C’erano
una volta gli anni ’80. Anni generalmente piuttosto invisi al popolo del rock,
in quanto dominati da fenomeni musicali non precisamente edificanti.
Onestamente, chi mai si è infiammato di fronte ad un disco di tecno-pop? Chi
mai ha versato lacrime di fronte al declino di gente come i Duran Duran?
Fortunatamente, rovistando con cura fra tanta plastica, anche negli anni ’80
qualcosa di appagante poteva essere trovato. Magari era necessario volgere lo
sguardo verso terre sperdute, desertiche come quelle che costituiscono il
sud-ovest degli States. Lì, tra cactus e pietraie potevi trovare gemme preziose come i Thin White Rope o i Giant Sand, gente forgiata da un ambiente
duro che trovava rifugio in musiche meravigliose. Proprio dagli ultimi
fuoriescono Joey Burns e Joe
Convertino, per dare vita nel 1996, a Tucson, Arizona, ai Calexico. Dopo un
esordio nel 1995 che di nome faceva Spoke, nel 1998 i nostri giungono
già al capolavoro. Perchè tale è Black Light, concept album evocativo
affogato in un’ atmosfera messicana, scaldato dalla sabbia desertica e che
possiede quella carica giusta di malinconia cui è facile abbandonarsi. Tra una
manciata di introverse ballate acustiche, spiccano le sinuose movenze dello
strumentale esoterico Gypsy’s Course che in apertura di disco ci
investe, stordendoci, con un ubriacante fraseggio di fisarmonica e violoncello.
Una bellissima orchidea sbocciata sul terreno di una soave tetraggine
post-moderna che va ad arricchire un’opera irrinuciabile.
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