Big Daddy
del 1989 è l’ultimo album
in cui John Mellencamp si fregia del nomignolo Cougar. Un cambiamento
apparentemente insignificante, ma che invece sottende una presa di coscienza
che veicola l’artista dentro la sua piena maturità. Le prime avvisaglie di
questa svolta si erano già avute con Scarecrow del 1985, album
fortemente influenzato dalla decisiva esperienza organizzativa del Farm Aid,
serie di concerti ideata assieme a Willie Nelson e Neil Young a sostegno degli agricoltori spinti sull’orlo del disastro dall’amministrazione Reagan. E’ dunque
l’America rurale e sfruttata lo sfondo su cui si stagliava lo spaventapasseri
del titolo. Il rock’n’roll giovanilista e rollingstoniano dei ventanni lasciava
il posto ad un panorama sonoro diretto e consapevole che preludeva alla fase
più ambiziosa della sua carriera. Gli fa coerentemente seguito The Lonesome
Jubilee del 1987, un disco profondamente riflessivo e fortemente
influenzato dalla musica country, in cui Little Bastard ci racconta della vita reale
(come avviene nell’omonima canzone) e delle problematiche dell’età adulta. Lo zio Joe morto di cancro, la
figlia, cui è dedicata Rooty Toot Toot, la Bibbia che ispira il testo
dell’arrembante Paper In Fire, lo sguardo nostalgico agli anni giovanili
di Cherry Bomb. Queste le tematiche di un album emozionale ed
ispiratissimo che si apre agli strumenti della tradizione (mandolino,
fisarmonica, banjo, dobro, dulcimer e soprattutto l’evocativo violino di Lisa
Germano) affiancati da quelli del rock. Picco creativo del disco è la stratosferica
Check It Out, senza tema di smentita una delle più intense canzoni degli
anni ’80 e non solo. Magistralmente scandita dal metronomico mid-tempo del
batterista Kenny Aronoff, Check It Out è una canzone da isola deserta,
magistrale nel definire lo stile del nostro uomo, dove le chitarre fluttuano in
un’atmosfera sensuale e mesmerica e dove la voce del “coguaro” smorza i toni e
si carica di soulness.
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