Se provate a gettare la rete
nelle turbolente acque della produzione rock di un anno fatidico quale il 1968
con l’intento di catturare i “pesci” più duri e cazzuti, vi renderete conto che
in fatto di martellamenti e ustioni in salsa hard rock quel mare, per altri
versi turbinoso e sincretico all’ennesima potenza, non è poi così pescoso come
viceversa si sarebbe portati a pensare; e quando isserete a bordo il pescato vi
troverete di fronte ad un bottino tutt’altro che pingue e ridondante, anzi. E’
comunque più che sufficiente un brano killer e fucking loud come Born To Be Wild per
iscrivere gli Steppenwolf targati 1968 come gruppo fondamentale tra quelli
maggiormente incazzati e dall’approccio più fisico. E non avessero fatto altro
all’infuori di cotanto possente anthem, non avessero inventato che quel riff
selvaggio e ottundente, ciò sarebbe più che sufficiente ad assicurare loro
un’arruolamento definitivo tra le truppe d’assalto del rock più puntuto e
muscolare, conferendo loro lo status di gruppo imprescindibile.
La storia della band ha radici profonde,
profondissime anzi, visto che le prime incerte polle d’acqua sorgiva che
sarebbero in seguito diventati gli Steppenwolf iniziano a sgorgare nel 1964,
allorquando tali Sparrows da Oshawa, Ontario, Canada, complice la British
Invasion di Beatles, Rolling Stones, Kinks e compagnia “beatlica” che
fulminò il Nord America in quell’anno fatale, intravedono in fondo al viale la
possibilità di agguantare la tanto agognata celebrità, emulando i nuovi eroi britannici. Caso
vuole che li capitanasse proprio un suddito d’Albione emigrato in quelle
contrade: tale Jack London (al secolo Dave Marden). Questo particolare viene
abilmente sfruttato dalla band che, nell’intento di battere il ferro mentre è
caldo dandosi una connotazione esotica, pensa bene di spacciarsi per un gruppo
britannico arrivato in Canada a diffondere il nuovo verbo nato tra Mersey e
Tamigi. Il resto della truppa era composto da Bruce Palmer, futuro bassista dei
Buffalo Springfield e titolare nel 1970 di The Cycle Is Complete, uno
dei frutti più succulenti che l’euforia creativa westcoastiana avrebbe regalato
al mondo, C. J. Feeney alle tastiere, Jerry Edmonton (al secolo Gerald
McCrohan) alla batteria (posto che avrebbe continuato a conservare anche dopo
la trasformazione degli Sparrows in Steppenwolf) ed il fratello Dennis Edmonton
(al secolo Dennis Eugene McCrohan), conosciuto anche con lo stage name
di Mars Bonfire. Dennis lascierà il gruppo nel 1967 per abbracciare una
carriera solista che avrebbe fruttato un paio di album (Mars Bonfire del
1968 e Faster Than The Speed Of Life del 1969) e continuando a
collaborare con gli stessi Steppenwolf fino al 1975 (è proprio lui, tra
l’altro, l’autore di Born To Be Wild). Contemporaneamente approda
alla corte di una delle teste più matte e creativamente incontinenti mai
partorite oltreatlantico: Kim Fowley, genio e sregolatezza, il bad boy
del rock, nonché gioiello umano talmente raro, e per questo ancor più prezioso, che così in quei giorni ebbe a definire sé stesso: “Io sono le mente di un
mostro nel corpo di un ragazzo”. Il frutto più diretto di tale
collaborazione è contenuto in Born To Be Wild, album del 1968, dove la
fatidica canzone che da il titolo all’album stesso è posta in bella evidenza
come opening track e restituita in una sensuale e cadenzata versione
strumentale dominata dall’Hammond di Fowley e punteggiata da una sezione fiati à
la Mar-Keys. Altri walzer e calembours rimarchevoli sono una Hello
I Love You dei Doors abilmente giocata sull’interazione tra chitarra fuzz e
piano elettrico, una Soul Limbo di Booker T. & The M.G.’s che rende
sentito omaggio al suono Stax, un’astuta e ammiccante Pictures Of Matchstick
Men dal repertorio dei primi Status Quo (tutto a dimostrare come Fowley sia un convinto fautore della disorganizzazione fantastica della musica) ed una
sorprendente Sunshine Of Your Love dei Cream, sottoposta anch’essa al
trattamento di anarchisme fowleyano che suona sempre lascivo, repellente
e ad altissimo potenziale d’intrattenimento.
Tornando agli Sparrows, tra il 1964 ed il 1965 la
band dà alle stampe le sue prime testimonianze musicali che si sostanziano in
una manciata di singoli ed un album dal titolo di Jack London And The
Sparrows. Tutti vinili, questi, che scontano un’ovvia immaturità attraverso
canzoni dall’abito semplice che pagano un inevitabile e pesante pegno al beat
albionico. Il fatto saliente, però, sta negli avvicendamenti a livello di
formazione: oltre a sostituire al basso Bruce Palmer con Nick St. Nicholas, e
passare le tastiere dalle mani di J. C. Feeney a quelle di Art Ayre prima e
Goldy McJohn poi, il line up registra l’ingresso in formazione di John
Kay (vero nome Joachim Fritz Krauledat), passo
fondamentale verso la più smagliante edizione del gruppo. Il giovane, allora
ventunenne, era nato nell’aprile del 1944 a Tilsit in Germania: Prussia
Orientale per la precisione, martoriata regione che alla fine del secondo
conflitto mondiale venne occupata delle truppe sovietiche e conglobata parte
nella Polonia e parte nel U.R.S.S. Oggi rimane una delle ultime vestigia degli
accordi di Yalta come enclave di Kaliningrad (ex Konigsberg), chiusa tra
Polonia e Lituania e completamente staccata territorialmente dal resto della
Russia. All’incolpevole Joachim non venne risparmiata nessuna delle afflizioni
che purtroppo la storia ci ha costretto a registrare in momenti di tale
drammatica portata. Per prima cosa nacque orfano del padre Fritz, ucciso dai
russi un mese prima che lui nascesse, poi, nel gelido inverno del 1945 (a
nemmeno un anno di età, quindi), di fronte all’avanzata inesorabile delle
truppe sovietiche che provvedevano all’evacuazione sistematica della Prussia,
mettendo in atto una drammatica operazione di pulizia etnica, iniziò con la
madre la fuga verso ovest giungendo ad Arnstadt, inizialmente sotto il
controllo americano. Ben presto però la città verrà fagocitata dalla Repubblica
Democratica Tedesca divenendone parte integrante e subendo l’occupazione delle
truppe di Stalin. Nel 1949 madre e figlio riescono ad attraversare la cortina
di ferro e raggiungono Hannover, come racconterà il nostro più avanti, nel
1970, nella toccante Renegade, commovente e drammatico grumo di vita
messo in musica in Steppenwolf 7. Ad Hannover il giovane Joachim
scruterà il divenire quotidiano apprendendo le notizie della rivolta in
Germania Est del 1953 e di quella ungherese del 1956, represse entrambe da
carri armati sovietici, fino a che, nel 1958, la famiglia riesce finalmente ad
organizzare la propria vita trasferendosi definitivamente in Canada.
Il giovanotto, cui evidentemente non mancavano né
personalità né tempra del guerriero, lui così forgiato e segnato nell’anima
dalla complessa trama delle drammatiche vicende che il fato ingrato gli aveva
riservato, non tarda ad agitare il bastone del comando detronizzando, tra il
’66 e il ’67, il vecchio leader della band, Jack London. Il quintetto si accasa
quindi con la CBS nel corso del 1966, si trasferisce a New York e per la major
registra i brani di John Kay & The Sparrows, viva e godibile
raccolta rock blues che gli scaltri executive della casa discografica
acconsentiranno a pubblicare nel 1968, solo dopo il successo arriso agli
Steppenwolf con la loro Born To be Wild. Nel 2001 l’album verrà
riportato alla luce (con l’aggiunta di una discreta messe - ben otto - di
carteggi inediti) dai solerti “archeologi” della mai troppo lodata Repertoire
che, incaricati di fornire i pani e i pesci per lo schizoide banchetto delle
ristampe, allestiranno una gustosa istantanea che, saggiata oggi, ha l’aspetto
del reperto proveniente da epoche lontane, tanto potrebbe suonare bizzarro e
datato alle orecchie del nuovo millennio oggi al potere. Attenzione, però: ciò
non significa che l’abito sonoro della band si risolva in un che di stanco e
scipito. Certo, il tempo rock-blues che lo ha generato e cui la musica
giovanile pose mano nella sua migliore stagione, è trascorso da un pezzo: i
principali capostipiti del genere han sciolto la lega da anni e la maggior
parte di loro son passati a miglior vita. Pure, questo suono scarno e nervoso
sa ancora dire la sua nel concitato dibattito intorno alla musica ai giorni di
Hendrix, suscitando anche oggi non pochi consensi.
John Kay & The Sparrows fa raccolta di piccoli pezzi
d’artigianato, luminosi nella loro tremenda forza qualitativa, in cui i nostri
fanno puntuale raccolta di molte indicazioni di Chicago Blues sparse sui libri
dell'epoca: come nell'iniziale Twisted, che può vantare bella forza
chitarristica e diabolico istinto rock-blues, nella classica Baby Please
Don’t Go, ripresa con un senso del blues filologicamente ineccepibile,
nella gustosa Bright Lights Big City, sintonizzata sulla stessa
frequenza della Butterfield Blues Band, nell’iper-classica Good Morning
Little Schoolgirl, restituita con la devozione dei discepoli e
nell’accattivante King Pin che altro non è se non I’m Your King Pin,
sgorgata dalla penna di un Manfred Mann in stato di grazia e contenuta in The
Five Faces Of Manfred Mann, album di debutto degli inglesi datato 1964.
Altri rivoli blues sono la concitata Square Headed People, portata in
gloria da un ottimo lavoro di slide, la profetica Goin’ To California,
scritta da John Kay himself e qui presente in due versioni, una delle quali
prende le mosse dal canone blues per arrischiati “voli” sul territorio della
nuova cultura. Ci sono inoltre l’immancabile Hoochie Coochie Man, devoto
omaggio a Muddy Waters e Willie Dixon che le conferirono lo status di standard
immortale e un’orgogliosa Goin’ Upstairs di John Lee Hooker, ove la band
allenta le briglie del suono farcendolo con un’aromatica punta di rock. Non è
questo l’unico episodio in cui la band si scatena in dichiarazioni di potenza e
liberazione energetica in nome del rock: accade in Down Goes Your Love Life,
fiero strillo sostenuto dalla scioltezza dei ritmi e punteggiato da
un’eloquente chitarra fuzz, oppure nell’accorata raccomandazione sessuale di Can’t
Make Love By Yourself, stigmatizzazione della masturbazione scritta
da Dennis Edmonton e banco di prova per la Born To Be Wild che verrà.
Astuta e ammiccante anche Too Late, siglata dal bassista Nick St. Nicholas, che scivola senza affanno
al ritmo sciolto di uno scafo sulla superficie di un mare in bonaccia, mentre
l’interessantissima Tighten Up Your Wig miscela gli inchiostri di rock e
blues mettendo in mostra un magistero strumentale che evidenzia la forza di un
collettivo che non teme di competere con i migliori strumentisti dell’epoca.
Non mancano, ovviamente, escursioni nel “paese di
Alice” o, se preferite, passeggiate sui
marciapiedi di Haight Asbury: le forme son piene e i colori accesi nella
muscolosa Green Bottle Lover, che nel segno dei Jefferson Airplane più
acidi consegna agli strumenti le suggestioni di Woodstock e Big Sur, mentre la
lenta e solenne Tomorrow’s A Ship rende deferente omaggio ai Mamas &
Papas con tanto di pausa à la Monday Monday. L’ala cherubina del west
coast sound si sostanzia in una Chasing Shadow con la band che maneggia
piccole magie come le tubular bells a far da sfondo, mentre la stralunata
melopea di Isn’t It Strange si immerge in allucinate atmosfere
psicotiche che sembrano proporsi come una sintesi tra i più stralunati e visionari
starsailors e i Velvet Underground più malati. Lascio intenzionalmente
in chiusura una scarnificata The Pusher che può a buon diritto essere
considerata la prima pietra dell’edificio musicale Steppenwolf. La troveremo
infatti nel loro primo album, mentre l’autore, Hoyt Axton, celerà pudicamente
la propria personale versione fino al 1971, allorché la includerà nel suo album
Joy To The World.
E’ da quest’ultima premessa che raggiunge
inevitabilmente le nostre narici l’acre odore di selvatico del “lupo della
steppa”, ché grandi novità e rivoluzioni copernicane si profilano all’orizzonte
degli Sparrow: infatti, dopo l’ennesimo cambio di formazione, Michael Monarch
al posto di Dennis Edmonton e Rushton Moreve al posto di Nick St. Nicholas, il
gruppo si assesta nella formazione definitiva, cambiano nome in Steppenwolf e
decide di muovere alla volta dei più dolci climi di California. E’ la fine
del ’67 e nel sacco della band vanno già materializzandosi gli eclatanti
clangori metallici di Born To Be Wild.
La canzone infatti scorrerà tumultuosamente,
contenuta nel primo omonimo album della band che era un
patchwork di pugnalate alla schiena e
di morsi all’intestino della West Coast. Band apocrifa, gli Steppenwolf,
non c’è dubbio, nel loro primo disco non si genuflettono davanti al verbo
psichedelico o al Frisco sound dalle inflessioni più elettriche. In fondo, gli rendono omaggio (e pure di straforo) nella sola The Ostrich, quasi sei
minuti di elettricità che si muovono con gusto e potenza sui tracciati che
saranno seguiti di lì a non molto anche dai Quicksilver di Who Do You Love,
per poi spegnersi in una cacofonia free-form paracadutata da chissà
dove. Il resto del programma è un blend sonoro che aggiorna le vecchie
ricette come i grandi cataloghi di blues, soul e rock’n’roll cucendo insieme un
vecchio slow di loro conoscenza come Hoochie Coochie Man, già nel
repertorio degli Sparrow, ma qui riproposta in un idioma elettrico che muove
con gusto sui tracciati strumentali di John Kay e dell’ineffabile tastierista
Goldy McJohn. Gli fa da
contraltare Your Wall’s Too High, cadenzato rock blues che sa filtrare
l’esuberanza propria del genere attraverso appropriati schemi e arrangiamenti,
grazie anche al puntiglioso lavoro di produzione di Gabriel Mekler. Il
produttore contribuisce, a quattro mani con John Kay, anche alla stesura di Everybody’s
Next One e Take What You Need, due brani onestamente dispensabili,
allestiti senza che mai salga il tono del discorso o si prospettino soluzioni
intriganti. Il tono invece sale quando i nostri evocano, omaggiandolo, un fior
di sacerdote del rock‘n’roll come Chuck Berry, cui dedicano la loro Berry
Rides Again, scanzonato jive in cui sciacquano tutti, ma proprio
tutti, i trucchi e i temi del vecchio Chuck. Come mestieranti ormai consumati,
nonostante Steppenwolf sia l’album di esordio, san “coprirsi”
attentamente anche sul versante rhythm ‘n’ blues esponendo in vetrina una Sookie
Sookie forte e accigliata, cover dal sangue ribollente che interpreta il
mondo con la chiave dell’eccitazione e che sta a testimoniare l’entusiasmo e la
grinta di un Don Covay targato 1966. Non volendo però rinunciare a fare estesa
cronaca mi sta a cuore informare di come il gioco degli omaggi incrociati via
Steppenwolf tra mondo rock, jazz e errebi ci apra più larghi orizzonti: ecco
allora Grant Green, chitarrista tra i più belli della storia del jazz che tra i
fini tratteggi ed i piacevoli abiti strumentali del suo album Alive! del
1970, allungherà a dismisura gli spazi edificando una Sookie Sookie
scorrevole e legata al grande “dizionario del soul” per il cordone del ritmo.
Undici minuti aggiustati in chiave acid jazz quando tale definizione non era
nemmeno nel regno delle ipotesi. Gli tien bordone Wilson Pickett, il wicked
guy della black music, che scopre la violenza del rock nella sua forma
elementare e che chiuderà il cerchio da par suo aggredendo e annichilendo chi
ascolta con un’adrenalinica e selvaggia rendition di Born To Be Wild sul
suo album Hey Jude del 1969. Non manca comunque il lato soft della band
che si sostanzia in una A Girl I Knew tenera e suadente che illustra con
fine tratteggio le virtù di una lei per poi colpire di scioltezza con feedback
e lame di chitarra fino a sciogliersi in un anticlimax finale che ha proprio
l’aspetto di un’esalazione.
Last but not least, i nostri arrivano al nocciolo della
questione e si dimostrano anche capaci di parteggiare senza mezzi termini per
il suono duro e spietato. Non sembri una contraddizione, ma a questa categoria
si iscrive anche la lenta Desperation, ballatona hard da accendini
accesi nel buio, una Knocking On Heaven’s Door dei Guns‘n’Roses
ante-litteram, che sparge manciate di benefico
conforto e good vibrations per gli astanti e trova la band à son aise
con quelli che nel giro di pochi anni diventeranno i più vieti trucchi della
musica hard. Ancora stile elettrico ma diversamente formulato per The Pusher,
sulla quale la band ritorna dopo un anno per meglio definire il suono
Steppenwolf. Il nuovo trattamento cui viene sottoposta la song di Hoyt Axton ci
rivela il passo in avanti compiuto dalla band che rimixa la complessa materia
della carne nuda e del disagio esistenziale affinché i segni della perversione
e della finitudine abbiano il sopravvento. E’ una ballata perversa di
velvettiana memoria, una poesia malata che pone l’assurdo distinguo tra uno
spacciatore che ti procura dell’erba ed un figlio di puttana che ti vende
l’eroina strafottendosene della possibilità che l’indomani mattina potresti
essere morto. Per l’operazione i nostri impiegano tempere cupe, ogni sorta di
connessione luciferina, procedendo per spigoli e John Kay (un Jagger in acido o se preferite un Lou Reed morso d’inquietudine) si macera invano sporcando voce e strumenti
di quell’infelice materia.
E’ però con Born To Be Wild che gli
Steppenwolf oltrepassano le “porte della percezione” sonica combinando fuochi e
sangue. In essa, infatti, optano per uno stile più crudo, brutale, animato dal sacro fuoco del
rock e tramutando certi grumi rock blues in solidi blocchi di suono. Inserita
l’anno successivo nella colonna sonora di Easy Rider, il road movie
definitivo della storia del cinema con Peter Fonda e Dennis Hopper, questa song elettrica e dura
di accordi scheggiati diventerà l’inno di ogni biker ed il perfetto soundtrack per i chilometri macinati su una freeway californiana da un renagade
che cavalca la sua Harley Davidson. Una great ball of fire che poi è la
stessa di certe incisioni dei Sonics, dei coevi Amboy Dukes di Ted Nugent o di
certi clangori con cui gruppi come i Deep Purple o fratellini minori come i Gun
stavano mettendo a ferro e fuoco le rive del Tamigi. Per non parlare di Mr.
James Marshall Hendrix che già da un paio di anni, come un lungo joint di marijuana, volava
con la sua musica dentro il cervello del popolo rock scavando una lunga strada
lastricata di riff infiammati e stoccate chitarristiche infide e taglienti.
Tutta roba tosta, insomma. Roba capace di far voltare la critica, un rock maschio che osava
tirare i peli al maestro Elvis Aaron e prendere per il bavero un pubblico
intento a confezionare ghirlande di fiori psichedelici raccolti dai bucolici
prati di Laurel Canyon. Come si vede, riferimenti più che qualificanti quelli
di cui sopra, che stanno a dimostrare come nulla si inventi e tutto si
trasformi. Così sui bagliori sonici dei signori appena citati e dopo averne
metabolizzato il drive in calore, sublimato lo spirito e reinventato la
lettera, il
gruppo canadese ci
ha costruito sopra uno sferragliante
sabbah di elettricità e devastazione amplificata, in un frenetico ripercorrere
le hot roads dei favolosi sixties. Loro non lo sapevano, ma così facendo
l’heavy metal era stato inventato. “I like smoke and
lightning. Heavy
metal thunder”
declama ad un certo punto del brano John Kay, senza poter nemmeno lontanamente
immaginare che di lì ad una manciata di mesi il destino di quella felice
intuizione lessicale sarebbe stato quello di contraddistinguere per tutti gli
anni a venire un intero genere musicale.
Piace ed elettrizza la cadenza selvatica del pezzo,
da ballo sciamanico in qualche juke joint oscuro from dusk till dawn:
chitarra, basso e
batteria che battono un tempo frenetico con l’organo ad allargare la
prospettiva e a dilatare la sfera delle emozioni, fino a diventare una tempesta
sonora tremendamente incalzante, fatta di lapilli musicali che mirano verso
l’alto e rendono adrenalinica ogni nota. Sopra questo inferno di rock blues
volteggia, con la ruvidezza di maniere degna di un incubo metallurgico, la voce
rozza e sporca quanto
basta di John Kay, una delle più abbacinanti ugole della West Coast,
una sulfurea e ruvida vocalità
dall’eloquenza virile che scuote e sconquassa fin nel midollo: un bel grido
rock, insomma.
La farfalla esce così dal bozzolo, John Kay è il
nuovo “Lucignolo” del rock californiano, cattivo e malizioso quanto possono
consentire le bisogne del consumo, e d’un sol botto guadagna posizioni su
posizioni nella gerarchia ufficiale del rock che conta. Anche l’iconografia
certifica la nuova situazione. Basta guardare le foto della band, dove Kay,
torvo ed inquietante, sembra affrontare il mondo a muso duro, con punte di
spavalda asprezza e col cipiglio di un tipaccio poco raccomandabile che nel
nome del bad‘n’roll nessuno vedrà mai senza occhiali da sole. Ma è
solo un gioco, un artificio che deve dar fastidio e affascinare in misura
eguale, giacché il nostro è in realtà affetto sin dalla nascita da
acromatopsia, rarissima patologia genetica che affligge soltanto 40.000 persone
in tutto il mondo ed i cui sintomi, acuiti dalla piena luce del sole o di
intense fonti luminose artificiali, sono l’impossibilità di distinguere i
colori. Solo bianco, nero e alcune sfumature di grigio. Altro che vezzo del bel
tenebroso con leggera smorfia di cattiveria all’angolo del labbro: a causa
delle sue condizioni di salute, John è stato dichiarato legalmente cieco. Certo
una beffarda ironia della sorte per uno che vive tra i fioriti colori della
California.
Ecco, tutto questo è Born To Be Wild (e dintorni):
niente di più, niente di meno. E se quanto letto in codeste righe è riuscito a solleticare i vostri istinti più animaleschi, compratelo,
registratelo, scaricatelo e questo anthemico rock motociclistico vi
perseguiterà senza darvi pace. A buon intenditor abbiamo già offerto sin troppe
parole. Steppenwolf, il “lupo della
steppa”: nato per essere selvaggio e che il diavolo se lo porti.
Mauro Rollin On The River Uliana
(1) Lo stesso trattamento di molatura e dilatazione viene riservato da Grant Green anche a Let The Music Take Your Mind dal primo omonimo album del ’69 di Kool & The Gang, Hey, Western Union Man di William Bell e It’s Your Thing degli Isley Brothers
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