Inizia
con 8 secondi di sfregi ultra-rock, con tanto di urla schizoidi che rimandano
dritte al Roger Waters alienato di Careful With That Axe Eugene su Ummagumma,
e finisce com’era iniziata, con 30 secondi di sabba elettrico che ti si
stampano in faccia per poi schiantarsi rovinosamente al suolo. Nel mezzo ci
sono quasi 5 minuti del miglior Elvis Costello e del suo songwriting eclettico
e qualitativamente eccelso. La recensione di Man Out Of Time potrebbe
anche finire qui, senza che nessuno possa accusare il vostro recensore di falsa
testimonianza. Dato però che non intendo cavarmela con così poco, eccomi pronto
ad imporre alla vostra evidenza un vero resoconto di quella che i più
considerano una delle più alte vette del songbook di Declan MacManus, emulo di
Buddy Holly nel look e di Elvis Presley nel nome. Partito alla fine degli anni
’70 con il maelstrom del punk – in cui è stato a forza inserito più per
questioni di contemporaneità che non di vera affinità stilistica – Costello
aveva corso il grosso rischio di diventare, dopo alcuni singoli prodigiosi e
tre album che già lo avevano consegnato alla storia, l’ennesima icona immolata
sull’altare del rock’n’roll. Troppo intelligente il nostro uomo per fare quella
malaugurata fine. In Trust dell’81 già comparivano i primi ripensamenti
che diventavano disintossicante presa di distanza con Almost Blue dello
stesso anno, controverso disco di country music della più bell’acqua. La presa
di coscienza trova piena espressione con Imperial Bedroom del 1982, un
disco da vero songwriter dove le sue doti di mago del pentagramma si impongono
con inusitata forza all’attenzione del mondo. L’album è senza tema di smentita
il meno “rock” tra i sette fino ad allora licenziati dal nostro. Lo aiuta in
questo la produzione di Geoff Emerick che, forte dell’esperienza come tecnico
del suono in molti dischi dei Beatles, sforna con Costello un prodotto di
sofisticatissimo pop. Il disco vive di una varietà di arrangiamenti rifiniti
con estrema cura in ogni dettaglio ed è intriso di malinconica consapevolezza
cesellata da testi di cinica poesia. Imperial Bedroom è un disco pudico,
uno di quei dischi da isola deserta che richiede un congruo numero di ascolti
prima di rivelare tutte le sue mille sfaccettature. Orgoglioso della propria
sincretica varietà stilistica piuttosto che immobile a crogiolarsi in un’unità
cromatica che non possiede, è un’opera che vellica le orecchie di chi ascolta
con tristi ballate amarognole come quelle della cinquina The Long Honeymoon,
arricchita dall’accordion del braccio destro Steve Nieve in discreta evidenza, Almost
Blue, chanson dilaniata da una tensione interna che è sublime malinconia
notturna, Kid About It, che dispensa fiotti di romanticismo adagiandolo
su un tappeto di doppia tastiera, Boy With A Problem, chiaramente
autobiografica e diretta emanazione dei fantasmi dell’autore, e Town Cryer,
sinuosa ballata pianistica contrappuntata magistralmente da archi e ottoni.
Altrove l’ascoltatore viene portato su ritmi appena più sostenuti: e allora
ecco Tears Before Bedtime, vivace siparietto dai ritmi scanzonati
impreziosito dall’organo del solito genietto Stevie Nieve, Shabby Doll,
dalle fragranze primaverili, corredato di refrain contagioso e sezione ritmica
di plastica vitalità, The Loved Ones, dal passo deciso e convincente che
prova a stuzzicar certa nostalgia del più classico pop inglese via Kinks e Ray
Davies, Human Hands, forse la cosa più rock del disco, Little Savage,
caratterizzata da un urgenza esecutiva ed eccitazione che ne fanno uno dei
brani più vivaci di Imperial Bedroom, la gemma di Pidgin English,
uno dei brani più intensi del disco che solletica l’appetito con un inserto di
chitarra acustica che coltiva bellezza e infine You Little Fool, nel
solco della migliore tradizione del Costello melodico, dov’è stesa con mano
felice l’ars sonora dell’artista. D’altra fatta e consistenza due brani
come l’opening track Beyond Relief, bozzetto che lavora su ritmi prima
sospesi poi sciolti e timbri che fanno tranquilla vela nel gran mare del “soul
bianco”, e come l’ambiziosa …And In Every Home, che fa gran sfoggio di
un sofisticatissimo sound orchestrale con tanto di archi pizzicati. Per finire
resta da dire di Man Out Of Time, una delle più maliose ed efficaci
canzoni mai composte dall’artista, che muove per solidi tracciati vicino alla
zona degli evergreen e da cui traiamo conforto. Dato conto in apertura di
recensione dei concitati inizio e fine brano, veniamo finalmente a quei
fatidici 5 minuti che stanno nel mezzo. L’incipit è semplicemente da urlo con
organo e piano rubati a Procol Harum e Band che rivelano eccelsa virtù pop.
Tale è il buon gusto, così solido il mestiere che fa ottima impressione il
drive da ballata al gelsomino, infiorata come si conviene di romanticismo e
gentile sinfonia. Manco a dirlo, protagonista quasi assoluto assieme alla voce
adenoidale di Costello, il pianoforte del folletto Steve Nieve che trasfonde
nei suoi lucidi interventi di stranita bellezza il suo immenso magistero
strumentale, polverizzando fino all’estremo languore la materia di cui è fatta
la canzone.
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