domenica 28 luglio 2019

Born To Be Wild - Steppenwolf (1968)





Se provate a gettare la rete nelle turbolente acque della produzione rock di un anno fatidico quale il 1968 con l’intento di catturare i “pesci” più duri e cazzuti, vi renderete conto che in fatto di martellamenti e ustioni in salsa hard rock quel mare, per altri versi turbinoso e sincretico all’ennesima potenza, non è poi così pescoso come viceversa si sarebbe portati a pensare; e quando isserete a bordo il pescato vi troverete di fronte ad un bottino tutt’altro che pingue e ridondante, anzi. E’ comunque più che sufficiente un brano killer e fucking loud come Born To Be Wild per iscrivere gli Steppenwolf targati 1968 come gruppo fondamentale tra quelli maggiormente incazzati e dall’approccio più fisico. E non avessero fatto altro all’infuori di cotanto possente anthem, non avessero inventato che quel riff selvaggio e ottundente, ciò sarebbe più che sufficiente ad assicurare loro un’arruolamento definitivo tra le truppe d’assalto del rock più puntuto e muscolare, conferendo loro lo status di gruppo imprescindibile.



Epica e selvaggia. Bruciante come un tizzone ardente. La mitica Born To Be Wild, pubblicata il 15 luglio 1968 anticipando di almeno un semestre il fuoco ledzeppeliniano ed altri ganci al calor bianco, è musica di nervi e visceri, nonché la più probante delle dimostrazioni di quantocanadesi (trapiantati in California) Steppenwolf fossero ampiamente forniti di sangre, corazon y cojones. Già, perché non si capisce di cosa dovrebbe essere dotato se non  di attributi un gruppo che in pieno flower power licenzia un brano come questo, fatto di chitarre squassanti che sfarfallano al di sopra dei campi fioriti della sognata California come le valvole di un motore in fuori giri.
La storia della band ha radici profonde, profondissime anzi, visto che le prime incerte polle d’acqua sorgiva che sarebbero in seguito diventati gli Steppenwolf iniziano a sgorgare nel 1964, allorquando tali Sparrows da Oshawa, Ontario, Canada, complice la British Invasion di Beatles, Rolling Stones, Kinks e compagnia “beatlica” che fulminò il Nord America in quell’anno fatale, intravedono in fondo al viale la possibilità di agguantare la tanto agognata celebrità, emulando i nuovi eroi britannici. Caso vuole che li capitanasse proprio un suddito d’Albione emigrato in quelle contrade: tale Jack London (al secolo Dave Marden). Questo particolare viene abilmente sfruttato dalla band che, nell’intento di battere il ferro mentre è caldo dandosi una connotazione esotica, pensa bene di spacciarsi per un gruppo britannico arrivato in Canada a diffondere il nuovo verbo nato tra Mersey e Tamigi. Il resto della truppa era composto da Bruce Palmer, futuro bassista dei Buffalo Springfield e titolare nel 1970 di The Cycle Is Complete, uno dei frutti più succulenti che l’euforia creativa westcoastiana avrebbe regalato al mondo, C. J. Feeney alle tastiere, Jerry Edmonton (al secolo Gerald McCrohan) alla batteria (posto che avrebbe continuato a conservare anche dopo la trasformazione degli Sparrows in Steppenwolf) ed il fratello Dennis Edmonton (al secolo Dennis Eugene McCrohan), conosciuto anche con lo stage name di Mars Bonfire. Dennis lascierà il gruppo nel 1967 per abbracciare una carriera solista che avrebbe fruttato un paio di album (Mars Bonfire del 1968 e Faster Than The Speed Of Life del 1969) e continuando a collaborare con gli stessi Steppenwolf fino al 1975 (è proprio lui, tra l’altro, l’autore di Born To Be Wild). Contemporaneamente approda alla corte di una delle teste più matte e creativamente incontinenti mai partorite oltreatlantico: Kim Fowley, genio e sregolatezza, il bad boy del rock, nonché gioiello umano talmente raro, e per questo ancor più prezioso, che così in quei giorni ebbe a definire sé stesso: “Io sono le mente di un mostro nel corpo di un ragazzo”. Il frutto più diretto di tale collaborazione è contenuto in Born To Be Wild, album del 1968, dove la fatidica canzone che da il titolo all’album stesso è posta in bella evidenza come opening track e restituita in una sensuale e cadenzata versione strumentale dominata dall’Hammond di Fowley e punteggiata da una sezione fiati à la Mar-Keys. Altri walzer e calembours rimarchevoli sono una Hello I Love You dei Doors abilmente giocata sull’interazione tra chitarra fuzz e piano elettrico, una Soul Limbo di Booker T. & The M.G.’s che rende sentito omaggio al suono Stax, un’astuta e ammiccante Pictures Of Matchstick Men dal repertorio dei primi Status Quo (tutto a dimostrare come Fowley sia un convinto fautore della disorganizzazione fantastica della musica) ed una sorprendente Sunshine Of Your Love dei Cream, sottoposta anch’essa al trattamento di anarchisme fowleyano che suona sempre lascivo, repellente e ad altissimo potenziale d’intrattenimento.
Tornando agli Sparrows, tra il 1964 ed il 1965 la band dà alle stampe le sue prime testimonianze musicali che si sostanziano in una manciata di singoli ed un album dal titolo di Jack London And The Sparrows. Tutti vinili, questi, che scontano un’ovvia immaturità attraverso canzoni dall’abito semplice che pagano un inevitabile e pesante pegno al beat albionico. Il fatto saliente, però, sta negli avvicendamenti a livello di formazione: oltre a sostituire al basso Bruce Palmer con Nick St. Nicholas, e passare le tastiere dalle mani di J. C. Feeney a quelle di Art Ayre prima e Goldy McJohn poi, il line up registra l’ingresso in formazione di John Kay (vero nome Joachim Fritz Krauledat), passo fondamentale verso la più smagliante edizione del gruppo. Il giovane, allora ventunenne, era nato nell’aprile del 1944 a Tilsit in Germania: Prussia Orientale per la precisione, martoriata regione che alla fine del secondo conflitto mondiale venne occupata delle truppe sovietiche e conglobata parte nella Polonia e parte nel U.R.S.S. Oggi rimane una delle ultime vestigia degli accordi di Yalta come enclave di Kaliningrad (ex Konigsberg), chiusa tra Polonia e Lituania e completamente staccata territorialmente dal resto della Russia. All’incolpevole Joachim non venne risparmiata nessuna delle afflizioni che purtroppo la storia ci ha costretto a registrare in momenti di tale drammatica portata. Per prima cosa nacque orfano del padre Fritz, ucciso dai russi un mese prima che lui nascesse, poi, nel gelido inverno del 1945 (a nemmeno un anno di età, quindi), di fronte all’avanzata inesorabile delle truppe sovietiche che provvedevano all’evacuazione sistematica della Prussia, mettendo in atto una drammatica operazione di pulizia etnica, iniziò con la madre la fuga verso ovest giungendo ad Arnstadt, inizialmente sotto il controllo americano. Ben presto però la città verrà fagocitata dalla Repubblica Democratica Tedesca divenendone parte integrante e subendo l’occupazione delle truppe di Stalin. Nel 1949 madre e figlio riescono ad attraversare la cortina di ferro e raggiungono Hannover, come racconterà il nostro più avanti, nel 1970, nella toccante Renegade, commovente e drammatico grumo di vita messo in musica in Steppenwolf 7. Ad Hannover il giovane Joachim scruterà il divenire quotidiano apprendendo le notizie della rivolta in Germania Est del 1953 e di quella ungherese del 1956, represse entrambe da carri armati sovietici, fino a che, nel 1958, la famiglia riesce finalmente ad organizzare la propria vita trasferendosi definitivamente in Canada.
Il giovanotto, cui evidentemente non mancavano né personalità né tempra del guerriero, lui così forgiato e segnato nell’anima dalla complessa trama delle drammatiche vicende che il fato ingrato gli aveva riservato, non tarda ad agitare il bastone del comando detronizzando, tra il ’66 e il ’67, il vecchio leader della band, Jack London. Il quintetto si accasa quindi con la CBS nel corso del 1966, si trasferisce a New York e per la major registra i brani di John Kay & The Sparrows, viva e godibile raccolta rock blues che gli scaltri executive della casa discografica acconsentiranno a pubblicare nel 1968, solo dopo il successo arriso agli Steppenwolf con la loro Born To be Wild. Nel 2001 l’album verrà riportato alla luce (con l’aggiunta di una discreta messe - ben otto - di carteggi inediti) dai solerti “archeologi” della mai troppo lodata Repertoire che, incaricati di fornire i pani e i pesci per lo schizoide banchetto delle ristampe, allestiranno una gustosa istantanea che, saggiata oggi, ha l’aspetto del reperto proveniente da epoche lontane, tanto potrebbe suonare bizzarro e datato alle orecchie del nuovo millennio oggi al potere. Attenzione, però: ciò non significa che l’abito sonoro della band si risolva in un che di stanco e scipito. Certo, il tempo rock-blues che lo ha generato e cui la musica giovanile pose mano nella sua migliore stagione, è trascorso da un pezzo: i principali capostipiti del genere han sciolto la lega da anni e la maggior parte di loro son passati a miglior vita. Pure, questo suono scarno e nervoso sa ancora dire la sua nel concitato dibattito intorno alla musica ai giorni di Hendrix, suscitando anche oggi non pochi consensi.
John Kay & The Sparrows fa raccolta di piccoli pezzi d’artigianato, luminosi nella loro tremenda forza qualitativa, in cui i nostri fanno puntuale raccolta di molte indicazioni di Chicago Blues sparse sui libri dell'epoca: come nell'iniziale Twisted, che può vantare bella forza chitarristica e diabolico istinto rock-blues, nella classica Baby Please Don’t Go, ripresa con un senso del blues filologicamente ineccepibile, nella gustosa Bright Lights Big City, sintonizzata sulla stessa frequenza della Butterfield Blues Band, nell’iper-classica Good Morning Little Schoolgirl, restituita con la devozione dei discepoli e nell’accattivante King Pin che altro non è se non I’m Your King Pin, sgorgata dalla penna di un Manfred Mann in stato di grazia e contenuta in The Five Faces Of Manfred Mann, album di debutto degli inglesi datato 1964. Altri rivoli blues sono la concitata Square Headed People, portata in gloria da un ottimo lavoro di slide, la profetica Goin’ To California, scritta da John Kay himself e qui presente in due versioni, una delle quali prende le mosse dal canone blues per arrischiati “voli” sul territorio della nuova cultura. Ci sono inoltre l’immancabile Hoochie Coochie Man, devoto omaggio a Muddy Waters e Willie Dixon che le conferirono lo status di standard immortale e un’orgogliosa Goin’ Upstairs di John Lee Hooker, ove la band allenta le briglie del suono farcendolo con un’aromatica punta di rock. Non è questo l’unico episodio in cui la band si scatena in dichiarazioni di potenza e liberazione energetica in nome del rock: accade in Down Goes Your Love Life, fiero strillo sostenuto dalla scioltezza dei ritmi e punteggiato da un’eloquente chitarra fuzz, oppure nell’accorata raccomandazione sessuale di Can’t Make Love By Yourself, stigmatizzazione della masturbazione scritta da Dennis Edmonton e banco di prova per la Born To Be Wild che verrà. Astuta e ammiccante anche Too Late, siglata dal bassista  Nick St. Nicholas, che scivola senza affanno al ritmo sciolto di uno scafo sulla superficie di un mare in bonaccia, mentre l’interessantissima Tighten Up Your Wig miscela gli inchiostri di rock e blues mettendo in mostra un magistero strumentale che evidenzia la forza di un collettivo che non teme di competere con i migliori strumentisti dell’epoca.
Non mancano, ovviamente, escursioni nel “paese di Alice” o, se preferite, passeggiate sui marciapiedi di Haight Asbury: le forme son piene e i colori accesi nella muscolosa Green Bottle Lover, che nel segno dei Jefferson Airplane più acidi consegna agli strumenti le suggestioni di Woodstock e Big Sur, mentre la lenta e solenne Tomorrow’s A Ship rende deferente omaggio ai Mamas & Papas con tanto di pausa à la Monday Monday. L’ala cherubina del west coast sound si sostanzia in una Chasing Shadow con la band che maneggia piccole magie come le tubular bells a far da sfondo, mentre la stralunata melopea di Isn’t It Strange si immerge in allucinate atmosfere psicotiche che sembrano proporsi come una sintesi tra i più stralunati e visionari starsailors e i Velvet Underground più malati. Lascio intenzionalmente in chiusura una scarnificata The Pusher che può a buon diritto essere considerata la prima pietra dell’edificio musicale Steppenwolf. La troveremo infatti nel loro primo album, mentre l’autore, Hoyt Axton, celerà pudicamente la propria personale versione fino al 1971, allorché la includerà nel suo album Joy To The World.
E’ da quest’ultima premessa che raggiunge inevitabilmente le nostre narici l’acre odore di selvatico del “lupo della steppa”, ché grandi novità e rivoluzioni copernicane si profilano all’orizzonte degli Sparrow: infatti, dopo l’ennesimo cambio di formazione, Michael Monarch al posto di Dennis Edmonton e Rushton Moreve al posto di Nick St. Nicholas, il gruppo si assesta nella formazione definitiva, cambiano nome in Steppenwolf e decide di muovere alla volta dei più dolci climi di California. E’ la fine del ’67 e nel sacco della band vanno già materializzandosi gli eclatanti clangori metallici di Born To Be Wild.
La canzone infatti scorrerà tumultuosamente, contenuta nel primo omonimo album della band che era un patchwork di pugnalate alla schiena e di morsi all’intestino della West Coast. Band apocrifa, gli Steppenwolf, non c’è dubbio, nel loro primo disco non si genuflettono davanti al verbo psichedelico o al Frisco sound dalle inflessioni più elettriche. In fondo, gli rendono omaggio (e pure di straforo) nella sola The Ostrich, quasi sei minuti di elettricità che si muovono con gusto e potenza sui tracciati che saranno seguiti di lì a non molto anche dai Quicksilver di Who Do You Love, per poi spegnersi in una cacofonia free-form paracadutata da chissà dove. Il resto del programma è un blend sonoro che aggiorna le vecchie ricette come i grandi cataloghi di blues, soul e rock’n’roll cucendo insieme un vecchio slow di loro conoscenza come Hoochie Coochie Man, già nel repertorio degli Sparrow, ma qui riproposta in un idioma elettrico che muove con gusto sui tracciati strumentali di John Kay e dell’ineffabile tastierista Goldy McJohn. Gli fa da contraltare Your Wall’s Too High, cadenzato rock blues che sa filtrare l’esuberanza propria del genere attraverso appropriati schemi e arrangiamenti, grazie anche al puntiglioso lavoro di produzione di Gabriel Mekler. Il produttore contribuisce, a quattro mani con John Kay, anche alla stesura di Everybody’s Next One e Take What You Need, due brani onestamente dispensabili, allestiti senza che mai salga il tono del discorso o si prospettino soluzioni intriganti. Il tono invece sale quando i nostri evocano, omaggiandolo, un fior di sacerdote del rock‘n’roll come Chuck Berry, cui dedicano la loro Berry Rides Again, scanzonato jive in cui sciacquano tutti, ma proprio tutti, i trucchi e i temi del vecchio Chuck. Come mestieranti ormai consumati, nonostante Steppenwolf sia l’album di esordio, san “coprirsi” attentamente anche sul versante rhythm ‘n’ blues esponendo in vetrina una Sookie Sookie forte e accigliata, cover dal sangue ribollente che interpreta il mondo con la chiave dell’eccitazione e che sta a testimoniare l’entusiasmo e la grinta di un Don Covay targato 1966. Non volendo però rinunciare a fare estesa cronaca mi sta a cuore informare di come il gioco degli omaggi incrociati via Steppenwolf tra mondo rock, jazz e errebi ci apra più larghi orizzonti: ecco allora Grant Green, chitarrista tra i più belli della storia del jazz che tra i fini tratteggi ed i piacevoli abiti strumentali del suo album Alive! del 1970, allungherà a dismisura gli spazi edificando una Sookie Sookie scorrevole e legata al grande “dizionario del soul” per il cordone del ritmo. Undici minuti aggiustati in chiave acid jazz quando tale definizione non era nemmeno nel regno delle ipotesi. Gli tien bordone Wilson Pickett, il wicked guy della black music, che scopre la violenza del rock nella sua forma elementare e che chiuderà il cerchio da par suo aggredendo e annichilendo chi ascolta con un’adrenalinica e selvaggia rendition di Born To Be Wild sul suo album Hey Jude del 1969. Non manca comunque il lato soft della band che si sostanzia in una A Girl I Knew tenera e suadente che illustra con fine tratteggio le virtù di una lei per poi colpire di scioltezza con feedback e lame di chitarra fino a sciogliersi in un anticlimax finale che ha proprio l’aspetto di un’esalazione.
Last but not least, i nostri arrivano al nocciolo della questione e si dimostrano anche capaci di parteggiare senza mezzi termini per il suono duro e spietato. Non sembri una contraddizione, ma a questa categoria si iscrive anche la lenta Desperation, ballatona hard da accendini accesi nel buio, una Knocking On Heaven’s Door dei Guns‘n’Roses ante-litteram, che sparge manciate di benefico conforto e good vibrations per gli astanti e trova la band à son aise con quelli che nel giro di pochi anni diventeranno i più vieti trucchi della musica hard. Ancora stile elettrico ma diversamente formulato per The Pusher, sulla quale la band ritorna dopo un anno per meglio definire il suono Steppenwolf. Il nuovo trattamento cui viene sottoposta la song di Hoyt Axton ci rivela il passo in avanti compiuto dalla band che rimixa la complessa materia della carne nuda e del disagio esistenziale affinché i segni della perversione e della finitudine abbiano il sopravvento. E’ una ballata perversa di velvettiana memoria, una poesia malata che pone l’assurdo distinguo tra uno spacciatore che ti procura dell’erba ed un figlio di puttana che ti vende l’eroina strafottendosene della possibilità che l’indomani mattina potresti essere morto. Per l’operazione i nostri impiegano tempere cupe, ogni sorta di connessione luciferina, procedendo per spigoli e John Kay (un Jagger in acido o se preferite un Lou Reed morso d’inquietudine) si macera invano sporcando voce e strumenti di quell’infelice materia.
E’ però con Born To Be Wild che gli Steppenwolf oltrepassano le “porte della percezione” sonica combinando fuochi e sangue. In essa, infatti, optano per uno stile più crudo, brutale, animato dal sacro fuoco del rock e tramutando certi grumi rock blues in solidi blocchi di suono. Inserita l’anno successivo nella colonna sonora di Easy Rider, il road movie definitivo della storia del cinema con Peter Fonda e Dennis Hopper, questa song elettrica e dura di accordi scheggiati diventerà l’inno di ogni biker ed il perfetto  soundtrack per i chilometri  macinati su una freeway californiana da un renagade che cavalca la sua Harley Davidson. Una great ball of fire che poi è la stessa di certe incisioni dei Sonics, dei coevi Amboy Dukes di Ted Nugent o di certi clangori con cui gruppi come i Deep Purple o fratellini minori come i Gun stavano mettendo a ferro e fuoco le rive del Tamigi. Per non parlare di Mr. James Marshall Hendrix che già da un paio di anni, come un lungo joint di marijuana, volava con la sua musica dentro il cervello del popolo rock scavando una lunga strada lastricata di riff infiammati e stoccate chitarristiche infide e taglienti. Tutta roba tosta, insomma. Roba capace di far voltare la critica, un rock maschio che osava tirare i peli al maestro Elvis Aaron e prendere per il bavero un pubblico intento a confezionare ghirlande di fiori psichedelici raccolti dai bucolici prati di Laurel Canyon. Come si vede, riferimenti più che qualificanti quelli di cui sopra, che stanno a dimostrare come nulla si inventi e tutto si trasformi. Così sui bagliori sonici dei signori appena citati e dopo averne metabolizzato il drive in calore, sublimato lo spirito e reinventato la lettera, il gruppo canadese ci ha costruito sopra uno sferragliante  sabbah di elettricità e devastazione amplificata, in un frenetico ripercorrere le hot roads dei favolosi sixties. Loro non lo sapevano, ma così facendo l’heavy metal era stato inventato. “I like smoke and lightning. Heavy metal thunder” declama ad un certo punto del brano John Kay, senza poter nemmeno lontanamente immaginare che di lì ad una manciata di mesi il destino di quella felice intuizione lessicale sarebbe stato quello di contraddistinguere per tutti gli anni a venire un intero genere musicale.
Piace ed elettrizza la cadenza selvatica del pezzo, da ballo sciamanico in qualche juke joint oscuro from dusk till dawn: chitarra, basso e batteria che battono un tempo frenetico con l’organo ad allargare la prospettiva e a dilatare la sfera delle emozioni, fino a diventare una tempesta sonora tremendamente incalzante, fatta di lapilli musicali che mirano verso l’alto e rendono adrenalinica ogni nota. Sopra questo inferno di rock blues volteggia, con la ruvidezza di maniere degna di un incubo metallurgico, la voce rozza e sporca quanto basta di John Kay, una delle più abbacinanti ugole della West Coast, una sulfurea e ruvida vocalità dall’eloquenza virile che scuote e sconquassa fin nel midollo: un bel grido rock, insomma.
La farfalla esce così dal bozzolo, John Kay è il nuovo “Lucignolo” del rock californiano, cattivo e malizioso quanto possono consentire le bisogne del consumo, e d’un sol botto guadagna posizioni su posizioni nella gerarchia ufficiale del rock che conta. Anche l’iconografia certifica la nuova situazione. Basta guardare le foto della band, dove Kay, torvo ed inquietante, sembra affrontare il mondo a muso duro, con punte di spavalda asprezza e col cipiglio di un tipaccio poco raccomandabile che nel nome del bad‘n’roll nessuno vedrà mai senza occhiali da sole. Ma è solo un gioco, un artificio che deve dar fastidio e affascinare in misura eguale, giacché il nostro è in realtà affetto sin dalla nascita da acromatopsia, rarissima patologia genetica che affligge soltanto 40.000 persone in tutto il mondo ed i cui sintomi, acuiti dalla piena luce del sole o di intense fonti luminose artificiali, sono l’impossibilità di distinguere i colori. Solo bianco, nero e alcune sfumature di grigio. Altro che vezzo del bel tenebroso con leggera smorfia di cattiveria all’angolo del labbro: a causa delle sue condizioni di salute, John è stato dichiarato legalmente cieco. Certo una beffarda ironia della sorte per uno che vive tra i fioriti colori della California.
Ecco, tutto questo è Born To Be Wild (e dintorni): niente di più, niente di meno. E se quanto letto in codeste righe è riuscito a solleticare i vostri istinti più animaleschi, compratelo, registratelo, scaricatelo e questo anthemico rock motociclistico vi perseguiterà senza darvi pace. A buon intenditor abbiamo già offerto sin troppe parole. Steppenwolf,  il “lupo della steppa”: nato per essere selvaggio e che il diavolo se lo porti.



Mauro Rollin On The River Uliana






(1) Lo stesso trattamento di molatura e dilatazione viene riservato da Grant Green anche a Let The Music Take Your Mind dal primo omonimo album del ’69 di Kool & The Gang, Hey, Western Union Man di William Bell e It’s Your Thing degli Isley Brothers

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