Credo non siano poi molti a ricordarsi di loro:
giusto qualche sparuto nostalgico e poco più. Sicuramente nessuno tra i più
giovani li porta più appesi al cuore. Eppure c’è stato un momento, breve ma
intenso, in cui i Vanilla Fudge furono veramente grandissimi e la loro Some
Velvet Morning era saldamente piazzata in cima anche alla nostra top ten.
Giunsero da noi come degli extraterrestri, e come degli extraterrestri vennero
presto reinghiottiti dallo spazio interstellare. Lo scorso anno ricorreva il
cinquantenario del loro esordio su vinile e ci sembrava giusto spendere qualche
parola su un gruppo che ha scritto alcune pagine che meriterebbero un posto
speciale nella storia del rock. Sono comunque ancora in attività e stanno
ancora incidendo dischi vivi e trascinanti. A buon intenditor…
Pietra miliare di Near The
Beginning (4° album metà in studio metà dal vivo, sempre anno domini 1969,
però mese di febbraio), Some Velvet Morning è una cover che fluttua
sciccosa tra i bagliori dello spazio interstellare. Accanto ad essa, in un
disco che è tutto un fremito di rock evoluto e aromi lisergici, fa bella mostra
di sé un’adrenalinica Shotgun dal repertorio di Junior Walker & the
All Stars, a conferma di come i brani altrui, rivoltati come calzini e
risputati col
sorriso malsano di chi non ha paura di confrontarsi con la storia, fossero da sempre la
compagnia preferita dei Fudge. Il resto del programma prevedeva un original come
Where is Happiness, angosciante e acidissima chanson noire madida
di umori psych e pulsioni dark ed una devastante Break Song, una jam di
oltre 23 ubriacanti minuti (ah, i
sixties!) in cui la band allestiva on stage una copula tra blues
(rock-blues) e sperimentalismo, vergata dai quattro collettivamente ed in cui
ognuno aveva modo di sciorinare i tratti salienti del proprio solismo
(inarrivabile, a tal proposito, uno stratosferico Tim Bogert che col suo
rivoluzionario approccio al Fender Bass riesce a trarre sonorità che definire
inusitate è un eufemismo). L’industria benemerita delle ristampe in CD e delle
conseguenti bonus tracks ha recentemente rimpinguato il menù di Near The
Beginning con la versione editata per il mercato dei singoli di Shutgun,
altri due originals quali People, ipnotica melopea già lato B di Some
Velvet Morning, la concitata Good Good Livin’, rockeggiante retro di
Shutgun e, a seconda delle edizioni,
una stravolta The Look Of Love dal repertorio di Burt
Bacharach.
Ed è proprio l’attitudine a travestire le canzoni della
concorrenza intervenendo come uno stilista farebbe per trasformare in dark
lady una sciantosa da belle epoque, il genius loci su cui intendo
soffermarmi un attimo prima di affrontare la vera e propria disamina di Some
Velvet Morning, non dimenticando che quest’ultima resta alla base di
questo saggio. Il gusto della rivisitazione si palesa fin dal 1° album del ’67,
permeando di sé tutti i cinque dischi incisi tra il ’67 ed il ’69 ed
estendendosi anche a tutta la produzione successiva al primo silenzio forzato
del gruppo iniziato nel marzo del 1970: una traversata del deserto, quella,
lunga ben 14 anni in cui la gloriosa sigla fu costretta a sparire dalle luci
della ribalta rischiando l’oblio. Il primo segnale di ritorno alla vita fu
l’elettronico-danzereccio Mistery del 1984 (ultima uscita per una major,
la Atco, sussidiaria dell’Atlantic) che pure di cover ne conteneva un
paio, ma che rivelava un tratto sonoro perfettamente in linea col decennio più
irritante della storia del rock. Fu comunque una ripartenza alquanto effimera.
Da quel momento in poi sarebbe stato un cammino relegato ai circuiti minori del
rock ed una carriera vissuta a sighiozzo: solo compilations e dischi live
licenziati da improbabili etichette di sottobosco (in prevalenza tedesche) nel
tentativo di riazzannare il mercato, senza però molte speranze e - ed è quel
che più conta - senza un minimo di progettualità. Per un ulteriore disco
veramente nuovo bisognerà attendere altri 17 anni da Mistery, con le
file degli aficionados che nel frattempo si erano andate inesorabilmente
assottigliando vieppiù ogni giorno. Non si va più in limousine, naturalmente,
ma in autobus (sperando che non salga il controllore), restando svincolati (per
sempre?) dal grande baraccone del rock che conta. Anche The Return,
infatti, album del 2001, esce sotto l’egida di una microetichetta che fin dal
nome, Hyperspace Records, mette in chiaro senza fraintendimenti quali
siano le sue coordinate sonore. Al suo interno, accanto a nuove cover come Do
You Think I’m Sexy di Rod Stewart (3), i Fudge non si limitano a
coverizzare se stessi, come accade in una Need Love dal sound aggiornato
per le orecchie del nuovo millenio, ma addirittura ricoverizzano quelle che già
a suo tempo erano state canzoni coverizzate da loro stessi negli anni ’60 (aaargh!!!!). Ma non finisce qui: risale al 2007 Out
Through The In Door dove, come lascia intendere il titolo, sono i Led
Zeppelin lo spettro grifagno sul muro di casa a suggerire il repertorio. Tutte
cover di Page e compagni, infatti, quelle contenute nell’album, un repertorio
arcinoto che subisce un processo di tornitura e molatura che gli dona i crismi
dell’indispensabilità. Se però non ne avete avuto abbastanza di tutto questo
riprendere, trasformare, riciclare, stravolgere, che ne dite di Spirit Of
’67, nono album in studio risalente giusto a tre anni fa e costituito,
manco a dirlo, quasi esclusivamente da cover? Si va
da Ruby Tuesday degli Stones ad I Can See For Miles degli Who. Da Break On Through
dei Doors a Gimme Some Lovin’ dello Spencer Davis Group e via
sessanteggiando. Il tutto fornito di una grinta e di un drive che non
era affatto scontato aspettarsi da quattro “nonnetti” come loro. Geronto-rock?
Non ditelo nemmeno per scherzo, cari miei! Chiamatela piuttosto libidine pura!
(4)
Ma sto correndo troppo. Riannodiamo dunque i fili e
torniamo agli anni ’60, rovistando in quei dischi che costituiscono il primo
nucleo in cui si formò il Fudge-pensiero. Cominciando dalla loro prima volta su
album nel 1967, ciò che tra i solchi del disco si offre alla nostra percezione
uditiva è un intrigantissimo pastiche psyco-pop totalmente composto da
brani altrui ed in cui il trattamento psichedelico viene applicato alla musica
con il probabile aiuto di magiche pozioni che erano il Gatto con gli Stivali
per scoprire l’ignoto: una twilight zone per sensi eccitati dove i santini
di Timothy Leary (5) contavano più del volto rugoso di Lyndon Johnson (6).
Pezzi da novanta come Ticket To Ride ed Eleanor Rigby di John,
Paul, George e Ringo, She’s Not There degli Zombies di Rod Argent, People
Get Ready degli Impressions di Curtis Mayfield, Bang Bang di Cher, You
Keep Me Hangin’ On delle Supremes di Diana Ross e Take Me For A Little
While di Trade Martin, esponente del cosiddetto blue eyed soul, genere
in voga negli anni ’60, si trasformano in una danza multicolore che si nutre delle allucinate
vibrazioni del rock e che scappa ad ogni rete. Si sbrigliano così suoni, idee e
vivaci suggestioni, a mezzo di arrangiamenti dalla flessibilità tagliente e ad un pugno di canzoni che avverano
il miracolo a più colori di un suono che consegna questo esordio alla storia.
Ancor più spinta l’operazione messa
in cantiere in The Beat Goes On, 2° album del 1968 che ha il solo torto
di eccedere in frammentarietà (si capisce però che la scelta è voluta), ma in
compenso è ricco di pathos. Musicalmente è un volo ad ali spiegate e cuore in
mano su tutti i mondi frequentati dagli eclettici quattro, il tutto filtrato
attraverso una genuina ottica psichedelica che esce prepotentemente dal casellario della
prevedibilità. Così, accanto a Sonny & Cher (7), di cui riprendono la
celeberrima song che da il titolo all’album, dividendola in quattro fasi,
troviamo frammenti dei soliti Beatles, di Elvis ed altri classici come Glenn
Miller e Cole Porter, fino a scomodare nientemeno che Ludwig Van Beethoven di
cui vengono riprese Fur Elise e Moonlight Sonata, abbracciate in
un medley dal clima magico.
Lo zenith comunque i Fudge lo raggiungono nel
successivo Renaissance, un visionario interstellar space di note
futuribili e di poesia colta e maudit che di cover ne contiene un paio
soltanto, ma una è talmente clamorosa da togliere letteralmente il fiato.
Trattasi della rendition di Season Of The Witch di Donovan, che da nuovo
standard rock frequentato praticamente da tutti viene riletta radicalmente con
esiti sorprendenti e trasformata nella mise
en scene di un ideale soundtrack per un allucinato incubo da psycho-movie.
Ciò che si ascolta è infatti un
sofferente viaggio agli inferi fatto di alienazione e paura, un canto di
disperazione che ben si muove nello spaventevole cosmo delle loro ossessioni. I
Vanilla Fudge sono stati la più fastosa congiunzione astrale fra i Nice di The
Toughts Of Emerlistdavjack ed i primi Deep Purple, quelli pre Gillan e
Glover, mai uscita dalla fiammeggiante scena art rock di fine sixties. Andatevi
ad ascoltare il corrusco panorama sonoro di River Deep Mountain High del
gruppo di Lord e Blackmore (a proposito: è una cover di Ike & Tina Turner)
o la sinistra ed inquietante Dawn di Emerson e compagni e scoprirete
come lo stesso umore corrosivo scorra tra le note di tutti e tre i gruppi. “Easy
listening before the end of the world” potrebbe essere il suo slogan
perfetto: come immergere il braccio fino al gomito nelle chiare, fresche acque
di una vasca… infestata dai piranas.
A questo punto, avendo già relazionato su ciò che
era accaduto in Near The Beginning, resta ancora da raccontare cos’ha da
dire sull’argomento cover il già citato Rock & Roll, lavoro
forte oltreché di Need Love, original dal suono aguzzo e compatto, anche
di tre renditions formidabili che girano sul mio stereo da quasi cinquant’anni.
E che al sottoscritto piacciono ancora da pazzi tutte e tre. I Can’t Make It
Alone è una delizia di torch song da mettere su alla sera per
illanguidirsi fumando l’ultima cicca della giornata; arriva direttamente dal Brill
Building (8), nei cui androni ancora aleggiano le gesta di Carole King e
Jerry Goffin che ne furono gli autori. The Windmills Of Your Mind sono
sei minuti di languori e di angosciosi fondali d’organo con la voce di Mark
Stein che profuma di romanticherie e cadenze esauste. Cantata in origine
dall’inglese Noel Harrison (1934 – 2013), era l’highlight dalla colonna
sonora di The Thomas Crown Affair, film del 1968 con Faye Dunaway e Steve
Mc Queen. Infine If You Gotta Make A Fool Of Somebody, standard R&B
del 1962, portato nei piani alti delle classifiche di vendita dagli inglesi
Freddie & the Dreamers e che qualcuno ricorderà nella versione italica
cantata dal “Molleggiato” nazionale con il titolo di Il Problema Più
Importante. Inutile precisare che i Fudge la trasformano da par loro
incentrandola su un intersecarsi di linee di hammond e chitarra e su di un
botta e risposta vocale psycho-soul tra Mark Stein e Carmine Appice (il
massimo della goduria per chi scrive).
Trattamento altrettanto spettacolare
– e qui torniamo a bomba - quello riservato pochi mesi prima al “mattino
vellutato” che tra lentezze psichedeliche e aggressioni elettriche diventa
un’altra rappresentazione della loro personale piece teatrale “Stravolgi
La Canzone”. A sorridere compiaciuti dietro le quinte per la scelta ci sono
gli originari titolari del brano: Lee Hazlewood (1929 – 2007) e Nancy Sinatra
(sì, sì, proprio la figlia primogenita di “quel” Sinatra… devo precisare il
nome di battesimo?). Lee Hazlewood - cantante, compositore e produttore - è un
nome che non dirà molto al pubblico meno avvertito. L’uomo e la sua opera
possiamo ormai considerarli persi nei meandri più oscuri della storia del rock.
Nonostante la sua carriera affondi le radici fin negli anni ’50, periodo a cui
risale la collaborazione col chitarrista Duane Eddy, e la sua sia una
discografia lunga quanto un elenco del telefono, qui in Italia non se l’è mai
filato nessuno. Eppure fu lo stralunato inventore di un sound che la stampa
dell’epoca definì "cowboy psychedelia” o "saccharine
underground", fino a legare il suo destino a Nancy Sinatra nei mid
sixties. Il sodalizio sarà baciato in fronte dal successo per il mega hit These
Boots Are Made For Walking del 1966, irresistibile e folgorante istantanea guizzante di soul e
birbante di beat che dominerà le classifiche su entrambe le sponde
dell’Atlantico (c’è da segnalare anche un onorevole 3° posto nella Hit Parade
italica). In tempi recenti la canzone è stata (ri)scoperta (seppure in un’altra
versione) dai creativi della pubblicità, al punto che non troppo tempo fa
diventò un quasi tormentone.
Da Nancy & Lee, album a
quattro mani del 1968, arriva invece (finalmente ci siamo) Some Velvet
Morning, il cui arrangiamento dai toni alquanto drammatici è la migliore
ambientazione per il solenne tenore di Hazlewood e la flautata voce di Nancy. I
quattro Fudge la triturano e ce la risputano con voce totalmente nuova e stile
potenziato: intonata col lauro sulla fronte, la canzone diventa portatrice di un
sound dove la dolcezza di chitarre e tastiere trattate con una levità di tocco
davvero pregiata si alterna a tellurici bridge. Vengono così
tratteggiati paesaggi
sonori rugiadosi e intensissimi, con la band che arabesca fili d’oro e corre
nella brezza di velluti melodici straordinariamente coinvolgenti. Così,
sull’irrefrenabile srotolarsi di continue e rinfrescanti magie viene costruita
con genio una struttura
compositiva tutta giocata sulla convivenza e sull’alternanza senza attriti di
momenti mesmerici dall’estro dionisiaco e dall’afflato favolistico e romantico,
con improvvisi fiotti
di un impetuoso fiume che fa bere all’ascoltatore fino all’ultima goccia il liquido
fortissimo di un impasto che freme e sconquassa. Una chanson di classe e
magnetismo impareggiabili, a testimonianza di uno stile e di una scrittura il
cui impatto è tuttora incommensurabile.
Arrivati a questo punto, come concludere la suggestiva
ed incredibile storia di questo intrigante rimaneggiamento? Forse
riflettendo sul fatto che spesso la realtà è più fantasiosa della fantasia
stessa: quante probabilità esistevano, infatti, che una canzone di uno strano space
cowboy che nessuno aveva mai sentito nominare, cantata in coppia con la
figlia di Frank Sinatra e rifatta (ma sarebbe meglio dire stravolta) da quattro
cavalieri erranti newyorkesi
che avevano fatto dell’immaginazione
che mozza in due il respiro la loro cifra stilistica, sarebbe
arrivata, nel ’69, prima nella classifica italiana dei dischi più venduti? Di
sicuro poche. Eppure, incredibile ma vero, è avvenuto. C’est la
vie. Finalmente al potere c’era la
fantasia. Fù così che il destino volle assegnare il ruolo di balia
incaricata di svezzare gli italici kids, aprendo le loro menti, a quattro facce
da fandango venute dalla Big Apple che trasformavano le altrui canzoni in psichedelici
viaggi al neon. Cuore e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ‘70.
(1) E già, perché il video di cui sopra ha come soundtrack
la versione di studio, mentre a Venezia fu una questione di fuoco rock al
cardiopalma, col minutaggio che si dilatò di conseguenza. Su You Tube potete
bearvi al sound di quella tellurica esibizione, ma ciò che riuscirete a vedere
sarà solo un’immagine fissa che vi costrigerà a lavorare di fantasia per
indovinare ciò che accadde in quella serata da tregenda. Signori di You Tube,
perche non bussate agli archivi di Mamma RAI e non salvate quel filmato
dall’oblio prima che se lo mangino i topi? Scommetto che se ci saprete fare ve
lo potrete portare via per un pugno di dollari. Al massimo, ma proprio a farla
grande, per qualche dollaro in più.
(2) Due partners in crime,
Bogert e Appice, che formavano una rhythm section che carica dell’ebbrezza
dell’immaginazione andava spesso a prendersi il ritmo all’inferno e destinata ad
una storia protrattasi per buona parte degli anni ’70: prima con i Cactus poi
con il breve ma fortunato sodalizio transatlantico con Jeff Beck. Beck, Bogert
& Appice (per i più pigri BB&A) vi dice niente? Era il 1973, l’epoca dei
supergruppi. Ancora nebbia? Eppure la loro prompente versione di Superstition
di Stevie Wonder da qualche parte dovreste averla pur sentita. O no?
(3) Sembra una stravaganza, ma se date un’occhiata alle
note di copertina di Blondes Have More Fun, album di Rod The Mod targato
1978, scoprirete come Appice sia il co-autore della canzone. Senza contare che
(e qui tutto torna) l’anno precedente, per l’album Foot Loose And Fancy Free,
Appice (batterista in entrambi i dischi) portò in dote al cantante scozzese,
dal repertorio dei Fudge, You Keep Me Hangin On, di cui vennero
sostanzialmente tenuti inalterati sia l’arrangiamento che l’impianto ritmico:
un roccioso mid-tempo che ritroviamo anche nella versione italiana dei Ribelli
dal titolo di Chi Mi Aiuterà, differenziando così le tre renditions
dall’originale delle Supremes che viceversa viaggiava al ritmo di un Motown
R&B eccitato e nervoso.
(4) Ma come - non ve l’avevo detto? – questi
quattro vecchietti - Dio li abbia in gloria – dopo più di 50 anni sono ancora
in giro in formazione (quasi) originale, nonostante una sequela ininterrota di
scioglimenti e successivi ricongiungimenti.
(5) Thinothy Leary: intellettuale, psicologo,
scrittore e libero pensatore statunitense, noto per la sua posizione favorevole
all’uso delle droghe psichedelche.
(6) Lyndon B. Johnson: 36° presidente degli U.S.A.,
successore di J. F. Kennedy, in carica in quel 1967.
(7) Non un eccentrico pallino il loro: il duo Sonny Bono
& Cher (la Bona) all’epoca era la coppia più stilosa dell’american beat;
haircut, make-up,
immagine e tutto il resto… dove per resto si intendono canzoni che hanno fatto
la storia. Volete qualche titolo? But You’re Mine che altro non è
che la versione originale di Ragazzo Triste di Patty Pravo. Little
Man che cantata da Milva (la pantera di Goro, vostro nonno dovrebbe
ricordarsela per benino) resta Little Man ma perde per knock out
al primo round il confronto con l’originale di quella che oggi è diventata la
donna più rifatta del sistema solare.
(8) Il Brill Building non è solamente un edificio
del 1931 situato a Manhattan, ma è anche luogo del cuore, favoleggiato e
mitico. Una di quelle istituzioni che solo negli USA possono venire alla luce e
che qui in Italia non ci è nemmeno concesso di sognare. Un tempio della musica
e della creatività al cui interno erano ospitati uffici di case discografiche,
studi di registrazione e litri di inchiostro usato per scrivere un numero
inimmaginabile di canzoni che hanno cambiato il corso della musica. Tra coloro
che registrarono, scrissero, stipularono contratti, pubblicarono e financo si
accasarono nel Brill Building, stabilendo colà il loro quartier generale,
possono essere annoverati musicisti e autori dal nome altisonante come Benny
Goodman, Glenn Miller, Tommy Dorsey, Burt Bacharach, Neil Diamond, Neil Sedaka,
Elvis Presley, Sonny Bono, Liza Minnelli, Phil Spector, Paul Simon, Laura Nyro
e millanta altri che non cito per non indurre chi legge ad aspettarmi sotto
casa con una pistola carica. Tra di essi anche i coniugi Carole King e Jerry
Goffin, autori di tanti e tali successi (anche in proprio, vedi la
pluridecennale carriera di Carole King come cantautrice) che il titolo di padri
nobili della canzone americana è ampiamente giustificato.
Mauro Rollin' On The River Uliana
Meravigliosa recensione!!! Grazie davvero, hai reso giustizia ai sempre bistrattati VF, non compresi allora e ancora oggi non valutati a dovere, vedi recensioni in rete di chi evidentemente stravede solo per i Thread Zeppelin e gruppi "schierati" et similia e c'è pure la claque di c.....i che lo omaggia di sperticate lodi. Vabbè, io mi tengo la tua rece e....Vanilla Fudge 4ever!
RispondiEliminaGrazie davvero a te. Sono commenti come il tuo che mi danno la forza per continuare in questa "missione" faticosa ma affascinante. Spero che tu continui a seguirmi, anche perché ho avuto la malsana idea di mettere in cantiere un numero assurdo di recensioni che non so nemmeno se avrò vita sufficiente per completare. D'altronde questo succede a chi è vittima di quel meraviglioso virus chiamato musica (altro che Covid!!!). Attendo ulteriori tuoi commenti. Ciao.
RispondiEliminaStraordinaria disamina..quando e' uscita some Velvet morning ..appena fatti 19 anni mi sono recato ad acquistare il 45 che ancora possiedo,e ironia altro acquirente Pietruccio Dik Dik stesso negozio in Piazza Cordusio a milano.che mi disse ma che roba e'...
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