domenica 28 luglio 2019

Some Velvet Morning - Vanilla Fudge (1969)




Credo non siano poi molti a ricordarsi di loro: giusto qualche sparuto nostalgico e poco più. Sicuramente nessuno tra i più giovani li porta più appesi al cuore. Eppure c’è stato un momento, breve ma intenso, in cui i Vanilla Fudge furono veramente grandissimi e la loro Some Velvet Morning era saldamente piazzata in cima anche alla nostra top ten. Giunsero da noi come degli extraterrestri, e come degli extraterrestri vennero presto reinghiottiti dallo spazio interstellare. Lo scorso anno ricorreva il cinquantenario del loro esordio su vinile e ci sembrava giusto spendere qualche parola su un gruppo che ha scritto alcune pagine che meriterebbero un posto speciale nella storia del rock. Sono comunque ancora in attività e stanno ancora incidendo dischi vivi e trascinanti. A buon intenditor…





Se andate su You Tube e ricercate Some Velvet Morning dei Vanilla Fudge, verrete catapultati di botto in quegli anni ’60 (ormai morenti nel caso in esame) tanto favoleggiati e mitizzati, ma concretamente molto meno frequentati (a posteriori, è ovvio) e di conseguenza conosciuti. Troppo amore e troppa nostalgia dietro questo video. Riprese d’altri tempi dove l’ingenuità è d’obbligo, il bianco e nero nitidamente naif è scontato e falde di musica già ascoltata affiorano dalle radici di un epoca aurea. Salgono così in superfice, con voce ancora attuale e stile che non perde un grammo dell’antica potenza, pruriti da psycho rock e squarci e tratteggi di una musica che viaggia lungo fantastiche traiettorie. Si, lo so: oggi nessuno si impressiona più davanti a reperti come questo. Ad ogni modo fu qualcosa di molto simile a questo video (ma con un impatto che va moltiplicato per 10 almeno) ciò che videro le mie fosche pupille da quasi quindicenne quando, nel settembre del 1969, le telecamere di "Mamma RAI", mandate in missione alla Gondola d'Oro di Venezia, trasmisero in diretta a tutta l'Italia la performance dei Vanilla Fudge. Dato che pretesero di suonare “veramente” dal vivo (e l'evento mal si conciliava coi tempi televisivi ed il playback del resto della compagnia cantante), venne allestita apposta per loro (così ci spiegò il buon vecchio Mike Bongiorno) una sala a parte, dove la band newyorkese avrebbe potuto esprimere tutto il suo potenziale rock… Ebbene, si espressero!!! Madonna mia!!! Mai vista prima una cosa del genere. Intanto, una canzone (canzone????) di oltre 9 minuti (1)!! E poi dal vivo!! Quindi sudore, smorfie, contorcimenti!! Carmine Appice (il paisà) che si avventava sulla batteria con braccia, bacchette e capelli che parevano volare da tutte le parti. Il bassista Tim Bogert, impassibile, con quell’aria da studente di college e con i suoi occhialetti dalle lenti rosa (del colore avremmo appreso solo più avanti, vista la tivù ancora tristemente in bianco e nero) per avere una visione del mondo più… rosea (2). Non meno importanti, anche se visivamente meno appariscenti, gli altri due pards: Mark Stein, voce setosa e tocco all’hammond dalla stringatezza quasi aforistica e Vince Martell, l’altro italo americano (al secolo Vincenzo Martellucci), dalla cui sei corde colante acidi dei più lisergici venivano sparati dei bruschi stacchi che arrivavano come vibro fendenti a schiaffeggiare le orecchie dell’ascoltatore. Quanto ammaliava quel sound: prima liquido, paradisiaco, psichedelico (che allora nemmeno sapevo cosa significasse), con l’ipnotismo di un coro lisergico, misticheggiante e madido di armonici, che pareva una serenata alle stelle; poi esplosivo, devastante, che riversava nelle orecchie d'Italia tonnellate di piombo fuso. Uno shock culturale! Una vera iniziazione! Per noi, che il massimo del live erano i Dik Dik a Sanremo o i Camaleonti al Cantagiro, ciò che stava avvenendo davanti ai nostri occhi sagranati ed increduli fù una messa pagana, un rito sciamanico dopo cui niente più sarebbe stato lo stesso. Risultato? La settimana successiva, dopo aver strameritatamente vinto la Gondola d’Oro, i Vanilla Fudge con la loro Some Velvet Morning potevano guardare dalla cima della Top Ten italiana (e parlo di quando nel Belpaese i dischi si vendevano) tutti quei canzonettari gaglioffi e popparoli (o pipparoli? Fate voi) che fino a quel momento avevano ammorbato l’etere e ferito le nostre orecchie. Per quanto riguarda il vostro affezionato scriba, una settimana di attesa era assolutamente fuori discussione, per cui il mattino successivo al sabbah veneziano mi fiondai dal mio abituale spacciatore di vinile dove mi sputtanai un mese di paghetta (come minimo!), faticosamente messa da parte per le grandi occasioni. E quale occasione più grande poteva esistere dell’acquisto di un libidinosissimo doppio album in edizione de luxe che la casa discografica, battendo il ferro mentre era ancora caldo, aveva allestito in esclusiva assoluta per il mercato italiano? Il feticcio si chiamava The Fantastic (titolo che più azzeccato non si sarebbe potuto e che io ribattezzai all’istante Il Vaniglione) ed al suo interno erano custoditi due autentici oggetti del desiderio: il primo era una compilation che conteneva alcune delle pagine più importanti della discografia della band (Some Velvet Morning compresa, ca va sans dire), mentre l’altro “padellone” altro non era che Rock & Roll, l’ultimissimo album dei quattro newyorchesi (il 5°) fresco di stampa (mese di settembre, anno domini 1969) e pubblicato (fatto per l’epoca più unico che raro) in contemporanea col mercato americano.
Pietra miliare di Near The Beginning (4° album metà in studio metà dal vivo, sempre anno domini 1969, però mese di febbraio), Some Velvet Morning è una cover che fluttua sciccosa tra i bagliori dello spazio interstellare. Accanto ad essa, in un disco che è tutto un fremito di rock evoluto e aromi lisergici, fa bella mostra di sé un’adrenalinica Shotgun dal repertorio di Junior Walker & the All Stars, a conferma di come i brani altrui, rivoltati come calzini e risputati col sorriso malsano di chi non ha paura di confrontarsi con la storia, fossero da sempre la compagnia preferita dei Fudge. Il resto del programma prevedeva un original come Where is Happiness, angosciante e acidissima chanson noire madida di umori psych e pulsioni dark ed una devastante Break Song, una jam di oltre 23 ubriacanti  minuti (ah, i sixties!) in cui la band allestiva on stage una copula tra blues (rock-blues) e sperimentalismo, vergata dai quattro collettivamente ed in cui ognuno aveva modo di sciorinare i tratti salienti del proprio solismo (inarrivabile, a tal proposito, uno stratosferico Tim Bogert che col suo rivoluzionario approccio al Fender Bass riesce a trarre sonorità che definire inusitate è un eufemismo). L’industria benemerita delle ristampe in CD e delle conseguenti bonus tracks ha recentemente rimpinguato il menù di Near The Beginning con la versione editata per il mercato dei singoli di Shutgun, altri due originals quali People, ipnotica melopea già lato B di Some Velvet Morning, la concitata Good Good Livin’, rockeggiante retro di Shutgun e, a seconda delle edizioni,  una stravolta The Look Of Love dal repertorio di Burt Bacharach.
Ed è proprio l’attitudine a travestire le canzoni della concorrenza intervenendo come uno stilista farebbe per trasformare in dark lady una sciantosa da belle epoque, il genius loci su cui intendo soffermarmi un attimo prima di affrontare la vera e propria disamina di Some Velvet Morning, non dimenticando che quest’ultima resta alla base di questo saggio. Il gusto della rivisitazione si palesa fin dal 1° album del ’67, permeando di sé tutti i cinque dischi incisi tra il ’67 ed il ’69 ed estendendosi anche a tutta la produzione successiva al primo silenzio forzato del gruppo iniziato nel marzo del 1970: una traversata del deserto, quella, lunga ben 14 anni in cui la gloriosa sigla fu costretta a sparire dalle luci della ribalta rischiando l’oblio. Il primo segnale di ritorno alla vita fu l’elettronico-danzereccio Mistery del 1984 (ultima uscita per una major, la Atco, sussidiaria dell’Atlantic) che pure di cover ne conteneva un paio, ma che rivelava un tratto sonoro perfettamente in linea col decennio più irritante della storia del rock. Fu comunque una ripartenza alquanto effimera. Da quel momento in poi sarebbe stato un cammino relegato ai circuiti minori del rock ed una carriera vissuta a sighiozzo: solo compilations e dischi live licenziati da improbabili etichette di sottobosco (in prevalenza tedesche) nel tentativo di riazzannare il mercato, senza però molte speranze e - ed è quel che più conta - senza un minimo di progettualità. Per un ulteriore disco veramente nuovo bisognerà attendere altri 17 anni da Mistery, con le file degli aficionados che nel frattempo si erano andate inesorabilmente assottigliando vieppiù ogni giorno. Non si va più in limousine, naturalmente, ma in autobus (sperando che non salga il controllore), restando svincolati (per sempre?) dal grande baraccone del rock che conta. Anche The Return, infatti, album del 2001, esce sotto l’egida di una microetichetta che fin dal nome, Hyperspace Records, mette in chiaro senza fraintendimenti quali siano le sue coordinate sonore. Al suo interno, accanto a nuove cover come Do You Think I’m Sexy di Rod Stewart (3), i Fudge non si limitano a coverizzare se stessi, come accade in una Need Love dal sound aggiornato per le orecchie del nuovo millenio, ma addirittura ricoverizzano quelle che già a suo tempo erano state canzoni coverizzate da loro stessi negli anni ’60 (aaargh!!!!).  Ma non finisce qui: risale al 2007 Out Through The In Door dove, come lascia intendere il titolo, sono i Led Zeppelin lo spettro grifagno sul muro di casa a suggerire il repertorio. Tutte cover di Page e compagni, infatti, quelle contenute nell’album, un repertorio arcinoto che subisce un processo di tornitura e molatura che gli dona i crismi dell’indispensabilità. Se però non ne avete avuto abbastanza di tutto questo riprendere, trasformare, riciclare, stravolgere, che ne dite di Spirit Of ’67, nono album in studio risalente giusto a tre anni fa e costituito, manco a dirlo, quasi esclusivamente da cover? Si va da Ruby Tuesday degli Stones ad I Can See For Miles degli Who. Da Break On Through dei Doors a Gimme Some Lovin’ dello Spencer Davis Group e via sessanteggiando. Il tutto fornito di una grinta e di un drive che non era affatto scontato aspettarsi da quattro “nonnetti” come loro. Geronto-rock? Non ditelo nemmeno per scherzo, cari miei! Chiamatela piuttosto libidine pura! (4)
Ma sto correndo troppo. Riannodiamo dunque i fili e torniamo agli anni ’60, rovistando in quei dischi che costituiscono il primo nucleo in cui si formò il Fudge-pensiero. Cominciando dalla loro prima volta su album nel 1967, ciò che tra i solchi del disco si offre alla nostra percezione uditiva è un intrigantissimo pastiche psyco-pop totalmente composto da brani altrui ed in cui il trattamento psichedelico viene applicato alla musica con il probabile aiuto di magiche pozioni che erano il Gatto con gli Stivali per scoprire l’ignoto: una twilight zone per sensi eccitati dove i santini di Timothy Leary (5) contavano più del volto rugoso di Lyndon Johnson (6). Pezzi da novanta come Ticket To Ride ed Eleanor Rigby di John, Paul, George e Ringo, She’s Not There degli Zombies di Rod Argent, People Get Ready degli Impressions di Curtis Mayfield, Bang Bang di Cher, You Keep Me Hangin’ On delle Supremes di Diana Ross e Take Me For A Little While di Trade Martin, esponente del cosiddetto blue eyed soul, genere in voga negli anni ’60, si trasformano in una danza multicolore che si nutre delle allucinate vibrazioni del rock e che scappa ad ogni rete. Si sbrigliano così suoni, idee e vivaci suggestioni, a mezzo di arrangiamenti dalla flessibilità tagliente e ad un pugno di canzoni che avverano il miracolo a più colori di un suono che consegna questo esordio alla storia.
Ancor più spinta l’operazione messa in cantiere in The Beat Goes On, 2° album del 1968 che ha il solo torto di eccedere in frammentarietà (si capisce però che la scelta è voluta), ma in compenso è ricco di pathos. Musicalmente è un volo ad ali spiegate e cuore in mano su tutti i mondi frequentati dagli eclettici quattro, il tutto filtrato attraverso una genuina ottica psichedelica che esce prepotentemente dal casellario della prevedibilità. Così, accanto a Sonny & Cher (7), di cui riprendono la celeberrima song che da il titolo all’album, dividendola in quattro fasi, troviamo frammenti dei soliti Beatles, di Elvis ed altri classici come Glenn Miller e Cole Porter, fino a scomodare nientemeno che Ludwig Van Beethoven di cui vengono riprese Fur Elise e Moonlight Sonata, abbracciate in un medley dal clima magico.
Lo zenith comunque i Fudge lo raggiungono nel successivo Renaissance, un visionario interstellar space di note futuribili e di poesia colta e maudit che di cover ne contiene un paio soltanto, ma una è talmente clamorosa da togliere letteralmente il fiato. Trattasi della rendition di Season Of The Witch di Donovan, che da nuovo standard rock frequentato praticamente da tutti viene riletta radicalmente con esiti sorprendenti e trasformata nella  mise en scene di un ideale soundtrack per un allucinato incubo da psycho-movie. Ciò che si ascolta è infatti un sofferente viaggio agli inferi fatto di alienazione e paura, un canto di disperazione che ben si muove nello spaventevole cosmo delle loro ossessioni. I Vanilla Fudge sono stati la più fastosa congiunzione astrale fra i Nice di The Toughts Of Emerlistdavjack ed i primi Deep Purple, quelli pre Gillan e Glover, mai uscita dalla fiammeggiante scena art rock di fine sixties. Andatevi ad ascoltare il corrusco panorama sonoro di River Deep Mountain High del gruppo di Lord e Blackmore (a proposito: è una cover di Ike & Tina Turner) o la sinistra ed inquietante Dawn di Emerson e compagni e scoprirete come lo stesso umore corrosivo scorra tra le note di tutti e tre i gruppi. “Easy listening before the end of the world” potrebbe essere il suo slogan perfetto: come immergere il braccio fino al gomito nelle chiare, fresche acque di una vasca… infestata dai piranas.
A questo punto, avendo già relazionato su ciò che era accaduto in Near The Beginning, resta ancora da raccontare cos’ha da dire sull’argomento cover il già citato Rock & Roll, lavoro forte oltreché di Need Love, original dal suono aguzzo e compatto, anche di tre renditions formidabili che girano sul mio stereo da quasi cinquant’anni. E che al sottoscritto piacciono ancora da pazzi tutte e tre. I Can’t Make It Alone è una delizia di torch song da mettere su alla sera per illanguidirsi fumando l’ultima cicca della giornata; arriva direttamente dal Brill Building (8), nei cui androni ancora aleggiano le gesta di Carole King e Jerry Goffin che ne furono gli autori. The Windmills Of Your Mind sono sei minuti di languori e di angosciosi fondali d’organo con la voce di Mark Stein che profuma di romanticherie e cadenze esauste. Cantata in origine dall’inglese Noel Harrison (1934 – 2013), era l’highlight dalla colonna sonora di The Thomas Crown Affair, film del 1968 con Faye Dunaway e Steve Mc Queen. Infine If You Gotta Make A Fool Of Somebody, standard R&B del 1962, portato nei piani alti delle classifiche di vendita dagli inglesi Freddie & the Dreamers e che qualcuno ricorderà nella versione italica cantata dal “Molleggiato” nazionale con il titolo di Il Problema Più Importante. Inutile precisare che i Fudge la trasformano da par loro incentrandola su un intersecarsi di linee di hammond e chitarra e su di un botta e risposta vocale psycho-soul tra Mark Stein e Carmine Appice (il massimo della goduria per chi scrive).
Trattamento altrettanto spettacolare – e qui torniamo a bomba - quello riservato pochi mesi prima al “mattino vellutato” che tra lentezze psichedeliche e aggressioni elettriche diventa un’altra rappresentazione della loro personale piece teatrale “Stravolgi La Canzone”. A sorridere compiaciuti dietro le quinte per la scelta ci sono gli originari titolari del brano: Lee Hazlewood (1929 – 2007) e Nancy Sinatra (sì, sì, proprio la figlia primogenita di “quel” Sinatra… devo precisare il nome di battesimo?). Lee Hazlewood - cantante, compositore e produttore - è un nome che non dirà molto al pubblico meno avvertito. L’uomo e la sua opera possiamo ormai considerarli persi nei meandri più oscuri della storia del rock. Nonostante la sua carriera affondi le radici fin negli anni ’50, periodo a cui risale la collaborazione col chitarrista Duane Eddy, e la sua sia una discografia lunga quanto un elenco del telefono, qui in Italia non se l’è mai filato nessuno. Eppure fu lo stralunato inventore di un sound che la stampa dell’epoca definì "cowboy psychedelia” o "saccharine underground", fino a legare il suo destino a Nancy Sinatra nei mid sixties. Il sodalizio sarà baciato in fronte dal successo per il mega hit These Boots Are Made For Walking del 1966, irresistibile e folgorante istantanea guizzante di soul e birbante di beat che dominerà le classifiche su entrambe le sponde dell’Atlantico (c’è da segnalare anche un onorevole 3° posto nella Hit Parade italica). In tempi recenti la canzone è stata (ri)scoperta (seppure in un’altra versione) dai creativi della pubblicità, al punto che non troppo tempo fa diventò un quasi tormentone.
Da Nancy & Lee, album a quattro mani del 1968, arriva invece (finalmente ci siamo) Some Velvet Morning, il cui arrangiamento dai toni alquanto drammatici è la migliore ambientazione per il solenne tenore di Hazlewood e la flautata voce di Nancy. I quattro Fudge la triturano e ce la risputano con voce totalmente nuova e stile potenziato: intonata col lauro sulla fronte, la canzone diventa portatrice di un sound dove la dolcezza di chitarre e tastiere trattate con una levità di tocco davvero pregiata si alterna a tellurici bridge. Vengono così tratteggiati paesaggi sonori rugiadosi e intensissimi, con la band che arabesca fili d’oro e corre nella brezza di velluti melodici straordinariamente coinvolgenti. Così, sull’irrefrenabile srotolarsi di continue e rinfrescanti magie viene costruita con genio una struttura compositiva tutta giocata sulla convivenza e sull’alternanza senza attriti di momenti mesmerici dall’estro dionisiaco e dall’afflato favolistico e romantico, con improvvisi fiotti di un impetuoso fiume che fa bere all’ascoltatore fino all’ultima goccia il liquido fortissimo di un impasto che freme e sconquassa. Una chanson di classe e magnetismo impareggiabili, a testimonianza di uno stile e di una scrittura il cui impatto è tuttora incommensurabile.
Arrivati a questo punto, come concludere la suggestiva ed incredibile storia di questo intrigante rimaneggiamento? Forse riflettendo sul fatto che spesso la realtà è più fantasiosa della fantasia stessa: quante probabilità esistevano, infatti, che una canzone di uno strano space cowboy che nessuno aveva mai sentito nominare, cantata in coppia con la figlia di Frank Sinatra e rifatta (ma sarebbe meglio dire stravolta) da quattro cavalieri erranti newyorkesi che avevano fatto dell’immaginazione che mozza in due il respiro la loro cifra stilistica, sarebbe arrivata, nel ’69, prima nella classifica italiana dei dischi più venduti? Di sicuro poche. Eppure, incredibile ma vero, è avvenuto. C’est la vie. Finalmente al potere c’era la fantasia. Fù così che il destino volle assegnare il ruolo di balia incaricata di svezzare gli italici kids, aprendo le loro menti, a quattro facce da fandango venute dalla Big Apple che trasformavano le altrui canzoni in psichedelici viaggi al neon. Cuore e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ‘70. 

(1) E già, perché il video di cui sopra ha come soundtrack la versione di studio, mentre a Venezia fu una questione di fuoco rock al cardiopalma, col minutaggio che si dilatò di conseguenza. Su You Tube potete bearvi al sound di quella tellurica esibizione, ma ciò che riuscirete a vedere sarà solo un’immagine fissa che vi costrigerà a lavorare di fantasia per indovinare ciò che accadde in quella serata da tregenda. Signori di You Tube, perche non bussate agli archivi di Mamma RAI e non salvate quel filmato dall’oblio prima che se lo mangino i topi? Scommetto che se ci saprete fare ve lo potrete portare via per un pugno di dollari. Al massimo, ma proprio a farla grande, per qualche dollaro in più.

(2) Due partners in crime, Bogert e Appice, che formavano una rhythm section che carica dell’ebbrezza dell’immaginazione andava spesso a prendersi il ritmo all’inferno e destinata ad una storia protrattasi per buona parte degli anni ’70: prima con i Cactus poi con il breve ma fortunato sodalizio transatlantico con Jeff Beck. Beck, Bogert & Appice (per i più pigri BB&A) vi dice niente? Era il 1973, l’epoca dei supergruppi. Ancora nebbia? Eppure la loro prompente versione di Superstition di Stevie Wonder da qualche parte dovreste averla pur sentita. O no?

(3) Sembra una stravaganza, ma se date un’occhiata alle note di copertina di Blondes Have More Fun, album di Rod The Mod targato 1978, scoprirete come Appice sia il co-autore della canzone. Senza contare che (e qui tutto torna) l’anno precedente, per l’album Foot Loose And Fancy Free, Appice (batterista in entrambi i dischi) portò in dote al cantante scozzese, dal repertorio dei Fudge, You Keep Me Hangin On, di cui vennero sostanzialmente tenuti inalterati sia l’arrangiamento che l’impianto ritmico: un roccioso mid-tempo che ritroviamo anche nella versione italiana dei Ribelli dal titolo di Chi Mi Aiuterà, differenziando così le tre renditions dall’originale delle Supremes che viceversa viaggiava al ritmo di un Motown R&B eccitato e nervoso.

(4) Ma come - non ve l’avevo detto? – questi quattro vecchietti - Dio li abbia in gloria – dopo più di 50 anni sono ancora in giro in formazione (quasi) originale, nonostante una sequela ininterrota di scioglimenti e successivi ricongiungimenti.

(5) Thinothy Leary: intellettuale, psicologo, scrittore e libero pensatore statunitense, noto per la sua posizione favorevole all’uso delle droghe psichedelche.

(6) Lyndon B. Johnson: 36° presidente degli U.S.A., successore di J. F. Kennedy, in carica in quel 1967.

(7) Non un eccentrico pallino il loro: il duo Sonny Bono & Cher (la Bona) all’epoca era la coppia più stilosa dell’american beat; haircut, make-up, immagine e tutto il resto… dove per resto si intendono canzoni che hanno fatto la storia. Volete qualche titolo? But You’re Mine che altro non è che la versione originale di Ragazzo Triste di Patty Pravo. Little Man che cantata da Milva (la pantera di Goro, vostro nonno dovrebbe ricordarsela per benino) resta Little Man ma perde per knock out al primo round il confronto con l’originale di quella che oggi è diventata la donna più rifatta del sistema solare.

(8) Il Brill Building non è solamente un edificio del 1931 situato a Manhattan, ma è anche luogo del cuore, favoleggiato e mitico. Una di quelle istituzioni che solo negli USA possono venire alla luce e che qui in Italia non ci è nemmeno concesso di sognare. Un tempio della musica e della creatività al cui interno erano ospitati uffici di case discografiche, studi di registrazione e litri di inchiostro usato per scrivere un numero inimmaginabile di canzoni che hanno cambiato il corso della musica. Tra coloro che registrarono, scrissero, stipularono contratti, pubblicarono e financo si accasarono nel Brill Building, stabilendo colà il loro quartier generale, possono essere annoverati musicisti e autori dal nome altisonante come Benny Goodman, Glenn Miller, Tommy Dorsey, Burt Bacharach, Neil Diamond, Neil Sedaka, Elvis Presley, Sonny Bono, Liza Minnelli, Phil Spector, Paul Simon, Laura Nyro e millanta altri che non cito per non indurre chi legge ad aspettarmi sotto casa con una pistola carica. Tra di essi anche i coniugi Carole King e Jerry Goffin, autori di tanti e tali successi (anche in proprio, vedi la pluridecennale carriera di Carole King come cantautrice) che il titolo di padri nobili della canzone americana è ampiamente giustificato.

Mauro Rollin' On The River Uliana





3 commenti:

  1. Meravigliosa recensione!!! Grazie davvero, hai reso giustizia ai sempre bistrattati VF, non compresi allora e ancora oggi non valutati a dovere, vedi recensioni in rete di chi evidentemente stravede solo per i Thread Zeppelin e gruppi "schierati" et similia e c'è pure la claque di c.....i che lo omaggia di sperticate lodi. Vabbè, io mi tengo la tua rece e....Vanilla Fudge 4ever!

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  2. Grazie davvero a te. Sono commenti come il tuo che mi danno la forza per continuare in questa "missione" faticosa ma affascinante. Spero che tu continui a seguirmi, anche perché ho avuto la malsana idea di mettere in cantiere un numero assurdo di recensioni che non so nemmeno se avrò vita sufficiente per completare. D'altronde questo succede a chi è vittima di quel meraviglioso virus chiamato musica (altro che Covid!!!). Attendo ulteriori tuoi commenti. Ciao.

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  3. Straordinaria disamina..quando e' uscita some Velvet morning ..appena fatti 19 anni mi sono recato ad acquistare il 45 che ancora possiedo,e ironia altro acquirente Pietruccio Dik Dik stesso negozio in Piazza Cordusio a milano.che mi disse ma che roba e'...

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