bella mostra di sè in più di una colonna sonora, ma soprattutto guadagnerà l'onore della citazione da parte dei fans N° 1 di Ian Brown e soci, gli Oasis, che così cantano in Magic Pie dal loro album Be Here Now del 1997: "They are sleeping while they dream, and they who wanna be adored".

She Bangs The Drums

Questa canzone è una piccola-grande ragione per inchinarsi al fervore creativo che ribolle nei visceri di questa grande band. Gli anni sessanta sono prepotentemente evocati da She Bangs The Drum con il suo gusto indicibile per l'epoca eroica di una band come i Byrds. Questo nome viene inalberato come vessillo dai quattro ragazzi di Manchester che dal loro cilindro estraggono i ritmi fitti e le chitarre attorcigliate che è eccitante e appagante ascoltare. Va da sè che in una canzone intitolata "Lei suona la batteria" sia la batteria a salire al proscenio. Se poi dietro i tamburi siede un genietto come Reni il risultato non può essere che quello che qui si ascolta. Tutto suo l'intro di charleston che senza cadere nell'esibizionismo da il là alla canzone. Gli si accoda il basso di quel grande specialista delle 4 corde che risponde al nome di Gary Mounfield, il cui congiunto lavorio magistralmente disegna e articola il progressivo snodarsi del brano. I due costruiscono così un'atmosfera su cui i rifiniti e tintinnanti accordi della chitarra di Squire e lo sciogliersi felice e disteso delle voci e dei cori si accavallano in tortuosi percorsi carichi di ottimismo. Cosi John Robb, giornalista musicale e leader dei Membranes, punk band attiva dal 1977 (nonché autore di una biografia degli Stone Roses emblemmaticamente intitolata Stone Roses and The Resurrection Of British Pop ), nelle note contenute nel booklet accluso all'edizione triplo CD allestita in occasione del trentennale dell'album: "Quando I Wanna Be Adored raggiunse l'apice, fu seguita dal pop vivace e incontaminato di She Bangs The Drums - il primo successo nella Top 40 degli Stone Roses quando fu pubblicata come singoloLa canzone, che ha catturato l'euforia dell'innamoramento ma con un retrogusto amaro, era puro guitar pop, come i Monkees suonati da intelligenti teppisti del nord. E' arrivata con quel fantastico distico che ha catturato involontariamente il passaggio generazionale - ' Baciami dove il sole non splende. Il passato era tuo ma il futuro è mio '- e, come il resto dell'album, era un imbarazzo di ricchezze melodiche ". E, se ci è concessa una chiosa, uno dei 50 più grandi inni di sempre, come ufficialmente certificato da New Musical Express.

Waterfall

Suggestioni hendrixiane nel titolo (ricordate May This Be Love contenuta in  Are You Experienced? "Waterfall, nothing can harm me at all, worries seeem so very small with my waterfall"), ma musica saldamente ancorata al vangelo secondo il Roger McGuinn targato 1965, Waterfall è un disarmante gioiello che manda in viaggio verso zone mentali e musicali che di quell'irripetibile stagione evocano la grande intensità. E 'un brano che nasce dal bisogno mettersi in gioco, di cercare la propria dimensione artistica facendo risuonare il mood di due perfetti epitomi di un'epoca sonora di importanza fondamentale come la byrdsiana Turn! Turn! Turn! e la beatlesiana Paperback Writer, shakerandole con arte sublime e restituendo il tutto in una canzone figlia del proprio tempo. I Roses ci riescono con squisito savoir faire, costruendo in quattro minuti e mezzo un kooh-i-noor con intarsi che celebrano un trionfo di chitarre Rickebacker che diventano psico-viaggi di anime in trance dai crescendo fortemente emotivi. E 'un suono liquido che mira al cervello dell'ascoltatore liberando la mente e scaldando il cuore, quello messo in mostra dall'ammirevole tocco chitarristico e dalla sapida fluidità di fraseggio dell'ineffabile John Squire. Un melange appagante che accompagna rassicurante fino ad arrivare a circa due minuti dalla fine quando variano tema e situazione: la musica prende così una diversa colorazione, si flette, si fissa e fugge verso un tempo più squadrato col sapore di jam session. E' qui che Squire dà fondo ulteriore al suo smisurato repertorio di magie colpendo alle gambe l'ascoltatore: il riff si destruttura subendo una mutazione genetica che gli fa toccare addirittura territori funky, le chitarre si moltiplicano (ad un certo punto se ne ascoltano ben tre) ed i due pards della sezione ritmica cercano visibilità senza perdere il controllo. Prendere Byrds e Beatles e modificarli senza stravolgerli troppo. Che furbata! Con tali premesse Waterfall avrebbe di tutto per suonare datata: e invece no, dopo più di trent'anni suona ancora magica. 

Don't Stop

Parlando comunque di furbate, nulla potrà però mai eguagliare il supremo artificio messo in scena con Don't StopDon't Stop, ovvero l'arte del riciclaggio spinta alle estreme conseguenze. Trattasi infatti, sic et sempliciter, del nastro di Waterfall mandato al contrario, su cui Ian Brown canta una melodia composta ex novo con testo ispirato alle parole incomprensibili ascoltate sul nastro in reverse. Un proditorio trucchetto da DJ più che un'auspicabile pratica per musicisti. Non sono comunque un fondamentalista e non voglio quindi farne una questione di etica, né tantomeno lanciare scomuniche o evocare una guerra di religione contro le manipolazioni da studio. Sono infatti definitivamente finiti i tempi delle antiche diatribe tra cosa fosse vera musica e cosa invece bieca manipolazione di nastri. A rifletterci soltanto un attimo, è assolutamente invisibile la differenza filosofica fra il suonare dieci canzoni e poi sceglierne le parti più riuscite e montarle in una canzone nuova; o, come nel caso in esame, prendere una canzone che si è precedentemente suonata, farne girare il nastro al contrario e creare un brano che prima non esisteva. Tanto più che la stagione dello sdoganamento di tali "vergognose" pratiche risale ormai alla notte dei tempi. A livello di pop music di massa, almeno dai tempi in cui i Beatles rinunciarono ad esibirsi dal vivo data l'irriproducibilità sul palco delle loro fantascientifiche e ultraterrene caramelle sonore (e correva l'anno 1966!!!). In questo i Roses godono di un vantaggio indiscutibile, potendo vantare la presenza in sala d'incisione proprio di quel John Leckie che ad inizio carriera, nel 1970 quando i Beatles implosero, aveva lavorato per i primi album degli ormai ex Scarafaggi giusto come operatore di nastri agli Abbey Road Studios, il sancta sanctorum all'interno del quale i Fab Four si auto-recludevano per settimane a perpetrare i loro "sacrilegi". E chissà se non fu proprio John Leckie ad essere baciato dalla geniale intuizione di adottare con lucido cinismo quell'apocrifo procedimento per dare vita a Don't Stop. In ogni caso lo zeitgeist è colto con tempismo assoluto e la canzone si rivela rinfrescante per la scena guitar-pop del 1989. E' meravigliosamente straniante ascoltare le chitarre trasfigurate dalle apparecchiature di Leckie, mentre le voci giocano con timbri trasognati e intraprendono voli astrali, dando vita ad un oggetto sonoro che ha tutta l'aria di un congedo dal rock'n'roll.    

Bye Bye Badman

Chiaramente ispirata dai moti del maggio francese del 1968, Bye Bye Badman è una pugnace invettiva carica di odio e risentimento nei confronti dei servi del sistema, gli strumenti della repressione identificati nel badman , il celerino con cui non si può scendere a patti:  "Eccolo che viene, non ha domande, non ha amore. Sto tirando pietre verso di te. Ti voglio nero e blu e ti farò sanguinare. Ti farò inginocchiare. Ciao ciao criminale, ciao ciao. Soffocami, fuma l'aria in questo sole di limone succhiato, non m'importa. Voi non siete tutti qui. Sei stato acquistato e pagato, sei una puttana, uno schiavo. Il tuo banco degli imputati non è un tempio sacro. Vieni ad assaggiare la fine, sei mio. Ho cattive intenzioni, voglio demolirti. Queste pietre che lancio, questi baci alla francese sono l'unico modo che ho trovato". Un incazzatissimo inno guerriero per tutti i combattenti di strada, come lo fu a suo tempo (1968, guarda caso) la rollingstoniana Street Fightin 'Man, il più esplicito manifesto politico e rivoluzionario delle Pietre Rotolanti, messo in bella mostra in apertura della seconda facciata di Beggar's Banquet. Ma se quello era un inno  ruvido e stradaiolo proposto con una carica spaventosa, Bye Bye Badman è un quadretto musicalmente ieratico, in netto contrasto con la crudezza del testo, che possiede quella benedetta leggerezza pop che caratterizza buona parte del canzoniere degli Stone Roses.  

Elizabeth My Dear

L'Elizabeth del titolo è proprio lei: Elisabetta II regina del Regno Unito e di altri 15 regni del Commonwealth. E il breve intermezzo acustico di Elizabeth My Dear (meno di un minuto) non è né un omaggio all'inossidabile sovrana né un'affettuosa elegia. Quello che Ian Brown canta sul delicato arpeggio di Scarborough Fair è viceversa un piccato e provocatorio sberleffo all'indirizzo della Corona: "Fammi a pezzi e fai bollire le mie ossa. Non mi riposerò fino a quando lei non avrà perso il suo trono. Il mio obiettivo è vero. Il mio messaggio è chiaro. E' la fine per te, mia cara Elisabetta". 12 anni dopo Johnny Rotten, la Corona inglese è nuovamente nel mirino del rock'n'roll. E ancora una volta gli Stone Roses prendono in mano l'Union Jack stracciona della gioventù insoddisfatta e impasticcata e lanciano dardi avvelenati all'indirizzo dell'estabilishment adagiandoli su un madrigale di violenta serenità.

(Song For My) Sugar Spun Sister

Facciamo un piccolo giochino di prestigio: prendiamo (Song For My) Sugar Spun Sister, vestiamola di un missaggio che ricrei il wall of sound di Phil Spector, aggiungiamoci una quantità spropositata di feedback e cosa otterremo? Massì, la risposta è esatta! I Jesus And Mary Chain di Psichocandy! La linea melodica c'è tutta, il cantato di Ian Brown è un disarmante, incondizionato atto d'amore nei confronti degli impasti vocali dei fratelli Reid ed il resto è Stone Roses ai massimi livelli di interazione. Certo, se i Roses e Leckie avessero concretizzato la nostra ipotesi limitandosi ad assemblare gli ingredienti di cui sopra senza aggiungere alcunché di personale, ora saremmo qui a parlare di un deragliamento ben oltre i limiti del plagio. E invece no, perché la canzone è stata addizionata da ben più di qualche spezia originale. Cosa significa tutto questo? Significa che questo è un fottutissimo gioiello guitar pop della Madonna! C'è infatti molto di questa canzone che entra nel flusso sanguigno: sono tutti i mille studiatissimi particolari che vanno a formare una tavolozza di strumenti e colori dove la somma è decisamente superiore alle singole parti. Il risultato di questo finissimo lavoro di cesello è una cifra sonora che esalta e soggioga al contempo. Già dal primissimo, prorompente secondo capiamo che questo è un geniale manifesto di artigianato sonoro dalla grande personalità: i tremendi ganci ad accordi aperti che danno il la alla canzone esplodendo nell'ambiente si impongono all'attenzione travolgendo tutto e tutti e mettendo d'accordo corpo e mente. E' chiaro fin da subito che saremo costretti a litigare con i vicini. Non meno perversamente (e stupendamente) ruffiano il prosieguo: quando Ian Brown inizia a cantare, lo spirito dei Jesus And Mary Chain si materializza in studio a mezzo di un ologramma che sorride compiaciuto; da quel momento nella struttura di Sugar Spun Sister albergheranno cambi di linea di canto con la voce che si alza di un'ottava al di sopra delle nuvole (così, tanto per non essere tacciati di ripetitività e immobilismo), repentini stop (che ti abbandonano sospeso nell'aria) and go (che ti restituiscono un terreno su cui riappoggiare i piedi), inopinate (ma quanto azzeccate) sottrazioni di strumenti (l'onnipresente rhythm guitar) a rendere il tutto più asciutto e stringato, discese ardite fatte di improvvisi breaks di chitarra carichi di elettriche sospensioni e poi le risalite con annessi gioiosi e liberatori "Yeah, yeah, yeah", stendardi di una gioventù che non vuole rinunciare alla propria esuberanza. Infine gli ultimi secondi di uno straordinario volo, fino all'ultima, solitaria pennata di Rickenbaker, rantolo distorto su cui muore il brano. Molto banalmente ma altrettanto convintamente, tutto molto, molto bello.

Made Of Stone 

Il giochetto dei rimandi e delle citazioni (nonché dei nastri suonati al contrario: Guernica lato B del singolo è proprio Made Of Stone riprodotta al contrario) trova nuova linfa in Made Of Stone, altro clamoroso episodio in cui l'emozione raggiunge livelli di guardia. Non tanto e non solo perché esibire assonanze (involontarie, credo) con Rolling Stones e Simon & Garfunkel senza risultare paraculi significa, oltre a padroneggiare una notevole grammatica sonora, possedere il lasciapassare per le più intime e insondabili profondità dell'animo dell'ascoltatore, ma proprio perché la stoffa di cui è fatta la canzone si rivela al tatto più eccitante di qualsiasi tessuto. Tutti gli stilemi del suono Stone Roses li troviamo presenti in Made Of Stone allo stato dell'arte: il ricamato incipit di chitarra è uno dei migliori usciti dalle generose dita di John Squire, l'entrata in scena della deflagrante cavata di Gary Mounfield con le sue potenti linee di basso nei pressi dei cento hertz, è un vero attentato all'integrità di tutti i woofer del pianeta Terra e le voci possiedono lo stesso effetto lievitante di una settimana di meditazione trascendentale. La progressione melodica, poi, è semplicemente da applausi a scena aperta: un amplesso profondo e melodicissimo tra due linee di canto di panoramica bellezza che sono una la logica conseguenza dell'altra. Ad un certo punto, all'apice del climax, entra in gioco inaspettatamente (ma Dio solo sa quanto opportunamente) perfino il vecchio e glorioso effetto phasing, colorazione vintage che ha reso nel passato tante canzoni altrettante gemme baciate dal sole. Vengono così rispolverati gli eroi degli anni in cui il rock'n'roll era un giovane virgulto pieno di vita e sfrontatezza e la ricerca di suoni inauditi esigenza insopprimibile. Due nomi su tutti: Jimi Hendrix che ha nobilitato la pratica dandole senso e dignità artistica e rendendola esigenza espressiva perfettamente funzionale alle sue visioni astrali (paradigmatica in tal senso la coda finale della gloriosa Bold As Love) e Al Kooper che in Super Session del 1968, assieme ad un pezzo da novanta della 6 corde come l'ineffabile Stephen Stills, sottopose al trattamento l'intera You Don't Love Me, blues d'alto lignaggio già nel repertorio di John Mayall ed in seguito degli Allman Brothers Band, che nelle mani dei due diventò un roteante bengala futurista. Anche da qui passa l'attuale sdoganamento di tutte le "diavolerie" di studio, nel comune sentire arte vera universalmente accettata a tutti gli effetti e non bieco abbellimento commerciale. 

Shoot You Down

Ai piani alti - direi anche altissimi - di una personale classifica di gradimento dei brani di The Stone Roses non è possibile non collocare Shoot You Down, affresco fuori dal tempo e rilucente di un gusto e una sensibilità che si trovano nei prodotti dei fuoriclasse. Rarefatta e intimista, è una costruzione notturna di rara intensità e imbarazzante bellezza che mostra nel duo Brown-Squire  una coppia di  compositori maturi, capaci di mettere a frutto il loro talento di coinvolgenti anime in trance e di avventurarsi nell'esplorazione dell'intimo più profondo. Ancora una volta l'amarezza del testo (la triste fine di una relazione arrivata stancamente al capolinea, con tutto il corredo di rimpianto, risentimento e ripicche piccine picciò) collide in modo stridente con una musica che ha la fosca personalità di un blues notturno, veicolo perfetto per diffondere l'ipnotismo espanso delle inquietudini sottopelle  (insomma, qui ci si manda seraficamente affanculo e ci si augura reciprocamente di finire morti ammazzati sulle ali di una musica dolce, ideale per farsi cullare alle prime luci del mattino). Il costrutto sonoro di quanto sopra è un capolavoro epocale dove tutti gli attori approcciano i loro strumenti combattuti - se così ci è consentito dire: ma sono tensioni positive - tra la pur relativa immediatezza della comunicazione poetico-melodica e l'afflato sperimentale. Per raggiungere lo scopo, Reni e Mounfield affrontano la partitura mettendo in mostra tutta la smoothness di cui sono capaci: la batteria diventa così un tappeto percussivo delicato e charmant cui si accoda uno squisito fondale di basso che a stento riesce a trattenere le sue pulsioni jazzistiche. Quanto alla chitarra, Squire si dedica ad ambientazioni sfumate, umorali accenti melismatici che richiedono all'ascoltatore di entrare in un mondo emotivamente complesso e affascinante, mentre Ian Brown riesce a rilassare il suo canto in uno stile suadente e malinconico. E' il territorio sonoro che, tanto per mettere in chiaro con quali modelli vada confrontato questo sognante bozzetto, hanno meravigliosamente battuto viandanti visionari come il Peter Green che da Supernatural dirige l'ippogrifo alla volta di The End Of The Game, come l'Hendrix speziato di aromi di lisergico umore (per capirci, lo starsailor che segue le sue lune e va verso futuribili beatitudini come Third Stone From The Sun e May This Be Love), oppure, per cercare riferimenti più vicini nel tempo, come una qualunque delle esternazioni ambient-blues di un combo di culto e scandalosamente misconosciuto come i contemporanei canadesi Cowboy Jumkies. E scusate se è poco. 

This Is The One

L'immane potenza delle violente pennate che ascoltate nei primi momenti di This Is The One è il migliore biglietto da visita per l'illustre ospite che inietta un cocktail di rabbia e adrenalina nelle vene della canzone. Del resto l'inconfondibile sturm und drang non lascia adito a dubbi e a quasi 45 anni Pete Townshend dimostra di aver ancora energia sufficiente per distruggere una chitarra. Come dite? Mi state dicendo che avete consultato note di copertina, almanacchi e alambicchi, ma della presenza in This Is The One del leader degli Who non c'è alcuna traccia da nessuna parte? Ma non mi dite! Dobbiamo dunque dedurre che sia proprio John Squire se medesimo a fare tutto 'sto casino? Ci arrendiamo all'evidenza, ma chi l'avrebbe mai detto? Mi scuso per la cantonata, ma chiunque ci sarebbe cascato perché This Is The One, checché se ne dica, ha proprio l'aria di una The Kids Are Alright 2.0. In fondo, dopo romantici bigliettini d'amore all'indirizzo di più di un eroe dei '60, il terreno per una letterina appassionata da recapitare a Townshend & C. era stato ampiamente dissodato. L'ipotesi è tanto più plausibile se consideriamo come proprio Townshend, presente casualmente al primo concerto della band, si profuse in sperticati elogi all'indirizzo dei quattro, che con This Is The One paiono voler ricambiare. Ulteriori indizi li raccogliamo se, ovviamente, ci dedichiamo ad un'analisi un minimo approfondita di un brano che potrebbe tranquillamente trovare coerente collocazione tra le pagine più mature della band di My Generation come Tommy,  Who's Next o QuadropheniaE non s'intenda questo come un più o meno velato desiderio di sminuire, ché c'è da godere come scimmie di una band che alla bisogna è capace di partorire squassanti movimenti tellurici come questo in esame. Mi pare di vederlo John Squire roteare il braccio destro per poi farlo abbattere come un maglio sulla sua malcapitata chitarra come solo il vecchio Pete sapeva fare. Iconica gestualità che più rock non si potrebbe e di cui lo stesso Townshend ha raccontato la genesi (fù un'imitazione di Keith Richards) in una gustosissima intervista rilasciata a David Letterman. "The (post) punk and the godfather" verrebbe da dire prendendo a prestito il titolo di uno dei brani cardine di QuadropheniaE che dire della pancia ritmica della locomotiva Stone Roses? Il "fantastico duo" Reni-Muni sta bene attento e non fargli mai mancare il carbone, ingegnandosi allo stesso tempo a non fare deragliare mai dai binari il suono della band. Gary Mounfield nei panni di John Entwistle ci si trova da Dio: come lui suona più note di qualunque altro bassista rock percorrendo in lungo e in largo il manico del proprio strumento e non c'è tasto che riesca a fuggire dalla guizzante agilità dei suoi onnipresenti polpastrelli. Più difficile per Reni rendere adeguato omaggio a Keith Moon. Non tanto a causa della tecnica di quello che è stato definito il più grande batterista della storia del rock inglese; di quella Reni ne ha da vendere. E' piuttosto la tracimante vitalità di Moonie, la sua totale mancanza di disciplina, la sua incontenibile esuberanza che gli impediva di suonare in 4/4 come ogni bravo, impeccabile batterista. Tenere il tempo? Bleahh !!! Roba da Kenny Jones !!! Ecco, in questo Moon The Loon era una centrale energetica come mai ce n'erano state e mai più ne avremmo viste. Un uragano umano inimitabile. Anche da un mostro di bravura come Reni. A parte questo, comunque, il nostro esce da This Is The One decorato sul campo  con tanto di galloni e mostrine. Chi non si scompone più di tanto è Ian Brown che senza lanciare microfoni in aria e senza frange cascanti dalla giacca di scena, si avvicina senza apparente sforzo ai fasti del Roger Daltrey cantante degli Who (ché esiste anche una dimensione  solista del "Roger from Oz " documentata da una nutrita discografia). Conclusione? Ispirarsi e copiare non sono sinonimi e mezzo non va confuso con fine. In This Is The One i Roses vogliono in fondo esprimere un'emozione forte e per farlo si sono ispirati ad un gruppo. Se così doveva essere, meglio che si siano ispirati al più grande gruppo rock'n'roll della storia. 

I Am The Resurrection

Beh, lo sapete cosa succede alle feste di piazza. Quelle feste importanti che coinvolgono gran parte della popolazione. Chessò, il 4 luglio in America, il 14 luglio in Francia, il 2 giugno qui da noi in Italia, l'ultimo dell'anno, la festa del santo patrono. Si esce per divertirsi. Per stare insieme. Si ammirano gli stand, ci si strafoga di street food, si assiste al concerto di qualche musicista importante invitato per l'occasione, si tira tardi. Poi, verso mezzanotte, prima che tutto finisca e veniamo spediti a casa perché l'indomani ci aspettano il lavoro, la scuola e tutti gli impegni della vita quotidiana, arriva, immancabile, lo spettacolo pirotecnico che chiude in bellezza la giornata. Ecco, anche con il primo album degli Stone Roses succede la stessa cosa. Dopo 10 canzoni una più bella dell'altra e prima di richiudere il disco nella sua confezione, arrivano i fuochi d'artificio che nel caso in esame hanno un nome preciso: I Am The Resurrection. E non è vuota retorica questa, ché I Am The Resurrection è veramente il gran finale di un disco che è esplosione d'ingegno. Applicazione e creatività. Un picco artistico da far girare la testa alla band e a chi la seguiva. Perché qui è tutto sovradimensionato. Raddoppiato. Raddoppiata la lunghezza (sono oltre 8 minuti). Raddoppiata la struttura (sono in pratica due canzoni: la canzone vera e propria e l'esplosione di una jam da antologia). Raddoppiato il tasso di adrenalina. Raddoppiata l'interazione tra i musicisti. Raddoppiato il pathos. I Am The Resurrection è come una fiammata in cui gli Stone Roses danno tutto quello di cui sono capaci. Par di essere ad un loro concerto e sentirli arringare la folla tra una canzone e l'altra: "Vi è piaciuto quello che avete ascoltato? Vi siete divertiti? Bene. Sappiate che finora abbiamo scherzato. Adesso vi facciamo sentire quello che veramente siamo in grado di fare!". Quello che molti considerano il capolavoro dell'album nasce con un break di batteria dall'impressionante impatto fisico messo in moto da un Reni semplicemente gigantesco. La tremenda macchina ritmica della band si mette così in moto e nulla e nessuno sembra in grado di fermarla: e con la devastante entrata in scena del tuonante ed elastico basso di Mounfield è come se venissero gettati ettolitri di benzina sul fuoco. Reni e Mani sono come due infaticabili pistoni che spingono a 300 km/h una gran turismo. Certo, poco dopo la canzone si configura e prende forma con la discesa in campo di voce e chitarra a scaldare il cuore e riempire la mente, ma con quei due della ritmica che continuano a premere come stantuffi sono sempre piedi e culo le parti più coinvolte. Diverso (completamente diverso) quello che accade poco prima del mezzo del cammin della canzone. E' il punto in cui parte la clamorosa outro sottoforma di jam che più che musica somiglia ad una siringa di adrenalina piantata direttamente nel cuore: qui l'ascoltatore, anziché per una selva oscura, si ritrova per una rigogliosa foresta tropicale carica di vita e piena di biodiversità. Certo, la diritta via è smarrita comunque vista la quantità di situazioni, di cambi di ritmo, di accordi e di impasti strumentali che gli si parano davanti quasi ad ogni passo. E il trionfo dell'interplay, ma soprattutto è l'apoteosi di un chitarrista immenso come John Squire, la cui febbrile esigenza di comunicare che gli brucia dentro è la molla che lo spinge a cercare il proprio orizzonte sempre un pò più in la e a mostrare un volto inedito e sfaccettato. Contrapposto al nostalgico musicista tirato su a Byrds e Buffalo Springfield, c'è un alter ego che si pasce di atmosfere acide e progressioni rhythm'n'blues.  Un suono, ma soprattutto un'attitudine, piuttosto fuori contesto nell'Inghilterra di fine anni '80, difficilmente ascoltabile se non attraverso l'opera di determinati gruppi americani che cominciavano allora ad uscire allo scoperto e che nel giro di pochi anni si sarebbero catalizzati sotto la sigla H.O.R.D.E. (acronimo di Horizions of Rock Developing Everywhere), festival estivo itinerante ispirato al Lollapalooza che nel tempo avrebbe inglobato anche band inglesi come gli Spiritualized (eccola la connessione con i Roses), vecchi santoni saggi come Neil Young e Taj Mahal e band sempreverdi come gli Allman Brothers Band. Il tutto è tanto più incredibile se pensiamo alle circostanze assolutamente casuali in cui ha preso vita la canzone. Sentite come Reni racconta la genesi del brano: "Mani stava suonando il riff di Taxman dei Beatles al contrario durante i controlli del suono e abbiamo suonato questa cosa tanto per scherzare. Alla fine abbiamo detto - Suoniamo questo scherzo correttamente e vediamo cosa viene fuori". Avete capito? Valutate quello che ci saremmo persi se quel giorno Gary Mounfield non avesse iniziato a giocherellare con il suo basso? Roba da non credere, vero? 


Odds And Sods Pt. 1: The Extras 

Se c'è una consolazione cui può aggrapparsi l'affranto appassionato di musica orfano del caro, glorioso vinile, questa è la proliferazione di versioni estese delle pubblicazioni originali che squarciano nuovi veli sulla produzione degli artisti. Così Expanded Edition, Anniversary Edition, Deluxe Edition, Bonus CD e chi più ne ha più ne metta, negli ultimi anni hanno un pò caoticamente invaso il mercato discografico, o perlomeno quel che ne resta. Non v'è dubbio alcuno che comunque si sia francamente esagerato. In molti casi oggi non si consente al calendario di fare nemmeno un giro completo dalla pubblicazione di un album che subito si corre ad allestire la sua Deluxe Edition pronta ad accalappiare l'inerme appassionato che viene così costretto a rincorse affannose e relativi esborsi di denaro che lui stesso è consapevole non conosceranno mai la parola fine. Esistono in tal senso casi clamorosi come quello di Live At Leeds degli Who (ma non è il solo), sperimentato dolorosamente sulla propria pelle dal sottoscritto: uscito in origine sul mercato nazionale nel 1970 sotto forma di singolo vinile con anonima copertina italiana, rivela la sua vera anima di finto bootleg (con relativa libidinosissima confezione originale) quando dopo pochi anni riesco a metterci sopra le mani durante una delle mie irrefrenabili e dispendiose (ahimè) scorribande "vinilitiche". Conosce la sua versione in CD nel corso degli anni '80 e nel '95 ecco la prima ristampa col raddoppio del minutaggio. C'era però un problema un solo brano era tratto da Tommy. Poteva essere accettata una tale deficienza? Ovviamente no. E allora ecco nel 2001 la Deluxe Edition sotto forma di doppio CD contenente la versione on stage della famosa opera rock. Ma che fare nel 2010 quando sarebbe caduto il 40° anniversario del disco? Nessun problema: una spolverata ai nastri conservati in archivio, et voilà, ecco pronta una celebrazione del 40° che riporta anche i concerti tenuti a Hull. E così son ulteriori 4 CD pronti a placare il costante fabbisogno di musica del povero melomane in perenne crisi di astinenza. Ma dico io, va bene tutto, cari discografici, ma non potete valutare come normale che io mi sciroppi 6 volte lo stesso disco per avere una visione più completa del mio artista preferito! Se la vostra risposta è sì, poi non lamentatevi se la gente si oppone al continuo prelievo forzoso di contante in perfetto stile Giuliano Amato e si difende scaricando dal web. Questo per non parlare di quei libidinosissimi oggetti del desiderio con cui farsi gioiosamente male dilapidando interi patrimoni, conosciuti come "Cofanetti". Voi lo sapete benissimo che a quelli è impossibile resistere! Spero mi sia perdonato lo sfogo lungo e un po' scomposto, ma il patrimonio sotto costante attacco è anche quello di chi scrive, come di chi scrive è la gentil consorte (si fa per dire) che non oso quasi più guardare negli occhi. Sia come sia, anche il primo album degli Stone Roses non sfugge a questa perversa regola non scritta e sembra anzi andare oltre la prassi e verso conseguenza estreme che non sappiamo quale futuro ci riserveranno. Già, perché dopo una 10th Anniversary Edition in due CD, il ventesimo anniversario è stato un tripudio di strenne che hanno fatto incazzare pure Babbo Natale, costretto all'acquisto di una slitta più capiente e di una muta di renne aggiuntive per poterle consegnare tutte. So che volete delle prove e quindi eccole: in contemporanea ad una canonica 20th Anniversary Edition di 2 CD contenente una manciata di brani in più rispetto alla 10th Anniversary Edition, ne viene pubblicata una seconda denominata 20th Anniversary Collectors Edition che di luccicanti dischetti ne contiene 3. Qualora però non foste ancora riusciti a dar fondo ai vostri ultimi, sudatissimi spiccioli, ecco la terza versione che aggiunge un quarto dischetto DVD che vi farà sdilinquire alla vista di un concerto dei Roses all'Empress Ballroom di Blackpool, cui si aggiungono ulteriori 6 video. Non so come siamo riusciti ad uscire indenni dalla celebrazioni per il trentennale, ma tremo al solo pensiero di cosa stiamo preparando i discografici in occasione di qualche futura ricorrenza che al momento non riesco nemmeno ad immaginare. Ad ogni buon conto, a dispetto del pistolotto indirizzato ai padroni del vapore della discografia, confesso di essere totalmente soggiogato da tutte queste iniziative retrospettive e che rovistare nei polverosi archivi alla ricerca di preziosi reperti del passato è l'attività che più mi appaga (a parte il sesso, sa va sans dire). E' per questo che l'immane lavoro cui mi sono masochisticamente sottoposto non è ancora terminato. Mia ferma intenzione è infatti quella di fornire a chi legge la più ampia rendicontazione di cui sono capace del primo album degli Stone Roses, facendo riferimento alla 20th Anniversary Collectors Edition (quella in triplo CD, per intenderci). Il primo dei due dischetti aggiuntivi, che lapalissianamente si intitola The Extras, mantiene esattamente quello che promette di essere: un utilissimo astrolabio attraverso cui è possibile localizzare tutto ciò (o quasi)  che degli Stone Roses era stato pubblicato su singolo e che invece di restare disperso nello spazio circostante viene organicamente raccolto su un unico supporto. Peccato che 11 brani su un totale di 13 ripetono paro paro e senza la ben che minima variazione (chessò, un'alternate take, un'acoustic version: invece niente, tutto uguale uguale) la scaletta di Turns Into Stone, album antologico che si riprometteva le medesime nobili finalità di recupero al momento della sua pubblicazione risalente al 1992. E poi non mi si venga a dire che incazzarsi con i discografici nuoce al sistema nervoso. Questi, se potessero, ti rifilerebbero  la risciacquatura dei piatti di dieci giorni prima spacciandola come brodino per raffinatissimi consommé. Vabbé, ritorniamo in modalità zen e rendiamo conto di questo benedetto dischetto. Nulla di più semplice: dentro ci trovate quasi (e sottolineo quasi) tutti i singoli pubblicati dalla band prima dell'uscita dell'album (quelli brevemente trattati nell'introduzione), in aggiunta a qualche lato B abbinato a brani contenuti in The Stone Roses e successivamente lanciati nell'agone sia dei singoli che degli EP's. Mancano, ed è un vero peccato, tutte le uscite precedenti al contratto con la Silvertone (quelle per la FM Revolver, tanto per capirci), incomprensibile e cervellotica decisione visto che la stessa Silvertone ne aveva già acquisito i diritti, come prova l'inserimento in The Complete Stone Roses, compilation del 1995. Giunti a questo punto facciamo insieme quattro tediosissimi ma utilissimi conticini: le canzoni FM Revolver escluse sono 5 per una durata totale di poco più di un quarto d'ora; a queste vanno aggiunte la versione 7" di She Bangs The Drum con un mix alquanto differente dalla versione sull'album, le versioni editate di I Wanna Be Adored e Fool's Gold, la versione remix di Waterfall e la versione radio di I Am The Resurrection, arrivando così ad un tempo complessivo di meno di 35 minuti. The Extras dura circa 64 minuti e The Stone Roses nemmeno 50, per una somma che da 115 minuti, secondo più secondo meno. Non sono un genio della matematica, ma se ogni CD può contenere 80 minuti di musica, due CD di minuti ne contengono 160. Ne consegue che considerati i 115 minuti pubblicati e spalmati su due CD, restano ulteriori 45 minuti che avrebbero potuto essere utilizzati. Non so a voi, ma al sottoscritto appare più che evidente che non esistono giustificazioni tecniche per l'esclusione, come non ne esistono, stante i presupposti di ancor più sopra, di legali. A mio parere, esiste viceversa un'inevitabile conclusione a cui giungere: certi discografici appartengono ad una specie a sè stante perché i loro costumi sono molto più facili di quelli delle loro mamme. Ma queste sono illazioni cui nessuno in modalità zen dovrebbe essere permesso arrivare. Piuttosto, quello che mi auguro è che quanto scritto, pur con penna avvelenata, si riveli per chi legge vademecum utilissimo girando per compere.         




One By One

Elephant Stone (Versione 12")

Si apre con uno dei più raffinati, intricati, originali e gustosi intro di batteria che sia dato ascoltare. Son solo 45 secondi, ma in questo limitatissimo lasso di tempo Reni ha agio di sciorinare quale sia la sua personale idea di batterista moderno. 45 secondi che se anche si protrassero per 45 minuti non troverebbero il modo di annoiare tanta è l'intelligenza profusa nella loro costruzione. Sublimi per suono, per esecuzione e per architettura. Come tocca piatti e charleston. Come li accarezza con le bacchette. L'atmosfera che riesce a creare anche elaborandone il suono elettronicamente. Abile di polso e lucido di cervello. E poi il tremendo contrasto con la pesante entrata in scena del kit di tamburi. Io ho ascoltato molti bravi batteristi. Ottimi batteristi, credetemi. E vi dico che questo ragazzo possiede le stimmate del rabbi. Del maestro. Lui da il via alla canzone e lui la chiude su un'impossibile scansione sui piatti. Nel mezzo c'è un gruppo che lo segue soffiando vita in un brano dall'avvincente concezione costruttiva e dal grande virtuosismo strumentale. La fragranza dell'arrangiamento testimonia infatti di un vero lavoro polifonico che rifiuta il ruolo meramente decorativo e ritmico della batteria, che nelle mani di Reni interviene nel processo creativo della composizione e dell'esecuzione. Pubblicata nell'ottobre 1988 e prodotta da Peter Hook, bassista dei New Order, la versione 12 pollici qui in esame differisce in maniera sostanziale da quella pubblicata sul singolo 7 pollici, citata in apertura di recensione: laddove quella erano 3 minuti di assalti carnivori alla giugulare del pop inglese, clangori che arrivavano fino a Sirio e corde d'acciaio che rombavano sulla Via Lattea, questa son 5 minuti di arabeschi ritmici e voluttuose trame percussionistiche su cui viene appeso il vischio magico di un sound speziato di aromi dal grande spessore emotivo e colorato da tempere di lisergiche tonalità. 

Full Fathom Five (John Leckie Remix)

C'è da perdere il senso dell'orientamento. Con Full Fathom Five ti assale lo stesso straniamento che provi quando apri una matrioska che contiene al proprio interno altre bambole progressivamente più piccole. Si chiama effetto Droste: quello di un immagine che appare ripetutamente all'interno della stessa creando un loop che in teoria potrebbe andare avanti all'infinito. Esistono due casi di effetto Droste nel mondo della grafica rock: uno è quello dei Poco di From The Inside del 1971, ma il più famoso e quello di Ummagumma dei Pink Floyd, dove i membri della band sono fotografati in varie pose e posizioni, mentre sulla parete c'è una foto che mostra la stessa immagine con le posizioni dei quattro Floyds scambiate e così ripetutamente fino a quando la qualità dell'immagine sul muro ne permette la replicabilità. In musica è più o meno quello che succede in Full Fathom Five. Difatti la Full Fathom Five presente in The Extras è un particolare remix di John Leckie della Full Fathom Five che in origine era Elephant Stone riprodotta in reverse (della quale, come già detto, esistono due diverse versioni). Come suona? Beh, prendete Elephant Stone, fate girare il nastro al contrario e di quel che otterrete fatene un remix. Ecco come suona! Chissà se mai uscirà una terza Full Fathom Five. Ovviamente dovrà essere una versione remix di quella che già era il remix della precedente. La cosa potrebbe continuare fino alla fine dei tempi senza mai fermarsi. Chi invece si ferma è il vostro umile scriba che, colto da improvvisa emicrania a grappolo, prende due compresse di Remix e decide che con Full Fathom Five può anche finire qui.

The Hardest Thing In The World

Se è vero, come è vero, che la musica degli Stone Roses trae linfa vitale dalle melodie chitarristiche che innervavano il beat e la psichedelia degli anni '60 rendendola irresistibile, The Hardest Thing In The World, terzo brano del 12" di Elephant Stone, è l'epitome perfetta di questa attitudine. Non è affatto difficile individuarne i riferimenti, ché la canzone li offre alla percezione dell'ascoltatore su un piatto d'argento. La prima impressione è quella di fare un balzo all'indietro fino alla Londra del 1965, dove gli Who muovevano i primi passi e all'ombra del Big Ben intonavano canzoni come The Kids Are Alright (ancora!), tratte dal loro primo album fresco di stampa (il riferimento all'immagine di copertina di The Who Sings My Generation non è assolutamente casuale ma fortissimamente voluto). L'arpeggio iniziale è qualcosa di più che una prova indiziaria e il singalong che da lì si dipana, pur prendendo percorsi melodici totalmente diversi, ne ricorda la struttura. Certo, The Hardest Thing In The World è meno puntuta, gli angoli vengono smussati, le mani sugli strumenti si muovono con meno veemenza e la canzone più che un inno incazzato uscito da Shepherd's Bush, assume più i connotati di un frizzante pop-rock kinksiano. Ecco, se dovessi coniare uno slogan per la canzone da usare come chiosa, direi una The Kids Are Alright fra folk-rock e merseybeat che spegne i bollori e li stempera in una Stop Your Sobbing che celebra la vivacità e l'ottimismo in punta di penna... di chitarra.

Going Down  

Da che mondo è mondo il crudele destino dei lati B dei singoli è sempre stato quello di diventare ricettacolo di canzoni considerate dagli stessi artisti figlie di un Dio minore. Canzoni nate già morte perché destinate a non essere ascoltate da nessuno; e qualora ascoltate una volta, destinate ad essere presto dimenticate. Ricordo ancora quando il mercato dei singoli (quelli dalla mia generazione li chiamavano 45 giri) era l'unico che ci era permesso frequentare dato che gli LP's erano oggetti del desiderio desinati a rimanere tali causa cronica mancanza di pecunia. Ben pochi erano i gruppi che su di un singolo inserivano due lati A: a memoria ricordo i Beatles, i Creedence Clearwater Revival e ben poco d'altro. A volte nemmeno loro. Voglio dire, tutti conoscono Let It Be dei Beatles, ma il suo lato B, You Know My Name (Look Up The Number), son certo che, a parte i membri del fan club dei 4 di Liverpool, non se lo ricorda nessuno. Io stesso devo confessare di averla ascoltata non più un paio di volte senza sentirne la mancanza. La verità è che spesso sui lati B venivano pubblicati o gli esperimenti poco riusciti o gli scarti. Going Down è una canzone formidabile sperperata sul lato B di Made Of Stone, prova provata che per questa volta la regola sopra enunciata fortunatamente non vale. E' infatti un brano bellissimo, che marchia a fuoco il canzoniere dei Roses e che meglio sarebbe stato far troneggiare al centro dell'album invece di relegarlo al semi-anonimato dei retri. Ma tant'è. L'unico difetto della canzone, se proprio vogliamo vederne uno, è che dura meno di tre minuti. Ma che fantastici tre minuti, signori! Dolcezza e perfezione. Romanticismo e intensità. Going Down è la messa in scena definitiva del neoclassicismo degli Stone Roses: il gioco di sponda melodicissimo tra le chitarre, il magico intreccio delle voci, la via personale di Reni ad un drumming che compenetra ritmo e melodia. In Going Down gli Stone Roses vengono a capo di un brogliaccio che prende le forme compiute di un masterpiece che è quanto di più poetico avessero mai inciso.

Guernica

Non c'è due senza tre, verrebbe da dire. Dopo gli episodi di Don't Stop e Full Fathom Five, ecco il terzo controverso "caso" di nastro mandato al contrario. Siccome ogni gioco è bello finché dura poco ci auguriamo sia anche l'ultimo (ma non sarà così, già lo sappiamo). Omaggio palese a Picasso e ad uno dei suoi dipinti più celebri, un'enorme olio su tela del 1937, reazione dell'artista al bombardamento della città basca di Guernica da parte dei nazi-fascisti che i critici hanno definito "la pittura contro la guerra più toccante e potente della storia", Guernica, come già detto, è Made Of Stone mandata in reverse. Nulla di nuovo, ovviamente, ma in questa nostra esplorazione del lato più alchemico e sperimentale degli Stone Roses, l'ascolto di Guernica ci obbliga ad ammettere che di tutte le tre "oscure manipolazioni" praticate sui nastri questa è la meglio riuscita. D'altro canto la chitarra elettrica di John Squire passata attraverso filtri, distorsori e stanze d'eco al punto di essere irriconoscibile, vellica le nostre orecchie come potrebbe farlo la 6 corde di un Hendrix di una ventina d'anni più giovane. Un Hendrix nato quando "l'altro" Hendrix offriva agli dei del rock la sua Stratocaster bruciandola col fuoco purificatore sull'altare votivo di Monterey, oppure tirava un potente calcio nei coglioni dell'inno americano sul palco di Woodstock. Qualora invece il mio endorsement non vi avesse convinto in quanto fondamentalisti rock che lanciano scomuniche all'indirizzo delle manipolazioni elettroniche, potrete sempre ritemprare il vostro rattristato spirito alla vista della Guernica picassiana che ho premurosamente postato qui sotto pensando a voi. 



Mersey Paradise

Se prendete un atlante e rivolgete la vostra attenzione al nord-ovest dell'Inghilterra, scoprirete che il fiume Mersey, per i più indissolubilmente associato alla città di Liverpool e alla sua scena musicale sixties detta non a caso Merseybeat, attraversa anche la città di Manchester. Non è un grande fiume il Mersey, solo 113 kilometri, un tempo inquinatissimi, che bagnano uno dei distretti più industrializzati d'Europa. Lungo quelle sponde, però, oltre a fabbriche e ciminiere venute su come funghi dopo la seconda rivoluzione industriale, sono cresciute anche le più ricettive menti musicali del Regno Unito. Uso non a caso il termine ricettive perché il bacino del Mersey è stata una delle antenne musicali più efficienti che si possano immaginare per la musica del dopoguerra. Le navi transatlantiche attraccavano al porto di Liverpool, scaricavano a terra uomini e merci (tra le quali tonnellate di vinili provenienti direttamente dai grossisti di mezza America) e a quel punto nasceva la magia. Tutti quei dischi risalivano il corso del Mersey fino a Manchester e oltre, invadendo capillarmente il territorio circostante e diventando la migliore delle balie per svezzare i giovani musicisti inglesi assetati di stimoli musicali di prima mano. I giovani virgulti captavano estasiati tutto quel ben di Dio, lo introiettavano facendolo scendere fin nelle più profonde e nascoste stanze della loro anima e poi lo risputavano in faccia al mondo sotto forma di canzoni. Le più belle che orecchie umane abbiano mai ascoltato. Centinaia di canti di sirene che annunciavano la rivoluzione. Quella musicale almeno. E' in questo ribollente brodo di cultura che nacquero i Beatles e tutto l'allegro esercito di agguerritissimi gruppi Merseybeat pronti a dar vita al periodo più swingante dalla fine della guerra: da Gerry And The Pacemaker agli stessi Merseybeats, da Freddie And The Dreamers agli Herman's Hermits (questi ultimi due di Manchester), a ovviamente i Beatles stessi, tutti contribuirono a far diventare Liverpool e Manchester due tra le capitali sonore d'Inghilterra e nel corso degli anni la più credibile alternativa nei confronti dello strapotere londinese. Con la progressiva penetrazione verso il resto del Regno Unito, tutto quel movimento musicale giovane ed eccitato perdeva per strada il prefisso Mersey per ribattezzarsi semplicemente Beat. E' a questo punto che il Beat inglese incomincerà un viaggio a ritroso verso gli States per raggiungere, come fanno i salmoni, il luogo natio. Tornata nei luoghi d'origine, questa musica infetterà beneficamente i corpi e le menti dei giovani americani: si pensi solo alle centinaia di psychotic reactions che la British Invasion innescherà nelle villette delle periferie statunitensi e segnatamente nei loro garage. Una bomba era stata innescata e nessuno avrebbe potuto più fermarla. E' proprio sulle musicalmente fertilissime sponde del Mersey, che ha trascorso l'infanzia Ian Brown assorbendo come una spugna tutti gli influssi musicali che gli capitavano a tiro e che, quando gli Stone Roses pubblicarono su EP She Bangs The Drum, uno dei più celebrati brani del loro primo album, ebbe la brillante intuizione di abbinargli sul lato B una canzone come Mersey Paradise, inno meravigliosamente ruffiano che riprendeva tutti (ma proprio tutti!) i rassicuranti stilemi del suono Stone Roses che tanta gloria (e più prosaicamente tante sterline) stavano portando al gruppo. Se il testo racconta di un episodio di cronaca nera che aveva molto colpito il giovane Ian (l'omicidio per annegamento nel Mersey di una donna, da parte di un uomo non corrisposto), musicalmente Mersey Paradise è un amorevole e commovente atto d'amore verso la musica della sua infanzia (Ian ed il Merseybeat nascono entrambi nello stesso anno, il 1963). Contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, non sono però i Beatles l'oggetto di questo sentimento, bensì uno dei gruppi di Liverpool più in voga nella prima metà dei '60, e nel giro di pochi anni colpevolmente rinchiuso a doppia mandata nei tristi ambienti del dimenticatoio. Parliamo dei Searchers, band passata dalle stelle alle stalle nel giro di due o tre anni, non prima di aver illuminato il cielo Beat come un passeggero bengala con deliziosi bon-bons guitar pop come Sweets For My Sweet, Sugar And Spice, Needles And Pins, Don't Throw Your Love Away e soprattutto When You Walk In The Room, lanciata dall'americana Jackie DeShannon a fine 1963, ma portata in vetta alle charts dai Searchers nell'autunno del '64. Notissima anche in Italia per la versione che ne diedero i Rokes ribattezzandola C'è Una Strana Espressione Nei Tuoi Occhi (e qui la lacrimuccia di nostalgica commozione è concessa, anzi necessaria), When You Walk In The Room, oltre ad essere una delle più belle canzoni degli anni '60, è anche la pietra angolare su cui gli Stone Roses edificano Mersey Paradise. E si badi bene che non di plagio si sta parlando. Non sono infatti note ed accordi ad essere uguali, ma il mood, l'indole (e, va da sé, qualche inflessione), il ritmo che scivola via come un delfino che nuota sulla superficie della bonaccia marina. Non era facile far nascere un capolavoro dalle ceneri di un altro senza finire in tribunale. Ci sono riusciti ancora una volta due geniali marpioni come Ian Brown e John Squire. E di questo va loro dato giusto merito.

Standing Here

Se la qualità dei brani degli Stone Roses rimasti negli archivi fosse anche solo la metà di quella sfoggiata nelle canzoni della B side di She Bangs The Drums, ora saremmo qui a vagheggiare di un lost album che potrebbe sconvolgere tutte le graduatorie dei migliori dischi della storia fino a qui conosciute. Non suoni questa come la solita iperbole da scribacchino in calore, ché Standing Here è veramente una canzone rilucente di un gusto e una sensibilità che solitamente si trovano solo nei fuoriclasse. In questa song i nostri, pur rifacendosi a un canone ormai definibile classico, riescono a prescindere da un qualsivoglia discorso temporale, rendendo di fatto inutili le categorie di "vecchio" e "nuovo". Per arrivare a questo risultato sono però necessarie non solo la conoscenza profonda dei modelli di riferimento (che nel caso in esame sono la triade Jimi Hendrix, Jesus & Mary Chain ed i Velvet Underground più soffici e riflessivi), ma anche la sensibilità per renderne propria l'essenza ultima e il talento per rielaborarla in qualcosa di personale o, per lo meno di non calligrafico. Gli Stone Roses stanno al gioco dei rimandi e delle citazioni non limitandosi a scimmiottare siffatti modelli ma facendoli propri, inglobandoli e usandoli a loro piacimento come fossero mattoncini del Lego. Affrontano così il tema mettendoli in fila uno dietro l'altro e costruendo una canzone bella da lontano come da vicino, perfetta nell'insieme come nei più piccoli dettagli. Una costruzione nuova e insieme familiare, edificata su tre stadi ben definiti che si avvicendano, senza però cadere nella trappola della frammentarietà. Il primo stadio è puro Hendrix, con la chitarra in solitaria di un John Squire (lo diciamo qui ma vale per tutta la canzone) semplicemente gigantesco. Sono solo 20 secondi di free form guitar ma sono sufficienti per costringermi a tirare in ballo addirittura l'Hendrix di Star Spangled Banner, il national anthem più conosciuto e amato dal popolo del rock. Quel che accade dopo questi fatidici 20 secondi attiene più alla beatitudine che  ti pervade in prossimità degli Dei che non al piacere connesso all'ascolto delle cose terrene. E' il secondo stadio che si colora di tempere accese e rivela con compiaciuta ferocia la sua anima power-pop. La chitarra da una diventano tre e battono il tempo, svisano e si attorcigliano in una licenziosa danza funky. Sotto di loro basso e batteria fanno il resto, e lo fanno colpendo l'ascoltatore con un diretto in faccia a tempo medio che è fluidità, dinamicità e tensione allo stato dell'arte. Quello che sorprende in tutto questo è che mentre tutt'intorno a lui infuria la tempesta, Ian Brown riesca a mantenere il suo consueto aplomb sciorinando con nonchalance il più deferente omaggio a Jesus And Mary Chain che orecchie umane potrebbero mai ascoltare. Se continuassero così per ore, nessuno oserebbe lamentarsi; invece, a due minuti dalla fine, altro stadio e nuove emozioni in cui macerarsi. Il gruppo, con l'accantonamento delle chitarre sincopate e del power rock più sfrontato, riesce a rilassare il suo sound intorno al tenue impressionismo strumentale della chitarra di John Squire, virando in uno stile più suadente e malinconico che ha come stella polare i Velvet Underground più, ehm... "vellutati" (vogliamo dire Sunday Morning? E diciamolo!) o, se preferite, tutte le band fondate da coloro che vennero folgorati sulla via di Damasco dopo aver ascoltato il disco della banana.

Simone

Nel 2002 Al Pacino gira un film intitolato Simone. Lui è Viktor Taranski, regista sul viale del tramonto che ad un certo punto viene piantato in asso dalla protagonista femminile del film che sta girando. Le clausole contrattuali gli impediscono di finire il lavoro utilizzando le immagini dell'attrice che gli sono rimaste in possesso e quindi si trova costretto a gettare tutto e girare ex-novo. Per mettersi al riparo dalle eventuali bizze di una nuova diva protagonista decide di sperimentare un nuovo programma per computer ereditato da un amico deceduto da poco. Il programma si chiama Simone (da Sim ulation One) e da la possibilità di gestire al computer un'attrice virtuale che Taranski battezza con lo stesso nome e che potrà programmare a proprio piacimento senza rivelare al mondo l'inesistenza di Simone. L'esperimento riesce perfettamente, tanto che pubblico e critica rimangono affascinati dalla prestazione impeccabile di questa nuova promessa del cinema materializzatasi dal nulla. Taranski, pressato dalle richieste, arriverà addirittura ad organizzare un'apparizione di Simone dal vivo usando un ologramma. E' la nascita della Simone-mania che da quel momento porterà l'attenzione verso quella che tutti credevano una donna in carne ed ossa a livelli morbosi. Tutti cominciano a chiedersi "chi è Simone? Da dove viene? Dove vive?". Da qui nasceranno gli equilibrismi di Taranski per giustificare la presenza/assenza di Simone come la strenua difesa della sua privacy fino all'epilogo finale. Non è mia intenzione qui disvelare la trama del film rovinando la sorpresa a chi non l'avesse visto; quello che piuttosto mi preme sottolineare è la tematica dell'uso smodato della manipolazione della realtà per mezzo della tecnologia. Perché è esattamente quello che accade con gli Stone Roses di Simone (titolo inconsapevolmente profetico) che altro non è che la riproduzione al contrario di Where Angels Play, una delle canzoni pubblicate come E.P. assieme ad I Wanna Be Adored nel 1989. E con questa diventano quattro le canzoni dei Roses sottoposte a tale discutibile trattamento. E' evidente che la band e Leckie si siano lasciati prendere la mano, il mestiere ha preso il sopravvento sull'anima e da una band ineccepibile come gli Stone Roses è una cosa difficile da accettare. Insomma, se lo fai una volta potrebbe essere un omaggio ai Beatles e al loro metodo di sperimentare, la seconda potrebbe essere l'esigenza di aggiustare il tiro, la terza una pulsione cui non hai saputo resistere, se lo fai per la quarta volta non può che essere una marchetta. Soprattutto se consideriamo che una versione di Sally Cinnamon catturata live all'Hacienda, compresa nello stesso E.P. e colpevolmente esclusa da The Extras, avrebbe molto più opportunamente potuto essere utilizzata. Ad ogni buon conto, considerazioni etiche a parte, è proprio sul piano estetico che Simone non tocca le corde giuste, non tocca il cuore, risultando così un episodio piuttosto trascurabile nel canzoniere degli Stone Roses. Dispiace scrivere parole come queste, ma non sarei onesto se non dicessi che Simone è un neo nella carriera della band di cui non si sentiva assolutamente il bisogno.

Fools Gold (Full Length)

Sicuramente non ascrivibile alla categoria dei trascurabili è la monumentale versione estesa di Fools Gold. Inserita in origine nella seconda stampa dell'edizione U.S.A. di The Stone Roses e pubblicata anche su singolo accoppiata a What The World Is Waiting For, il brano, oltre ad essere il primo del gruppo ad entrare nella Top Ten inglese, è soprattutto la più perfetta epitome del Madchester sound. In poco meno di 10 minuti di good vibrations e di tensione che la musica nera, come poche altre, sa veicolare, i Roses scialano con generosità tutti i dettami di un funky sudato in un calderone bollente di scenografie fumogene. L'incalzare di figure ritmiche up-tempo affidate a chitarra, basso, batteria e percussioni è stato costruito (parola di Ian Brown) su The Funky Drummer di James Brown, su cui Reni ha dovuto applicarsi non poco per impararne il ritmo. Non so se qualcuno l'ha mai detto a Reni, ma il suo drumming elastico e infaticabile è anche "fratello di sangue" di quello che è possibile ascoltare su In Concert di Derek And The Dominos, doppio live licenziato da Clapton & C. nel 1973, e segnatamente in Why Does Love Got To Be So Sad, felice trasposizione on stage di un pezzo del loro primo, celebratissimo album. Lì uno spumeggiante Jim Gordon prende per mano i compagni e li trasporta sulle ali di una ritmica serrata che vola via che è un piacere e raggiunge risultati di una magnificenza che lambisce, anzi lo tocca proprio, il capolavoro. La linea di basso invece è ispirata a Know How di Young MC che a sua volta era un campionamento di Theme From Shaft di Isaac Hayes. Questo spiega il tripudio di chitarra effettata con il pedale wah-wah che in mano a capitan John Squire diventa una macchina del tempo che catapulta l'ascoltatore direttamente nella prima metà degli anni '70, quando i Temptations dell'era Whithfield-Strong, i Weather Report di Boogie Boogie Waltz, i Funkadelic di George Clinton, Sly & The Family Stone e tutto l'esercito di funky bands che andava dai Rufus ai Commodores, dagli Earth Wind And Fire agli Ohio Players, dai Kool & The Gang ai Graham Central Station, sembravano tutti attratti dalla stessa stella polare, una chiamata universale che fece del groove e di un funky futurista di stampo psichedelico la sua matrice essenziale. In conclusione un grande, fottuto pezzo di funky rock, abbacinante come il sole di agosto, un'apoteosi di ritmi black dalla devastante potenza epica che spaccano le casse come un infarto farebbe con il cuore. E voi, cosa fate lì ancora tutti seduti e immobili come stoccafissi? Get up and boogie!!! E se proprio non vi va di ballare, almeno battete il tempo con il piedino!

What The World Is Waiting For

Non sappiamo se è questa canzone quello che il mondo stava aspettando. Probabilmente no. Certo però che What The World Is Waiting For è una gran bella coccarda posta a decorazione del portfolio dei Roses. Per almeno tre ragioni: la prima è che la canzone possiede di per sè una grande forza espressiva, la seconda è che John Squire si rivela una volta di più quel grandissimo chitarrista che è, la terza è che il cultore più avveduto ha ampia messe per cogliere il work in progress che narra di una band tutta protesa a superare gli schemi conosciuti (niente Byrds né Buffalo Springfield qui, come niente Beatles né Kinks né Pink Floyd). Si rivela dunque in What The World Is Waiting For un gruppo (ma più corretto sarebbe dire un chitarrista, ché lo spazio è tutto o quasi di John Squire) con un bagaglio di ingredienti molto ricercati: nuances, sincopi, controtempi ed un disumano senso del ritmo che lo fa muovere con la scioltezza di un uomo che ritma un mondo emotivo così profondamente assimilato da afferire una preziosa aura sanguigna e seducente a tutto il brano. A fine estate 1989 gli Stone Roses entrano negli Sawmills Studios in Cornovaglia dando il via a delle sessioni di registrazione che per il chitarrista saranno assolutamente da incorniciare. Se infatti i due della sezione ritmica si sacrificano ad un'oscuro lavoro di gregariato (di qualità, ma pur sempre di gregariato si tratta) e Ian Brown da vita alla sua ormai inconfondibile performance vocale indolente e sussurrata, John Squire, imbracciando lo strumento acustico, pone subito l'ascoltatore di fronte ad un sostanziale elemento di novità: nessuna canzone degli Stone Roses aveva mai previsto l'uso di una chitarra acustica dal groove tanto carnale e ammiccante. Lo strumento prediletto da folksingers e menestrelli nelle mani di John diventa una macchina graffiata con ardore che produce un'energia rock autostradale e magnetica. Ma evidentemente John non è completamente soddisfatto del risultato, sente che alla canzone manca ancora qualcosa; così il chitarrista in autunno si chiude ai Battery Studios di Londra per fissare su nastro delle parti di chitarra aggiuntive non più trattenibili. Il risultato finale è stupefacente. A lavoro completato di chitarre se ne ascolteranno fino a quattro: un tripudio di ruvide distorsioni, riff beffardi che spaziano all'interno di una scansione febbrile e funky, rapidi fuzztoni che colorano una canzone stradaiola e travolgente che si ascolta per il puro piacere animalesco di farsi prendere da essa. Sono gli Stone Roses al loro apogeo, gravidi di quella sana ambizione che mette le ali al pentagramma. Sembrava fossero destinati a durare per sempre e fin quando si fossero concessi il lusso di relegare ai lati B dei loro singoli gioielli di adamantina bellezza come questo, ogni preoccupazione riguardo la solidità della loro vis creativa non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere.

One Love (Full Length)

La speranza di chi scrive è che le nuove generazioni d'acquirenti vadano a scoprire l'opera omnia degli Stone Roses. Se non lo faranno (ma sarebbe una mancanza doppiamente colpevole, visto lo sforzo necessario limitato dato dall'esiguo catalogo dei nostri), si perderebbero fatalmente un capolavoro come i quasi otto minuti di One Love, il più sontuoso compendio del madchester sound da loro mai concepito. Pubblicata su singolo il 2 luglio 1990, One Love, oltre ad essere uno srotolare di momenti musicali devastanti che inaugurano come meglio non si potrebbe il nuovo decennio, è una canzone che dopo più di 30 anni non perde un'oncia della sua freschezza e anche se ascoltata con le orecchie del nuovo millennio risulta ancora fortemente innovativa. Gli Stone Roses di One Love si confermano un gruppo enorme: basta sentire solo l'influenza esercitata su tutta una serie di scene e band che negli ultimi 30 anni hanno fatto parte del panorama rock inglese e non solo. Si pensi solo ad uno dei gruppi più interessanti del momento come gli americani !!! che senza le funkadeliche invenzioni dei Roses non sarebbero nemmeno immaginabili. Ma credo si possa andare oltre affermando che con One Love gli Stone Roses raccolgono un impegnativo testimone come quello di Jimi Hendrix pronti a farlo rimbalzare nell'outer space. Sono parole pesantissime queste, eppure insisto nell'affermare che ciò che si ascolta qui è quel manifesto di nuova musica totale su cui stava vagheggiando il mancino di Seattle e che avrebbe messo a punto dopo l'esperienza della Band Of Gypsys, se solo la Nera Signora non avesse deciso di interrompere il suo viaggio. Infatti, se conoscete tanto il brano in questione quanto l'ultimissimo Hendrix (Ezy Rider dal postumo The Cry Of Love, tanto per fare un esempio) e se ci riflettete un attimo, converrete quanto l'ipotesi appena enunciata sia molto meno peregrina di quanto a prima vista possa sembrare. E pensare che la partita è tutta giocata sul prato della semplicità ché non serve essere contorti o criptici per inventare la musica del futuro. Nel caso in esame sono sufficienti un'ipnotica ed irresistibile base di basso, batteria e percussioni su cui far svolazzare in direzioni cangianti e maliose una chitarra personalizzata con un paio di effetti come flanging e wah-wah. Tutto qui. Semplice come bere un bicchiere d'acqua. Poche idee ma giuste e destinate a restare ed ecco un Hendrix splendidamente rimodellato in chiave baggy pronto a tenere stimolante compagnia tanto ai vostri arti inferiori quanto alla vostra mente per chissà quanti altri anni a venire. Una medicina. Lo avessero chiamato The Cry Of Love non si sarebbe offeso nessuno, nemmeno lo spirito di Jimi.

Somethings Burning (Full Legth)

Se One Love è musica del futuro - e lo è - se è quell'utopica musica totale  scevra di compromessi, in cui la creatività dell'artista si muove libera e felice su un prato fiorito di nuove idee e intuizioni, se è tutto questo, non è necessario un grande sforzo per trovarsi di fronte a qualcosa che ne sia all'altezza: basta semplicemente girare il singolo di cui sopra e ascoltarne il lato B (ma sarebbe meglio chiamarlo lato A2) che risponde al nome di Somethings Burning. Più che una canzone Somethings Burning è un happening di dilatazioni lisergiche in cui viene asciugato ogni orpello e scarnificato il corpo del rock facendo tesoro di un'essenzialità imparata alla scuola di certi guastatori come il Bruce Palmer di The Cycle Is Complete, il Peter Green di The End Of The Game o il Tim Buckley di Lorca (e non stiamo parlando di sound in senso stretto ma soprattutto di attitudine). Non estranee alle influenze esercitate su questa nuova strada intrapresa dal gruppo anche certe frange irrequiete del jazz: e se conoscete gente come Bobby Hutcherson, vibrafonista tra i più grandi di sempre e colonna portante del suono Blue Note più avventuroso, potete farvi un'idea sul tripudio di suggestioni cosmic-jazz che caratterizzano il brano. Citazione non casuale, quella di Hutcherson, data dalla vitale presenza di un vibrafono circondato da forme strumentali stilizzate posto al centro dell'impasto sonoro. Insomma, qui i Roses volano alti, molto alti, raggiungendo le storiche "8 miglia" di byrdsiana memoria e nel volgere di pochi mesi dall'uscita del loro primo album hanno fatto tanti e tali passi in avanti da far sembrare il gruppo che suona in Somethings Burning una band totalmente diversa. L'unico aggancio col recente passato rimane il cantato impressionistico di Ian Brown con quel suo incedere che gioca fra timbri bassi e allure aristocratica. Il resto è una musica liquida che si srotola come una jam aliena in cui i laconici fraseggi della chitarra si adagiano su un tappeto cangiante di mille percussioni. A tenergli bordone la sorprendente novità del vibrafono che impreziosisce la partitura filtrando con sensibilità moderna gli insegnamenti, oltreché di Hurcherson, anche di Lee Underwood (il folletto del vibrafono - e non solo - che fa dei dischi di Tim Buckley pezzi di plastica baciati da un'ispirazione rara), declinando ogni sfumatura possibile fra lo charme e il silenzio. E' ovvio che chi fosse nostalgicamente abbarbicato agli Stone Roses dall'afflato byrdsiano e dalle disgressioni dance, potrebbe non capire e chiedersi attonito che razza di proposta musicale sia mai questa. A costoro mi sentirei di rispondere nel solo modo che le loro perplessità meritano: questa è avanguardia, bellezza!

Where Angels Play

Alla fine di un entusiasmante slalom tra le B sides degli Stone Roses, The Extras viene chiuso da un congedo di adamantina bellezza degno di una grande band. Retro di I Wanna Be Adored pubblicato nel 1989, Where Angels Play è, come già detto, la traccia che riprodotta in reverse si trasfigura in Simone. Raffinatissima e dal lento incedere, in perfetta equidistanza tra psichedelia vintage e romanticismo, la canzone va comunque a braccetto con una nuova religione che predica la rielaborazione delle suggestioni lisergiche senza replicarne gli stilemi (non totalmente almeno) ma adeguandole, con rara intelligenza e fantasia, ad un nuovo scenario. Al di là di riferimenti evidenti che omaggiano nomi più volte menzionati nel corso di questo saggio, la band riesce infatti ad introdurre nel sound alcuni additivi che gli donano, oltre ad un'indicibile grazia, un non trascurabile tasso di novità. Certo, sono tempere vintage, ma se vengono riesumate dopo che da più di vent'anni erano rimaste rinchiuse nel baule in soffitta e vengono risciacquate nei flutti della contemporaneità, il rinnovo della grammatica sonora appare evidente per il solo fatto di aver operato una scelta desueta e controcorrente. Per coglierle bisogna però dedicarsi ad un ascolto concentrato e selettivo, autistico, se mi si passa il termine, che escluda cioè tutte le distrazioni del mondo esterno. Solo così si riuscirà a godere di tutte le nuances e le accentuazioni che tolgono di peso la canzone dalle secche della routine. Già la struttura rivela agli esegeti la propensione della band a rifuggire dall'ovvio: un incipit dall'andamento  sospeso e un successivo sviluppo tutto giocato su consecutivi stop and go, improvvisi silenzi carichi di tensione e liberatorie ripartenze; uno studiatissimo intervento sulle dinamiche dove momenti estatici si sostituiscono a sapidi melodismi di stampo sixties. Tutto racconta di una traccia costruita con inarrivabile sapienza artigiana. Ma sono le alchimie strumentali ad avere straordinario impatto e a suscitare entusiasmo nella critica come negli ascoltatori. Chi mai si sarebbe aspettato un grappolo di accordi di chitarra jingle-jangle filtrati attraverso un marchingegno d'antan come il Leslie? Nemmeno ricordo da quanto tempo non sentivo suoni cosi emotivamente evocativi: se la memoria mi assiste, perlomeno dalla fine degli anni '60. Ma non è tutto: ad un certo punto, quando il ritornello raggiunge l'apogeo del climax, entra in scena, inaspettata e programmaticamente obsoleta, una chitarra ritmica processata col tremolo. Ora, da che mondo è mondo, da Pop Staples a John Fogerty a tutti gli swamp riders dagli anni '50 ad oggi, il tremolo è un effetto applicato suonando a note singole, mai ad una chitarra che suona gli accordi. Per le modulazioni di ampiezza, di fase e di spettro sue proprie, troppo grande il pericolo di produrre armonici ed echi sovrapposti e quindi scarsamente intelliggibili: in poche parole, cacofonia. Evidentemente la regola non vale se ti chiami John Squire e se riesci come lui a domare il "puledro selvaggio" senza farti disarcionare. In tal caso osare è un imperativo. Where Angels Play diventa così uno splendido attestato di come le giuste idee e l'urgenza di esprimerle possano anche far uso di vecchi arzigogoli tecnici per colpire. Nel caso in esame, con efficacia struggente a livello fisico, emotivo, intellettuale.



Odds And Sods Pt. 2: The Lost Demos 

Terzo giro di walzer e terzo ed ultimo dischetto della 20th Anniverasry Collection Edition del primo album degli Stone Roses lapalissianamente intitolato The Lost Demos. A voler proprio ben guardare, però, questi demos proprio perduti non sono, visto che erano disponibili già da dieci anni, non ricalcando altro, questo CD, che sequenza e registrazione del secondo CD della 10th Anniversary Edition del 1999. Ma tant'è. Già ho espresso il mio personale pensiero sui discografici e quindi non intendo ritornare sull'argomento. Molto più proficuo ed interessante passare alle questioni sostanziali come contenuti, estetica e tasso artistico. Quanto alla prima questione, quella dei contenuti, è presto detto: dentro The Lost Demos ci trovate praticamente i demo dei brani del primo album eccetto tre (Don't Stop, Elizabeth My Dear e Made Of Stone). A questi si aggiungono 6 dei brani di The Extras (Elephant Stone, Going Down, Mersey Paradise, Where Angels Play, Somethings Burning e One Love) e due inediti che a ben guardare sono le uniche novità vere della raccolta. Il primo (e con questo passiamo all'estetica e al tasso artistico) è Pearl Bastard, sorta di fantomatico stambecco bianco presente nel catalogo dei Roses, che i più avvertiti tra i fans narrano di aver già ascoltato in qualche nastro più o meno legale circolato clandestinamente. E' un brano la cui cifra stilistica è ancora figlia degli anni '60 e si palesa sulle ali di un andamento solenne sostenuto dalla classica strumentazione chitarra, basso e batteria. E' ovvio che nulla di nuovo viene rivelato, come è ovvio che non viene da gridare al miracolo, ma qui ciò che conta è l'aspetto archeologico, l'aver portato alla luce, cioè, un reperto che non meritava di rimanere sepolto in omnia saecula saeculorum. Più stimolante, a onor del vero, il secondo inedito, laconicamente battezzato Hidden Track 5. E' uno stralunato parto alieno in cui tornano in campo gli Stone Roses più destrutturati e rarefatti, i quattro starsailors che mettono d'accordo corpo e mente attraverso la palingenesi di un'improvvisazione che si avventura in gassosi empirei ed è infiltrata di un fraseggio di basso post prog, di una batteria decomposta e fluttuante e di schegge di chitarra che mettono in mostra le loro lacerazioni funky futuristic, certificando così l'esito più succoso della copula fra rock e avanguardia. Per quanto concerne il resto del programma, le memorabilia in forma di demo qui presenti non aggiungono nulla a quanto già si sapeva sui Roses. Di contro, non tolgono comunque nemmeno un oncia al loro peso artistico. Sono molto semplicemente l'istantanea di una band colta nella sua essenza più grezza ed istintiva, esattamente quello che un demo dovrebbe essere. Per spiegare quello che si presenta come il sogno bagnato di ogni fan del gruppo, non mi sovviene metafora più calzante di quella del guardone che sbircia dal buco della serratura; solo che dall'altra parte, in luogo di una discinta bionda sexy sotto la doccia, c'è una band che sta lavorando sodo su di un pugno di canzoni, essenziali nella loro nudità. Canzoni  che di lì a non molto avrebbero visto la luce, oltrechè in una manciata di singoli sensazionali,  nella scaletta di uno degli album più celebrati del rock. Ecco allora che l'esercizio più praticato dagli aficionados diventa il confronto tra l'alterità di questi grezzi diamanti e le versioni definitive partorite negli avanguardistici e sofisticati studi che i quattro avrebbero iniziato a frequentare nel giro di poche settimane. Si scopre così che I Wanna Be Adored è decapitata dell'atmosferico incipit elettronico-rumorista che arricchisce la versione dell'album; che Bye Bye Badman, oltre ad una dose aggiuntiva di grezza energia, mette in mostra un finale che perde in raffinatezza (i ricami della chitarra di Squire) ma acquista in senso del groove; che I Am The Resurrection lascia per strada un minuto e mezzo di registrazione e qualche quintale di sottigliezze strumentali, per guadagnare un break finale di chitarra acido e carnale al cui confronto le invenzioni più azzardate dei chitarristi concorrenti di fine anni '80 paiono la più convenzionale delle faccende; che Where Angels Play si spoglia delle magie soniche dell'effetto Leslie, del vibrato, dei cori e del resto della strumentazione, per indossare il saio umile ed essenziale di una chitarra acustica che la trasfigura in una melopea folk-rock; analogo discorso per Somethings Burning che qui viene proposta nella pudica nudità della versione 7 pollici, senza vibrafono, percussioni assortite e senza la presenza diffusa di tutti i sapori jazz-psycho-wave già descritti in precedenza. Si fermano qui i momenti di The Lost Demos che marcano le differenze più salienti con le più rifinite versioni pubblicate su album e singoli, ché le restanti canzoni, fatta salva una maggiore immediatezza, sono tutto sommato fedeli ai modelli originali. Si ferma qui anche questa spossante recensione che spero chi legge sia stato in grado di reggere. L'album, per il capolavoro che è, comunque lo meritava. Ah, dimenticavo, il trentennale di The Stone Roses è  scivolato via in sordina, senza speculazioni discografiche e quindi senza la pubblicazione di inutili materiali di scarto. In compenso dopo l'effimera reunion del 2016 che ha partorito la miseria di soli due singoli e dopo che nel 2019, in un'intervista a The Guardian, John Squire ha confermato il definitivo scioglimento della band, si sono rifatte insistenti le voci di un ulteriore ricongiungimento dei quattro. Non so se accadrà mai, come non so se sarebbe opportuno che accada. Forse sarebbe il caso di seguire il consiglio di Ian Brown che il 24 giugno 2017, durante quello che a tutt'oggi resta l'ultimo concerto della band, si rivolgeva con queste parole alla folla: "Non siate tristi che sia finita, siate felici che sia successo". Credo che sia il più realistico dei suggelli. Ma se gli uomini (e soprattutto le band) sono mortali, nel caso come quello in esame non lo è l'arte che producono. 

 Mauro Rollin 'On The River Uliana  
 






   

editoriale

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