lunedì 26 agosto 2019

In Case You're In Love - Sonny & Cher (1967)



Trovo assolutamente incredibile (e per molti versi al limite dello scandalo) che una coppia che ha venduto nel mondo 40 milioni di dischi come Sonny Bono e Cher abbia subito un costante ostracismo da parte della stampa musicale del nostro paese. Sono 50 anni che leggo riviste musicali di ogni tipo e mai, dicasi mai, mi sono imbattuto in un articolo retrospettivo che parlasse di loro e ne celebrasse le gesta  (va da sè che il riferimento è alla coppia, ché la sovraesposizione mediatica della Cher solista e attrice è tutt'altra faccenda). Eccheccazzo! E 'stato riscoperto di tutto in questo paese, tutto ha subito un'opera di revisionismo e rivalutazione, perfino Orietta Berti, ma non Sonny & Cher; per loro nemmeno uno straccio di recensione; nemmeno al momento della ristampa in CD del loro (peraltro esiguo) catalogo. E dire che proprio l'Italia è stato un mercato cui i due hanno sempre guardato con estrema attenzione, come prova la loro partecipazione alla kermesse sanremese del 1967 dove hanno presentato (in coppia con Caterina Caselli) una ballata di protesta che come titolo faceva Il Cammino Di Ogni Speranza, senza peraltro smuovere più di tanto la classifica dei dischi. Se ciò non bastasse a dimostrare con quanta cura i due curassero le relazioni commerciali con il nostro paese, basterebbe pensare alla versione di Little Man cantata in italiano e a quella di Caro Cara, versione italica di It's The Little Things (dalla colonna sonora di Good Times del '67), anch'essa cantata dopo aver "sciacquato i panni in Arno". Un disinteresse per questo doppiamente colpevole, mi sento di dire. Perciò, dato che nessuno se li è più filati da anni e che parlare di loro è quanto di più uncool possa essere immaginato, ecco il vostro affezionato bastian contrario preferito pronto a passare sotto la lente d'ingrandimento un disco e un po' di storia della coppia beat più iconica del grande circo pop americano. 
L'ambientazione in cui si snoda la vicenda è Los Angeles e le frequentazioni dei due sono la più probabile delle dimostrazioni della loro appartenenza al gotha ​​del pop-rock internazionale. Prima fondamentale frequentazione è quella con Art Rupe, deus ex-machina della Specialty (Little Richard vi dice qualcosa?), che nel 1957, dopo aver licenziato Sam Cooke ed il produttore Bumps Blackwell, promuove un Sonny Bono appena ventiduenne da ragazzo delle consegne al rango di produttore, dandogli modo di mettere lo zampino nei dischi di Larry Williams e contribuire così al successo di autentici capisaldi del rock'n'roll come Dizzy Miss Lizzy (che John Lennon vorrà nel repertorio dei Beatles e si incaricherà di cantare in Help) e Bonnie Maronie. La seconda, quella che marchierà a fuoco il cammino musicale del giovane Sonny, è quella con Phil Spector che può essere considerato il Pontefice Massimo del suono pop di stanza a LA, presso il cui studio Sonny lavora come turnista e promoter. Nel 1962 l'incontro fatale con la sedicenne Cherilyn Sarkisian. Bella, bellissima, alta e longilinea, dai lunghi capelli corvini che le scendono diritti sulle spalle: una Cleopatra del XX° secolo  dal fisico perfetto e dall'indiscusso fascino esotico che le deriva da quel 25% equamente diviso tra sangue cherokee e armeno che le scorre nelle vene. Ma anche indipendente e ambiziosa. E con quella voce di assenzio sa pure cantare, il che non guasta. Per Sonny, di 11 anni più anziano con un matrimonio fallito alle spalle (e non propriamente quel che si dice un Adone), però non è un colpo di fulmine che tramortisce all'istante (anche perché all'inizio di lui è più interessato ad un 'amica della giovane Cherilyn). Dato però che la ragazza era stata cacciata dai suoi compagni di stanza, le permette di trasferirsi da lui a patto che si occupi delle faccende domestiche (cosa che Cher si sarebbe sempre ben guardata dal fare). "Non c'era una relazione sexy e focosa tra noi, ma piuttosto paterna" conferma Cher qualche anno dopo "Come fossimo legati insieme, due persone che avevano bisogno l'una dell'altra, quasi per reciproca protezione". Prima di diventare coppia nella vita privata, lo diventano dunque professionalmente, partecipando come coristi alle registrazioni dei vari act spectoriani come Darlene Love, Ronettes e Righteous Brothers. A quei due non serve comunque consultare lunari e tarocchi per capire di essere destinati a grandi cose e presto la messa in scena di una ditta in proprio non sarà più procrastinabile. La prima incarnazione dei nostri avviene come Caesar & Cleo (Cleo cioè Cleopatra: sarà un caso?), presto cambiata in Sonny & Cher. E' il 1964 e la coppia, dopo essersi sposata con una finta cerimonia nuziale che diventerà matrimonio con carte bollate e timbri solo nel 1969, comincia a muovere il mercato con alcuni singoli. Il successo, quello vero, arriva però l'anno seguente con il singolo I Got You Babe, un brano che porta incollato il vischio magico di Bob Dylan ed il primo album, Look At Us, che si muove tra sogni pop e tradizioni cantautorali. E' il 1965, a marzo Dylan ha pubblicato il semi-acustico Bringing It All Back Home e a fine agosto demolirà l'ultimo diaframma licenziando il quasi totalmente elettrico  Highway 61 Revisited, album imprescindibile anticipato da quell'autentico inno degli anni '60 che risponde al nome di  Like A Rolling Stone, seducente concentrato di abrasività anthemica e di viscerale intensità espressiva, uscito come singolo il 20 luglio. I Got You Babe raggiunge i negozi il 9 luglio e Look At Us il 2 agosto. Il Dylan touch si sente dunque tutto: la stessa I Got You Babe, pur lievitando ad altezze rimarchevoli grazie ad un imprevedibile contrappunto di oboe, paga comunque un enorme debito di riconoscenza nei confronti di Chimes Of Freedom.  Ma va bene così, è lo spirito dei tempi. L'altro pilastro su cui poggia l'album è il wall of sound di Phil Spector (poteva essere altrimenti?), logica connessione nonché solido punto d'appoggio da cui vengono ripresi due brani. 
Il secondo album, The Wondrous World Of Sonny & Cher, esce nella primavera del 1966 e sposta il baricentro verso le aree di un R&B dalle facili persuasioni. Per l'occasione la coppia sforna un altro hit ricco di colori e spessore come But You're Mine che in Italia diventa Ragazzo Triste, il velocifero che trasporta di peso una giovanissima Patty Pravo dalle mura del Piper ai quartieri alti dell'italica Hit Parade. 
Ma è nel 1967 che arriva il capolavoro e si chiama In Case You're In Love. Spectoriano fino al midollo, il disco certifica inequivocabilmente la crescita di Sonny Bono come arrangiatore e autore. Ormai produttore consumato e infaticabile, il nostro mette a frutto gli anni passati con Phil Spector e per lui lo studio di registrazione non ha più segreti. Se poi aggiungiamo che riesce ad assicurarsi i servigi di alcuni dei migliori session men a stelle e strisce, a "sbirciare" la concorrenza facendo tesoro di  ciò che succede a Detroit in casa Tamla Motown dove elargiscono saggezza sonora Marvin Gaye e Martha Reeves e ad estrarre dal proprio cappello a cilindro un paio di contagiosi  gioiellini pop come The Beat Goes On e Little Man, due irresistibili shots che ne sanciscono definitivamente le capacità autoriali riuscendo ad assicurarsi una diuturna collocazione nella storia, il risultato è un disco in cui Sonny e la sua bella squaw tirano un colpo da maestro e infilano tutte le palle in buca.  


Il modo peggiore per approcciarsi a questo disco sarebbe quello di guardare al titolo e alla data di pubblicazione, convinti che tirando in ballo l'amore un disco del 1967 debba necessariamente essere un tassello del grande puzzle lisergico-musicale che improntava di sé San Francisco durante la Summer Of Love di quell'anno così cruciale. Così facendo si avrebbe la certezza matematica di non valutarlo affatto per quanto vale. Certo l'amore ha a che fare col disco, ma non è la terza voce del trinomio "pace, amore e musica" (e droga), non è l'utopico amore universale vaticinato dalla cultura hippy, è invece una faccenda privata tra la bella Cherilyn ed il suo innamoratissimo Salvatore (nome anagrafico di Sonny che rivela le sue inequivocabili ascendenze italiane). Un sentimento privato reso pubblico, in cui la gente si è identificata portando la coppia ai vertici dello stardom, come ricordato da Sonny: "Penso che ci fosse una chimica. Penso che i tempi fossero pronti per un cambiamento. E qui arrivano due persone al passo con i tempi, rivoluzionarie o anticonformiste o comunque tu voglia definirle. Che si sono amate ed hanno agito come marito e moglie. Tutti questi elementi erano strettamente connessi con la buona musica. E tutti si sono identificati con questa cosa. E' stato magico. Sarebbe magico oggi. Se Cher entrasse nella stanza oggi o camminassimo insieme per strada il traffico si fermerebbe ". 
Dunque, l'amore privato e romantico in tutte le sue declinazioni: questo in fondo è In Case You're In Love, sorta di bignamino sui rapporti di coppia che i due tratteggiano con mano sicura, senza indulgere troppo in addolcimenti consolanti. Se fosse uscito un paio d'anni più tardi, quando il termine sarebbe diventato di moda, l'avremmo definito un concept album. Da Groovy Kind Of Love, portata al successo dagli inglesi Mindbenders, a You Baby di Phil Spector; da Love Don't Come a Little Man, entrambe originali di Sonny Bono che palesano, come già l'anno precedente il mega hit Bang Bang dal primo album solista di Cher, la particolare predilezione del nostro per atmosfere turche e gitane; da We'll Sing In The Sunshine, successo del 1964 della canadese Gale Garnett, a Misty Roses di Tim Hardin; da Stand By Me, standard dalla diffusione ubiquitaria affidato alla voce di Ben E. King, a Good Combination  di Mark Barkan, presente come bonus nella ristampa in CD; da Living For You a Beautiful Story, due disarmanti dichiarazioni di Sonny nei confronti della sua bellissima e longilinea musa, quasi tutto nell'album parla di "questo folle sentimento" che è l'amore. Che poi la cosa avvenga senza che l'ascoltatore si ammali di diabete per l'alto tasso di zucchero contenuto tra i solchi, è uno dei meriti ascrivibili ai due come ai pretoriani di Phil Spector schierati al gran completo sotto la gloriosa sigla di Wrecking Crew. 
Certo, hai buon gioco nel creare un album che definire buono è un eufemismo quando al pianoforte puoi contare sull'apporto di gente come Dr. John, Harold Battiste o Michel Rubini, quando dietro i tamburi siede un fuoriclasse come Jim Gordon (Delaney & Bonnie Bramlett, Leon Russell, Joe Cocker, Eric Clapton, Traffic e molti altri ancora) o quando alla chitarra puoi contare sui servigi di Barney Kessell, jazzista di lungo corso e di David Cohen, all'epoca membro di Country Joe & The Fish coi quali nello stesso momento stava lavorando a Electric Music For Mind And Body, esordio adulto del gruppo. Un dream team a tutti gli effetti cui vanno doverosamente aggiunti, per il loro lavoro di produzione in ausilio di Sonny Bono, due vecchie conoscenze degli studi di registrazione come lo stesso Harold Battiste, una vita per la musica sia come docente che come arrangiatore e compositore (Sam Cooke, Lee Dorsey, Dr. John e chi più ne ha più ne metta) e Bob Irwin, tecnico del suono e memoria storica del rock che tramite la sua Sundaze, etichetta indipendente da lui fondata nel 1989, ancor oggi sta attuando una meritoria opera di recupero e restauro di incisioni storiche degli anni '50, '60 e '70, tra cui - quando si dice i corsi e i ricorsi - anche il catalogo proprio di Sonny & Cher. 
Il risultato di questo enorme sforzo collettivo è un album schiettamente pop le cui architetture musicali sono all' insegna di una classicità elegante dal quale affiorano evidenti tanto l'impronta spectoriana, quanto un'esplicita propensione rhythm 'n' blues. La prima è evidente in You Baby, a firma dello stesso produttore, che reca nitido il segno del wall of sound spectoriano, in We'll Sing In The Sunshine, piegata ai medesimi stilemi ed in Living For You, la più plastica delle dimostrazioni di quanto la scuola dell'originalissimo produttore (e con originalissimo non mi riferisco solamente al suo approccio wagneriano al rock'n'roll, quanto al suo stile di vita a dir poco discutibile) sia stata perfettamente assimilata da Sonny che ne è l'autore. Ma la cifra stilistica del controverso produttore aleggia più o meno esplicitamente su un po' tutto In Case You're In Love, quasi come un metalinguaggio che lo sovrasta caratterizzandolo. 
Non meno ardente il sacro fuoco rhythm'n'blues che innerva più di un solco del disco. Non tanto e non solo per la presenza della cover di Stand By Me che ha regalato a Ben E. King - cantante dei Drifters - un'imperitura collocazione in un ipotetico pantheon degli eroi della black music, ma soprattutto per la forza espressiva e l'intensità sciamanica di uno dei brani cardine degli anni '60, quel The Beat Goes On, superbo e contagioso mid-tempo di pura scuola Stax, posto con sagacia mercantile in apertura d'album che, fatte salve le sue trame ruspanti ed il ritmo rotolante, solo dal titolo induce non controllabili ondeggiamenti del fondoschiena. Sempre sintonizzata sulle frequenze delle stazioni radio R&B (questa volta però di Detroit) anche Good Combination, frizzante hit potenziale costruito con nella mente Martha Reeves & The Vandellas, la cui influenza è più che una vaga impressione, ma che di fronte al coup de foudre del "ritmo che continua" deve inchinarsi per manifesta incapacità a reggere il confronto. 
Non viene nemmeno messo definitivamente in soffitta l'afflato folk rock che innervava i precedenti album (soprattutto il primo) e che qui trova piena esplicitazione in un paio bozzetti cantautorali che celebrano come si conviene due protagonisti del pop d'autore dal fascino sottile come Tim Hardin e Bob Lind. Del primo viene proposta Misty Roses, tenerissima e pudica chanson d'amour tratta da Tim Hardin 1 del 1966, che Sonny, momentaneamente orfano di Cher, ripropone in una versione rispettosa nello spirito come nella lettera dell'originale, fornendo un interpretazione vocale intensissima ed intimista, avvolta da un involucro strumentale che ne valorizza il fascino. Di Bob Lind, dylaniato songwriter di razza ma eroe solo per un giorno, viene riproposta una delle tre canzoni che per un momento breve ma intenso ne fecero una star. Trattasi di quella Cheryl's Goin 'Home  dal suo primo album Don't Be Concerned del 1966 che, accomunata nello stesso destino agli altri due hit Elusive Butterfly e Remember The Rain, si è ritagliata una reputazione mitica dopo essere stata ripresa da mezzo mondo. I più celebri sono stati i Blues Project di Al Kooper che le iniettarono direttamente nel cuore una più che generosa dose di adrenalina posizionandola nel mezzo di Projection, secondo album del 1966; mentre i più amati dal pubblico di casa nostra furono i Rokes, inglesi di nascita ma italiani d'adozione, che ne fecero il loro personale passepartout per la gloria ribattezzandola Ma Che Colpa Abbiamo Noi. Versione di sicuro impatto, la Cheryl's Goin 'Home di Sonny & Cher prende per mano l'ascoltatore e lo conduce attraverso un territorio dai toni rock & soul costruito attorno alla voce allo stato brado di una Cher più fisica che mai. 
Non mancano nel disco, come ovvio, i momenti ad altissima propensione pop qui incarnati da un poker di brani che si muovono in due precise direzioni: da una parte l'easy listening di Groovy Kind Of LoveMonday, dall'altra il tipico coté mitteleuropeo che caratterizza certe tipiche costruzioni di Sonny Bono come Love Don't Come e Little ManGroovy Kind Of Love è una canzone scaturita dalla fucina newyorkese del Brill Building, costruita su musiche del compositore classico Muzio Clementi e portata al successo, oltre che nel 1966 dai Mindbenders di Wayne Fontana, in tempi più recenti anche da Phil Collins. Monday è un delicato "stornello" a firma Sonny Bono, semplice ma dalla profondità emotiva abissale, palesemente dedicato alla compagna, che i due cantano in coppia muovendosi leggiadri e melodicissimi tra gli spazi. Per quel che riguarda le ultime due, Love Don't Come è il tentativo di seguire le tracce di Bang Bang senza scadere nel plagio. La canzone è bellissima e Cher, sensuale e dal piglio deciso, si produce in un'interpretazione che se fosse un invito a volare lontano con lei, per raggiungerla salteresti sul primo treno per la Boemia, la puszta, la Calcidica o un altro di quei posti dal nome suggestivo che ti vengono in mente sentendola cantare. La stessa cosa potrebbe essere detta con forza ancora maggiore per Little Man, capolavoro assoluto senza mezzi termini che, come già in I Got You Babe, vede salire al proscenio uno strumento che meno pop non si potrebbe come l'oboe. Le atmosfere gitane afferiscono alla canzone un fascino che arriva da un passato mitico, quando le tradizioni non si sapeva che sarebbero diventate tali e sulle radici non erano ancora cresciuti gli alberi. Un corrusco paesaggio sonoro che con i suoi lampi (di genio) illumina un mondo pop, spesso conformista, in cui la bella Cher si muove perfettamente a suo agio come una gypsy queen del rock. Curioso come due delle versioni europee della canzone siano state interpretate da due signore come Milva e Dalida (che già si era occupata della cover di Bang Bang ) che certe inflessioni gitane (sia nella musica come nel look) condividevano con la stessa Cher: quell'immagine zingaresca che aveva preso forma con Bang Bang, dovuta, così narrano le cronache, ad un'intuizione del pianista Harold Battiste. 
Mantenendosi sulle coordinate di un suono sghembo e rimanendo immersi in un crogiuolo di colori d'antan, la rendicontazione delle prossime tre tracce dell'album più che una necessità diventa un obbligo. La prima è Podunk, un'originale di Sonny Bono che si muove tra inflessioni vaudeville e tentazioni dixieland. E' roba di ieri, anzi, dell'altro ieri: "Old Time Music" come se ne sente sempre meno al giorno d'oggi, un vento che proviene dal passato e sospinge la canzone verso New Orleans e segnatamente verso il quartiere di Storyville, dalle cui bettole e bordelli si riversano nei vicoli circostanti una base di banjo e le accentuazioni degli ottoni che potrebbero ben figurare in un disco degli Hot Five o in uno spettacolo con Fred Astaire. 
Non c'è niente da fare, questa è gente strana, fatta di una pasta tutta particolare, come certifica anche  Beautiful Story, reperto recuperato dagli archivi e proposto come bonus track, nonché gustoso walzerino accentato da un Farfisa e arricchito dall'umorale intervento di un trombone che è una vera delizia. Ma non è finita ché la terza bonus track posta in chiusura ed in cui Sonny lancia a briglie sciolte la fantasia è Plastic Man, numero da fanfara di strada con tanto di basso tuba a sostenere il ritmo e con cui il nostro spariglia ulteriormente le carte del disco. 
C'è dell'altro, comunque, su cui vale la pena soffermarsi: mi riferisco alla questione delle tematiche su cui chiedo mi sia concesso ritornare per un momento. Già si è detto come In Case You're In Love sia un concept album ante-litteram imperniato sull'amore (del resto con un titolo come Nel Caso Fossi Innamorato ...): questo è senz'altro vero, ma lo è solo parzialmente. Tra i suoi solchi troviamo infatti alcuni brani, tre per la precisione, che con questo sentimento tormentato non hanno nessun punto di contatto. The Beat Goes On, per esempio, è un'amara e stranita riflessione sugli ineluttabili cambiamenti della vita, Podunk è un ermetico calembour che guida l'ascoltatore tra immagini criptiche come l'autobus più famoso del mondo, gatti che bevono limonata e anatre che vanno a scuola (!!! ???). 
So cosa state pensando, ma siete completamente fuori strada, perché Sonny Bono non si è mai rollato nemmeno una canna come rivela Plastic Man, che descrive il sentimento anti-droga di Sonny che critica i "viaggiatori" e gli agitatori alla moda, allontanando sia lui che Cher dal vulcano lisergico che infiammava San Francisco durante l'estate dell'amore. 
Non è escluso che siano state proprio le prese di posizione enunciate in brani come Plastic Man ad alienare alla coppia le simpatie delle vestali del rock. Molti di costoro iniziarono a voltar loro le spalle, vedendoli come istituzionalizzati, falsi e plastificati. Rock per nonne. In giro avevano iniziato a girare certi tipi tosti come Hendrix, gente che volava eight miles high come i Byrds di Fifth Dimensionrivoluzionari fumati di hashish come Jefferson Airplane e Grateful Dead e poeti maledetti come Jim Morrison che con i suoi Doors terrorizzava le famiglie, scandalizzava i benpensanti e faceva bagnare le loro figlie. Perfino i Beatles facevano musica figlia più delle percezioni extrasensoriali che dello stomaco. Quale credibilità poteva avere una coppia di "piccioncini" che cantavano gaudenti all'Ed Sullivan Show? Chi poteva più prendere sul serio Sonny Bono e i suoi giubbotti di pelliccia o le sue mise a strisce verticali in stile carcerato in pigiamino? Non accorgendosi, questi fondamentalisti rock, di quanto il loro stigmatizzare fosse solo cieco furore ideologico e pure d'accatto. Sonny & Cher facevano pop e lo facevano molto bene. Punto. Commerciali? E allora? Forse che The Beat Goes On o But You're Mine possiedono meno quarti di nobiltà di California Dreamin' o Mellow Yellow? Dimenticando inoltre, gli infelici, che non da scomuniche da parte di illustri colleghi vennero raggiunti i nostri, ma da rispetto e ammirazione, al punto che molti di loro, da Buddy Rich a Gabor Szabo, dai Vanilla Fudge a Booker T. & The MG's, da Stevie Wonder ai Beau Brummels, da Terry Reid alla Bonzo Dog Band (cui si aggiungeranno in tempi più recenti Paul Weller e Bon Jovi), non si persero in sottili disquisizioni teologiche che oggi appaiono ai più ridicole, ma corsero in sala di registrazione uscendone poco dopo con una cover di Sonny & Cher sotto il braccio. 
Ad un certo punto fu comunque una guerra di religione o poco meno. Improvvisamente, dopo essere stati adorati dalle riviste musicali come dagli acquirenti di dischi col loro essere così alla moda in maniera accettabile e non scandalosa, molti cominciarono a depennarli dal loro carnet delle preferenze. Arrivò il fatidico 1968 e i loro dischi cominciarono a restare nei magazzini invenduti: lo spettro del fine carriera diventò più che un'opzione teorica. Fortunatamente, avendo un nome ancora spendibile nello spettacolo, bussarono alla televisione che li accolse a braccia aperte diventando il loro principale terreno d'azione con il Sonny & Cher Comedy Hour
Ma i rapporti fra i due cominciarono a deteriorarsi. Lei racconterà che Sonny la tradiva, arrivando ad intrecciare relazioni clandestine anche con 5 donne contemporaneamente. Da quel momento la parola passerà agli avvocati fino al divorzio avvenuto nel 1975. I dissapori sconfineranno invadendo anche l'area professionale: per dirla molto chiara, era lui che si era sempre occupato di tutte le questioni finanziarie e anche dopo il divorzio aveva continuato a farlo (tra l'altro fu lui a fare di Sonny & Cher un marchio registrato). Un giorno, dando un'occhiata alle carte, lei si accorge che Sonny aveva fatto la parte del leone lasciandole solo le briciole. Si riconcilieranno ma la magia era definitivamente svanita. L'ultima volta insieme sarà nel 1987 da David Letterman, dove i due canteranno I Got You Babe. Lei riuscirà a reinventarsi come "Dea del pop" e come attrice, un'ottima attrice, tra l'altro, che lavorerà con i nomi più grandi di Hollywood (Liam Neeson, Dennis Quaid, Maryl Streep, Jack Nicholson, Michelle Pfeiffer, Susan Sarandon), riagguantando con gli interessi un successo che dura tutt'oggi. Lui si impegnerà politicamente fino alla sua morte avvenuta nel 1998 dopo essersi schiantato contro un albero mentre effettuava una discesa sugli sci. Una morte tremenda quanto assurda. 
Nel Desert Memorial Park di Cathedral City in California c'è la sua tomba molto sobriamente adornata. Sulla lapide una laconica scritta che dice molto più di tanti discorsi pieni di retorica quanto vuoti di contenuti: "And The Beat Goes On".            



  
One By One 

The Beat Goes On

"Beh, The Beat Goes On è stato un grande pezzo. Voglio dire, non era una canzone. Non era niente. E poi la linea di basso l'ha fatta diventare tale. Ma potresti dire la stessa cosa di molte altre. C'erano solo certi tipi di canzone, come ad esempio You've Lost The Lovin 'Feeling, che erano dei successi garantiti. Perché erano grandi canzoni. Ma circa il 95% di quella roba non sarebbe stato un successo senza di noi. ". Così Carol Kaye, la mitica bassista della Wrecking Crew, rivendica con orgoglio l'importanza del proprio ruolo nel trionfo commerciale della canzone. Fu lei, infatti, l'ideatrice dell'esuberante big beat di basso che caratterizza il brano, sostituendo il walking bass originale. Magiche alchimie aleggiavano quel 13 dicembre 1966 nel Gold Star Studio, le stesse che mischiate ad una grande tensione fanno nascere le pietre miliari. In tal senso le cronache narrano delle continue, disperate occhiate lanciate da Cher all'indirizzo di Battiste in cabina di regia, nel vano tentativo di allentare la morsa cui la stava sottoponendo Sonny, il quale, fedelissimo osservante del metodo Spector, riteneva che tenere sotto pressione i musicisti - magari sottoponendoli ad estenuanti sedute di registrazione - li spingesse ad abbandonare il proprio ego. 
Senza voler insegnare il mestiere a nessuno, visti i risultati, bisogna concludere che il buon Sonny avesse ragione, ché The Beat Goes On è un gioiello al limite della perfezione. La musica che esce dagli speaker è brillante, agile, luminosa, sommamente divertente. Passo dopo passo Sonny e Battiste hanno messo a punto tutti gli strumenti di cui erano capaci per forgiare un R&B cesellato in ogni particolare e significativo nell'impasto d'insieme. Non c'è un secondo della canzone che sia meno che entusiasmante. Già si è detto del contagioso riff di basso suonato da Carol Kaye che nonostante la sua classicità resta comunque uno dei più riconoscibili al mondo. Perfettamente inutile inserirlo nella scaletta di un blindfold test: dopo due sole note l'ipotetico concorrente indovinerebbe il titolo della canzone senza la più piccola esitazione. 
Non meno infettivo ciò che sopra cotanto riff si appoggia e su cui vale la pena soffermarsi: non saprei definire se non esecuzione da manuale il contrappunto di organo Hammond B3 suonato nel modo dei maestri che si addentra con sorprendente naturalezza nei terreni del soul e della black music in genere. Nello specifico, le note di copertina non rivelano chi ci sia all'Hammond, ma non importa. Quello che conta è il risultato. Sembra di essere immersi nelle atmosfere degli studi Stax di Memphis, dove a distribuire effluvi di note blue c'erano tastieristi come Booker T. Jones o Isaac Hayes. 
La cosa si fa ancor più evidente quando avviene la collisione contro le folate dei fiati. Funky e perentori, danno un bel suono pieno e denso con un intersecarsi di ottoni e sax baritono che è uno spettacolo. Neanche i Mar Keys avrebbe potuto fare di meglio. Amalgamare poi con quanto sopra un oscuro ma preziosissimo lavoro di Jim Gordon alla batteria (per valutare appieno la finezza del gesto, cercate di concentrarvi e isolatelo mentalmente da tutto il resto) e la  voce di una Cher urticante e stropicciata quanto basta, dà come risultato un memorabile insieme di suoni irresistibili e incalzanti. Il biglietto da visita artistico del duo ed è facile capire il perché. 
Tra coloro che sicuramente l'hanno capito, in mezzo ai molti che si sono confrontati col brano, un posto di particolare evidenza spetta ai Vanilla Fudge che nel 1968 hanno fatto di The Beat Goes On l'asse portante del loro secondo album dal medesimo titolo. I quattro newyorkesi non si limitano a "coverizzare" la canzone ma, non contenti, la mettono in evidenza spezzettandola in quattro fasi attorno le quali vanno a dipingere il fantasioso affresco di un album per il quale non appare troppo fuorviante la definizione di psychedelic-prog

Groovy Kind Of Love

Non credo di essere molto lontano dal vero se affermo che anche coloro che hanno per il rock 'n' roll orecchie attentissime, ai nomi di Toni Wine e Carole Bayer Sager rimarrebbero ammutoliti e senza punti di riferimento. Scena non troppo dissimile da quella cui assisteremmo di fronte al nome di Diane & Annita. I primi due sono i nomi di due signore della canzone americana che hanno apposto la firma in calce a Groovy Kind Of Love: la Wine è l'autrice del testo, una predisposizione particolarmente spiccata per l'easy listening che la porterà a far parte del progetto discografico Archies, gruppo virtuale di fine anni '60 coi quali inciderà, prestando pure la voce, quella Sugar Sugar che diventerà una delle più ruffiane giuggiole pop mai ascoltate. Ma ecco come la Wine ricorda la genesi di Groovy Kind Of Love"Avevo 17 anni quando scrissi la canzone. Carole si avvicinò cominciando a ripetere Groovy Kinda e dopo un po' ci abbiamo aggiunto la parola Love; in 20 minuti abbiamo completato la canzone! Ci è volata dalla bocca al pianoforte. Fu incredibile con quanta facilità e naturalezza la scrivemmo". Per amore di verità non possiamo sottacere che la Wine ha accuratamente evitato di precisare che tale facilità venne agevolata dal fatto che in effetti la musica era stata scritta da Muzio Clementi (1752-1832, compositore, pianista, pedagogo, editore musicale) 150 anni prima. In effetti la maggior parte dello sforzo è stato profuso nell'atto di scrivere il testo adattandolo al Rondo - Sonatina Opus 36, N° 5 di Clementi leggermente modificato. 
Qualcosa di più dovrebbe dire il nome della Bayer Sager che è autrice della musica.  Non tanto e non solo per essere stata assidua frequentatrice del Brill Building (sul quale troverete notizie nel post di Some Velvet Morning dei Vanilla Fudge in questo stesso blog), situato ad appena un paio di isolati dalla sua abitazione, ma soprattutto per essere stata dal 1982 al 1991 la consorte di Burt Bacharach che del Brill Building era presenza praticamente fissa. Le composizioni e collaborazioni della Bayer Sager sono andate ad arricchire il carnet artistico di star dalla più disparata provenienza che vanno da Neil Sedaka a Bette Midler, da Michael McDonald ad Alice Cooper, da Chaka Kahn a Dionne Warwick allo stesso Bacharach, fino ad arrivare a Lady Gaga, Andrea Boccelli e Celine Dion. 
Riguardo la sigla Diane & Annita, trattasi della ragione sociale di un duo canadese che come primo vagito ha inciso proprio Groovy Kind Of Love nel 1965, senza, peraltro, raccogliere il ben che minimo successo. Che la canzone fosse però destinata ad un futuro ben più luminoso è dimostrato dalla seconda posizione sia nelle classifiche inglesi che in quelle americane, cui la portarono pochi mesi dopo, orfani del loro leader Wayne Fontana, i Mindbenders, quattro dei tanti fanti arruolati tra le file del variopinto esercito che partecipò all'operazione militare in terra americana, nota ai più con il nome in codice di British Invasion. Da quel momento in poi sarebbe stato un profluvio di covers che da Sonny & Cher sarebbe passato a Neil Diamond, a Petula Clark, a Gene Pitney fino ad arrivare alla solenne rilettura di Phil Collins, inserita nella colonna sonora di Buster del 1988, passando addirittura - udite! udite! - per il nostrano Ivan Graziani che nel 1979 ne fornirà una magica interpretazione, ribattezzandola Agnese e facendone uno dei capisaldi del proprio repertorio. Ad ogni buon conto, escludendo le due versioni più tarde di Ivan Graziani e Phil Collins e limitando il confronto alle cover uscite nei medi anni '60, le due più conosciute sono proprio quella di Sonny & Cher e dei Mindbenders. Lecito affermare che la prima vince sulla seconda per KO tecnico quanto a pathos, energia e buone vibrazioni, diventando la versione di riferimento che fa testo tutt'ora.

You Baby

Un incipit di batteria foriero di un big sound grosso e grasso, strabordante (o quantomeno pieno) di tempi e controtempi, escogitato per mandare in orbita un brano carico di energia. Poi parte il resto di You Babyuna canzone di classica epicità a firma Phil Spector che (scusate l'ovvietà alla Catalano) più spectoriana non si potrebbe. Per scriverla Spector si era avvalso della collaborazione di Barry Mann e Cynthia Weil, due coniugi e autori di lungo corso di stanza a New York, per poi piazzarla all'interno di Presenting The Fabulous Ronettes, primo e unico album intestato al celeberrimo trio femminile (esclusa la pletora di compilation, ovviamente) pubblicato nel 1964. 
Barry Mann, dopo un inizio come cantante, baciato pure da un discreto successo, aveva deciso di esprimere la propria creatività come autore dopo aver conosciuto Cynthia Weil (iniziali velleità come attrice e ballerina, presto abbandonate) che sposerà nel 1961. I due lavoravano uno alla Aldon Music, casa di edizioni musicali principale concorrente del Brill Building e l'altra proprio al Brill Building. Le due strutture erano pochi isolati l'una dall'altra e gli artisti spesso interagivano, così Barry e Cynthia diventeranno una coppia micidiale, un'autentica macchina da guerra del pentagramma il cui catalogo nel 2009 elencava ben 635 canzoni. Tra le tante dimostrazioni del loro talento vale senz'altro la pena citare You've Lost The Lovin 'Feelin', mega hit dall'umore agrodolce in capo ai Righteous Brothers, e We Gotta Get Out Of This Place, uno dei più squassanti inni degli anni '60 portato al successo dagli Animals. Riguardo le Ronettes, credo sia pleonastico perdersi in troppe spiegazioni: gruppo vocale di punta della scuderia di Phil Spector, erano tre ragazze che nei primi anni '60 lasciarono un'impronta indelebile nel volubile mondo pop degli happy days. Le due sorelle Bennett (Estelle e Veronica, quest'ultima che cambierà il nome in Ronnie Spector dopo il matrimonio col suo pigmalione, padrone e carceriere) e la loro cugina Nedra Talley sono state (assieme alle Crystals, le loro "cuginette black") le antesignane di innumerevoli gruppi vocali venuti su un po 'come funghi agli inizi dei '60, nonché tra i principali responsabili nella definizione del suono e del look di un'epoca. Chi non ricorda la contagiosa Be My Baby (per inciso il debutto assoluto di Cher in sala di registrazione), brano simbolo di un certo pop spensierato e adolescenziale? E chi è riuscito a tenere a bada gli ormoni di fronte alla loro immagine di Lolite provocanti con quegli occhi pesantemente truccati ed i capelli cotonati in maniera impossibile? 
E 'questo l'opus con cui si confrontano Sonny & Cher e la loro You Baby non sfigura affatto, tutt'altro. Anche perché, va detto, è più che evidente che giochino in casa se consideriamo la loro confidenza con quel materiale data la lunga militanza di Sonny come stretto collaboratore di Spector, e l'esperienza fondante di Cher che solo tre anni prima nei dischi delle Ronettes aveva cantato come corista fissa. Senza contare che la rodatissima Wrecking Crew e tutto il pittoresco armamentario di suoni splendidamente saturati erano i medesimi. C'erano tutti i presupposti per scadere nel calligrafico, ma i nostri non cadono nella trappola e riescono nella non facile impresa di tirar fuori ancora qualcosa di buono da una canzone difficilmente migliorabile dato che era già perfetta così com'era. 
Bisogna ammettere che l'approccio alla musica di Spector, quel suo trasformare ogni canzone in una mini-sinfonia, abbia stimolato nei collaboratori e nella concorrenza uno spirito di emulazione alquanto spiccato. In tal senso si chieda a Brian Wilson dei Beach Boys quante siano state le notti insonni a tormentarsi nel pensiero di come raggiungere lo standard qualitativo di quanto prodotto ai Gold Star Studios. Non fa eccezione Sonny Bono che con You Baby ha modo di mostrare il suo punto di vista. E allora vai con l'incipit di batteria descritto all'inizio, cui fa seguito l'incremento del ritmo e l'esuberanza comunicativa in cui si amalgamano mirabilmente le voci dei due titolari; relegata in un cassetto la fitta lancinante del sax sostituita dagli irrituali trilli di una chitarra che aumentano quando basta il tasso di epicità; e ancora via libera alle trame insinuanti delle mille percussioni che impreziosiscono il sottofondo. Sono queste le sfumature e le novità di una canzone capace d'incantare. Suoni. Suoni che invadono l'ambiente. Suoni che come sapienti mani artigiane sono lì a costruire nell'aria i loro invisibili castelli incantati.         

Monday

Cosa accade ad un autore, produttore, musicista dal curriculum prestigioso, nonché cantante in un duo di successo, quando - come si dice nei paesi anglosassoni - "cade in amore"? E se in particolare la destinataria delle sue poetiche pulsioni amorose, oltre ad essere la sua musa, è anche la sua partner professionale? Accade molto semplicemente ciò che accade a Sonny Bono: si mette a tavolino e scrive per l'amata una canzone di leggiadro romanticismo come MondayIn essa Sonny mette in mostra una sensibilità morbidamente melodica che lo fa apparire come una sorta di trovatore sentimentale piombato in un'Arcadia romantica in cui i Mamas & Papas si intrecciano con Roy Orbison per dare vita con poche e ben assestate pennellate ad un ritratto grondante tenerezza. La bella Cher diventa così "la ragazza maturata a sedici anni, cresciuta velocemente e vissuta nelle lacrime" (riferimento al padre che aveva abbandonato lei e la madre, e ad un'infanzia traumatica seguita da un'adolescenza comunque alquanto difficile). Ma altre prospettive poetiche e biografiche vengono delineate dai versi che seguono: "Ha fatto di un treno vuoto la sua casa. I suoi vestiti erano rattoppati e le sue scarpe indossate con difficoltà", chiara allusione a quanto rivelato dalla stessa Cher che ha raccontato come spesso fosse stata costretta ad usare degli elastici per tenere insieme le scarpe. E ancora:  "Ha imparato a cantare e ha imparato a pregare. Ha imparato tutto in un breve giorno, ma non ha mai imparato a distinguere il bianco dal nero". 
Testi dispersi fra tra nuvole di fantasmi del passato e realtà, declamati da una voce che canta storie che sono i risvolti segreti di un uomo che ama, si commuove e solidarizza con la sua donna. Testi che ci fanno comprendere appieno quel senso di protezione che Sonny provava per quella giovane che avrebbe sposato. Monday è dunque una biografia di straordinaria efficacia su un fondale di delicato lirismo. La sensazione è che Sonny stia trattando un tema tanto personale ed intimo da voler usare un approccio scevro di accenti ridondanti e di troppi orpelli zuccherosi. Entrare in punta di piedi nell'anima dell'ascoltatore per lasciarvi delle impronte più profonde. 
A tale impressione concorre in maniera decisiva l'arrangiamento che crea un'atmosfera di rapito romanticismo: chitarre acustiche, basso e una batteria tutta giocata su charleston e piatti (non c'è un tocco sui tamburi neanche a pagarlo) su cui si stende il salmodiare melodioso delle voci dei due protagonisti, per un racconto che è sì biografico ma è anche il perfetto paradigma del sogno americano. Un giorno rovisti tra l'immondizia in cerca di qualcosa da mangiare, un altro stai nuotando nella piscina della tua villa grazie al tuo singolo che è entrato in classifica.     

Love Don't Come

Se Sonny Bono non avesse mai scritto quel capo d'opera che è Bang Bang e se Cher non ne avesse esplicitato le clamorose potenzialità commerciali portandolo in vetta alle classifiche di mezzo mondo, ora staremmo qui a parlare di Love Don't Come come di una delle pietre miliari degli anni '60. Dato che però la storia non si fa con i se e nemmeno con i ma, questo misconosciuto gioiellino sarà destinato a rimanere per sempre uno dei segreti meglio nascosti di quel cruciale decennio. 
Perché sia ​​stato tirato in ballo il mega hit di Cher è evidente se si ascolta la canzone, ché Love Don't Come è un coerente ribadire i fondamenti musicali felicemente esposti in Bang Bang, pur apportando sostanziali modifiche che ne cambiano sostanzialmente la prospettiva. 
Si dice che certi musicisti trovino il colpo di genio all'inizio della carriera e poi per il resto della stessa rimangano lì sospesi come una foglia in mezzo alla tempesta nel disperato tentativo di replicare quel primo exploit, riscrivendo per tutta la vita la stessa canzone. Di tali esempi di auto-plagio se ne potrebbe fare più d'uno, anche se i casi spudoratamente scandalosi non sono fortunatamente così numerosi come qualche lingua maligna potrebbe essere tentata di insinuare. Che Sonny Bono non sia comunque una di queste figure rappresentabili per stilizzazioni è cosa sicura e questo ci conforta non poco. Lui sembra arrivare ad un passo dal baratro, ma poi con un colpo di reni si toglie dagli impicci e ti lascia lì con un palmo di naso e pieno d'ammirazione. E più tu proverai a delinearne i contorni, più quelli sfuggiranno al tratto. All'epoca di In Case You're In Love il nostro è un artista in perentoria crescita che nel 1966 se ne era uscito con una canzone totalmente fuori dagli schemi come Bang Bang, scritta per il secondo album solista di Cher. La canzone prevedeva un armamentario bizzarro di strumenti ed atmosfere: tra i primi violino, bouzouki (sorta di mandolino usato nella musica greca che Cat Stevens farà conoscere coram populi) e celesta (molto in voga in quello sghembo periodo avendola usata anche i Velvet Underground di Sunday Morning, i Beatles di Baby It's You, i Pink Floyd di The Gnome, nonché lo Jimi Hendrix di Little Wing, che però aveva usato uno strumento dal suono molto simile come il glockenspiel); tra le seconde i colori evocativi e stranianti degli umori zigani che venivano maneggiati con un approccio passionale, facendo risaltare, assieme alla perfetta interpretazione "zingaresca" di Cher, la cifra compositiva dell'autore e la sua peculiare attitudine all'obliquità delle prospettive nonché la sua inclinazione a cedere con trasporto alle suggestioni arcane di musiche in aperto contrasto con le tendenze del momento. 
Orbene, di tutto questo resta solo una labile traccia in Love Don't Come: via il violino zigano, via le danze sfrenate a piedi nudi davanti al fuoco tra i carrozzoni disposti a caravanserraglio nella notte della puszta, decisamente attenuate le rimembranze balcaniche. Cionondimeno ascoltandola il pensiero non può evitare di correre dritto filato a Bang Bang. Il fatto è che Sonny, ridotte al minimo tutte le suggestioni etniche, fa emergere la nuda anima pop della canzone, giocando la partita su inequivocabili assonanze che ne assicurano la continuità con Bang Bang. E fa decisamente centro. Il risultato è una canzone sicuramente meno originale di quella, ma ugualmente fascinosa, resa preziosa dagli incredibili virtuosismi delle onnipresenti chitarre acustiche che nelle mani di Barney Kessel e David Cohen diventano una cornucopia che distribuisce tensione e intensità.      

Podunk

Agli orecchi dei non avvezzi a rovistare più di tanto negli anfratti del rock dei '60, una traccia come Podunk potrebbe apparire un parto alieno da cui tenersi ideologicamente alla larga o, nella migliore delle ipotesi, della cui presenza in un disco di rock 'n' roll stupirsi senza farsi troppe domande sulla coerenza della scelta. Eppure, a voler ben guardare, non era infrequente imbattersi in un pezzo così, specie nella seconda metà degli anni sessanta, quando spesso e volentieri capitava di incontrare una di queste che potevano apparire come ideuzze un po 'strambe sparse qua e la nei dischi dell' epoca a zero cura per l'organicità dell'insieme. Già, perché è di una mistura tra old time jazz (il dixieland, insomma) e vaudeville ciò di cui stiamo parlando. Banjo, ottoni a profusione, trombe e clarinetti in luogo della chitarra (che è presente ma è relegata, come da prassi nel genere, ad un pervicace lavoro di accompagnamento), basso tuba al posto di quello elettrico, atmosfere old fashioned in cui l'ascoltatore medio di rock 'n' roll fa molta fatica ad identificarsi e che il più delle volte mal sopporta. 
A poco serve precisare che dalla musica - jazz, ma non solo - che nasceva nei primi anni del secolo scorso si dipana un filo rosso che attraverso i decenni e le innumerevoli trasformazioni nel frattempo intercorse arriva fino a noi. Come a non molto vale ricordare come, senza arrivare al rigore filologico di Ry Cooder che a quella musica dedicherà nel '77 (in pieno ciclone punk, vale la pena ricordarlo) l'intero album Jazz, per non parlare di un incredibile personaggio come Leon Redbone che allo stesso opus musicale dedicherà l'intera carriera, molti degli eroi musicali che ancor oggi celebriamo hanno iniettato nella loro proposta non trascurabili dosi di quella mistura: i primi che mi vengono in mente sono il Bob Dylan di Rainy Day Women Nos.12 & 35 , i Beatles di Yellow SubmarineWhen I'm Sixty Four e Honey Pie, il Donovan di Mellow Yellow, i Lovin' Spoonful di Daydream, l'Alan Price di The Ballad Of Bonnie And Clyde, fino al clamoroso caso della New Vaudeville Band (quando si dice un nome programmatico) che con quel delizioso bon-bon che risponde al nome di Winchester Cathedral  ha detto una parola di straordinario peso sulla musica dei ruggenti anni '20 nella popular culture  di massa. E sono anche convinto che se mi metto di buzzo buono a spremere ancora un po' le meningi, oltra a quelli appena citati,  qualche altro nome salterebbe fuori (le Mothers Of Invention di Frank Zappa e la Bonzo Dog Doo-Dah Band per esempio). 
Faccio altresì notare che quelli appena sopra citati sono tutti mega-successi che hanno sbancato nelle classifiche di mezzo mondo, a riprova del fatto che a volte il pubblico mainstream dimostra un'apertura mentale molto superiore a quella che saremmo propensi ad attribuirgli. 
Dixieland e vaudeville come archetipi di una storia comune, dunque. Voglio dire, saranno pure, quegli arcaici stilemi, i nonni del rock che ci gira intorno oggi, i bisnonni se preferite, ma l'albero genealogico di cui fanno parte è in ogni caso il medesimo. Piaccia o non piaccia, e con buona pace dei padiglioni auricolari avvezzi ai suoni più cazzuti del nuovo millennio. 
Come se la cavano Sonny & Cher in Podunk? Possiamo dire che volano ad altezze consone al loro status di consumati entertainers e che un brano come questo da modo all'anima errante di Sonny di rimarcare l'alterità della sua concezione di album pop rispetto a quella spesso patinata di tanto mainstream. E' per questo che alzo entrambi i pollici e come Fonzie concludo con un alquanto soddisfatto "Heeeyyyy !!!"

Little Man

Non deve affatto stupire che Little Man, uno dei quattro più grandi successi di vendite di Sonny & Cher, abbia ricevuto maggiori consensi nella vecchia Europa che non nella natia America, dove non è riuscito a centrare l'obiettivo della Top 20 fermandosi al 21° posto. E' evidente che la riproposizione di quelle sfumature greche e gitane che già avevano fatto la fortuna di Bang Bang, siano riuscite a toccare di più le corde del pubblico del Vecchio Continente che non quelle dei rudi cow-boys americani. Con spirito sloganistico, potremmo dire che in Europa la puszta ungherese per un'altra volta ha tirato più delle praterie del mid-west. Infatti riascoltiamo il bouzouki cui è affidata una seducente introduzione da centellinare attimo per attimo, e torna a farsi sentire soprattutto l'oboe che in Little Man assume una posizione ancor più centrale e preminente di quella già assunta due anni prima in I Got You Babe
A tal proposito, la memoria mi suggerisce di coniare per la canzone un nuovo slogan (embè, che volete farci, oggi va così): ricordo - sarà stato il '71 o il '72 - che la più diffusa rivista musicale dell'epoca titolava un articolo riguardante la prima tournée dei Jethro Tull in terra italiana e soprattutto lo sconvolgente impatto esercitato sui giovani nostrani da Ian Anderson e compagni, "Ipnosi da flauto". Lo trovai perfettamente azzeccato e straordinariamente efficace, tanto che per Little Man non mi faccio assolutamente alcuno scrupolo di rubarlo, parafrasandolo in "ipnosi da oboe". Ma non di solo oboe vive Little Man: dentro ci trovate anche la classica fisarmonica a mantice - quella che gli inglesi chiamano accordeon - a conferire all'insieme ulteriore personalità, ma soprattutto un melange di grande eleganza che certifica l'elevatissimo livello di qualità raggiunto da Sonny come arrangiatore. A riprova di come non sempre la musica "commerciale" sia da snobbare a prescindere, visto che anche nelle sue espressioni più overground possono covare i germi dell'originalità e dell'innovazione. Un'ovvietà, molto probabilmente, di cui però troppo spesso ci si dimentica. 
Per quanto attiene agli aspetti tematici, Little Man è una storia in perfetta sintonia con quelle raccontate nella gran parte dell'album: un'altra, diversa declinazione del rapporto di coppia. Divertente che, secondo una libera interpretazione ilare da parte degli ambienti vicini al duo, "il piccolo uomo" cantato nel testo sia stato individuato nello stesso Sonny, che col suo metro e 63 scarso di altezza soccombeva davanti alle misure di Cher che lo sovrastava di almeno 10 centimetri buoni. 
Riguardo invece le circostanze in cui venne registrata la canzone, le basi furono fissate su nastro dal duo a Los Angeles con la fedele ciurma della Wrecking Crew nell'estate del 1966 alla vigilia del tour europeo che stava per partire a settembre. Arrivati ​​in Inghilterra, quando i nostri vennero invitati per un'apparizione televisiva nello show Ready Steady Go!, si resero conto di non aver un nuovo singolo pronto da promuovere. Così, dopo aver aggiustato il testo, in tutta fretta si rinchiusero agli Abbey Road Studios per incidere le parti vocali sui nastri che previdentemente si erano portati con sé dall'America, tanto che quando eseguirono la canzone alla BBC furono costretti a cantare leggendo le parole non ancora mandate a memoria su dei provvidenziali "pizzini". L'ultima annotazione è riferita alla longevità della canzone che tra la fine del 2015 e l'inizio del 2016 ha vissuto un vero e proprio revival grazie ai creativi della pubblicità che l'hanno utilizzata in uno spot televisivo commissionato da Amazon. Lo ricordate? E' quello in cui una tipa ordina sul sito una porta per cani in modo di agevolare l'entrata in casa del suo mini-pony. 
Il che ci induce a chiosare sul numero infinito delle vie usate dal Signore per riportare alla luce come fossero pitture rupestri le canzoni dei bei tempi andati. Ma di questo già avevamo raggiunto sufficiente consapevolezza.

We'll Sing In The Sunshine

La storia è piena di quelli che nei paesi anglosassoni vengono definiti one hit wonder: coloro, cioè, che improvvisamente scuotono le fondamenta del mercato discografico di mezzo pianeta e poi, dopo quel primo ed unico exploit, così com'erano fragorosamente assurti alla notorietà, vengono reinghiottiti nell'anonimato senza più dare notizie di sé. Gale Garnett, canadese originaria della Nuova Zelanda, non è una di loro, ma è come se lo fosse. Mi spiego: la ragazza arriva al successo nel 1964 all'età di 22 anni con We'll Sing In The Sunshine contenuta nel suo album di debutto My Kind Of Folk Songs. La canzone la porta a conoscere l'ebbrezza della cima delle classifiche sia in Canada che negli Stati Uniti, oltreché nella natia Nuova Zelanda e nella vicina Australia. Dopodiché più nulla. O meglio, la giovane cantautrice tenterà di ripetere l'exploit con Lovin' Place, singolo tratto dall'album omonimo uscito nel '65, che entrerà sì nelle classifiche americane ma decisamente di straforo, ma purtroppo da quel momento, nonostante di lì in avanti verranno pubblicati ulteriori 7 album incisi tra il '65 ed il '69, il successo non le arriderà più inducendola a concentrarsi sulla carriera di attrice (che peraltro aveva abbracciato fin dal 1963 con il film La Pantera Rosa, in cui doppiava nientemeno che Claudia Cardinale) e relegando in secondo piano il mondo della musica che abbandonerà definitivamente negli anni '80. 
Accade dunque che il suo lascito più importante resti We'll Sing In The Sunshine, un inno ideale da cantare in compagnia, faciile e gioioso ma pronto a dar battaglia la sera in spiaggia attorno ad un falò. La sua cifra stilistica è quella di un lirismo assolutamente coinvolgente con un piede nel pop e l'altro nel folk. Un'ariosità contagiosa che col suo soave fluire si insinua nel cervello di chi ascolta insediandovisi in pianta stabile. Il più che lusinghiero risultato è officiato con i più semplici degli attrezzi: una chitarra ed un basso acustico disposti ad un'intrigante linearità su cui arabescano una melodica leggiadramente espressiva ed una tromba venuta fuori da chissà dove. 
Cambia (e di parecchio) il paradigma nella rendition di Sonny & Cher, i quali, pur rispettandone sostanzialmente l'impianto melodico, la rivitalizzano a mezzo di un mood solare dove si respira a pieni polmoni tutta l'esuberanza e la magia della bella stagione e dove i pruriti estivi sono assecondati dalla tanta, tantissima energia che solo un wall of sound alla Phil Spector sa infondere. E allora briglie sciolte alla Wrecking Crew e alla sua tavolozza di colori intensi che si sposano in un melange che evoca i fantasmi di Ronettes e Crystals. Un piccolo esempio che mostra come coniugare sonorità in chiave easy listening e spessore artistico, prima, molto prima che il pop si votasse ad emozioni sconfortantemente plastificate e da video-clip.

Misty Roses

Figura di primissimo piano del folk-rock americano anni '60, Tim Hardin, pur essendo riuscito a realizzare un pugno di dischi all'altezza della sua leggenda, non è mai riuscito a raggiungere il grande pubblico se non per interposta persona. E' lui, tanto per fare un esempio, l'autore di If I Were A Carpenter, un Top 40 Hit, ma con la voce di Bobby Darin, tratta dal suo secondo album Tim Hardin 2 del '67. E' sempre lui che ha scritto Reason To Believe, pezzo forte del suo primo album del '66 Tim Hardin 1, che con Rod Stewart raggiungerà una diffusione ubiquitaria nel 1971 unitamente all'album che la conteneva, quell'Every Picture Tells A Story che a tutt'oggi resta il più bel disco di Rod The Mod. 
Se poi siete estimatori dell'art-rock, non potete non aver notato e poi visceralmente amato Elegy dei Nice di Keith Emerson, uscito postumo sempre nel 1971. Date un'occhiata alle note di copertina e vi accorgerete che i quasi 13 minuti migliori della vostra vita, passati ad assorbire il flusso benefico di quella rapsodia per pianoforte a cavallo tra canzone d'autore e jazz che rispondono al nome di Hang On To A Dream, portano la firma di Tim Hardin. Un nome di culto, musicians' musician tanto rispettato dai colleghi quanto bellamente ignorato dalle grandi platee. 
Se non ne siete convinti, sovrapponete Hardin a quell'altro Tim, viso d'angelo incorniciato in una cascata di riccioli castani, stralunato cantore di delfini e sirene e genitore di una genia di creativi (uno solo in verità, si chiamava Jeff) dalla vita altrettanto breve, e scoprirete quanto più numerose siano le cose che li accomunano rispetto a quelle che li dividono: partenza discografica nello stesso anno, amore sconfinato per il vibrafono, la nave della vita alla deriva sullo stesso mare di eroina e la chiamata finale del "tristo mietitore" che ghermirà le loro esistenze a cinque anni di distanza l'uno dall'altro a mezzo della stessa siringa piena di disagio esistenziale. Reciproche influenze e grande spirito d'emulazione tra i due Tim (devo precisare che l'altro di cognome faceva Buckley?), come provato da Misty Rose, ancora da Tim Hardin 1, una preghiera di due minuti scarsi in cui un malinconico trovatore implora e supplica su trame di sognante jazz-folk tessuto come per magia da basso acustico, batteria rapita in un ritmo bossanova, chitarra acustica e vibrafono. Sembra la descrizione di un brano da Goodbye And Hello o da Happy Sad o ancora da Blue Afternoon ed è con questa straordinaria melopea gloriosamente pastorale che decise di confrontarsi Sonny Bono (momentaneamente orfano di Cher). Qualunque produttore avrebbe potuto dirgli che per un musicista squisitamente pop come lui, mettersi in una situazione del genere artisticamente avrebbe potuto equivalere ad un suicidio, ma Sonny era il produttore di se stesso e non esitò a seguire il suo istinto. Voleva dire una cosa e l'ha detta. Che poi l'abbia fatto senza balbettare è circostanza che dovrebbe rendere felici noi tutti in quanto fruitori di quella che è la traccia più intensa dell'album. Era una prova cui Sonny sentiva di doversi sottoporre per misurare la sua crescita come arrangiatore e interprete anche in assenza di Cher. E ne é uscito alla grande. La magia gli riesce grazie ad un quartetto d'archi che, come già per i Beatles di Eleanor Rigby, riesce ad elevare oltre la media un brano che non va però mai sopra le righe, confinato com'è nel rassicurante alveo di una forma canzone canonica.

Stand By Me

Se consultate una qualunque enciclopedia del rock, scoprirete che  White Christmas di Irving Berlin con i suoi 50 milioni di copie è il singolo più venduto della storia. La sua versione più famosa è quella del 1942 cantata da Bing Crosby che stazionò per ben 11 settimane in vetta alla classifica americana. Come si dice, è una canzone che fa "giurisprudenza", come dimostrato da un numero spropositato di altre cover distribuite a pioggia in ogni paese del mondo. Si fa più presto ad elencare chi non l'ha mai cantata che non chi si sia cimentato con essa. 
Degna concorrente di cotanto impatto sulla musica del pianeta, Stand By Me è un'altra canzone da cui non si può prescindere avendo segnato lo stato dell'arte del pop dei primissimi anni '60 con una ricetta soul-romantic impeccabile. Lo provano le oltre 400 versioni da essa vantate che per chi scrive è anch'esso un numero assolutamente impressionante. Pubblicata su singolo il 24 aprile 1961 a nome di Ben E. King, cantante dei Drifters, e composta dallo stesso King in collaborazione con Jerry Leiber e Mike Stoller, i due "Re Mida" che trasformavano in oro qualunque cosa componessero (Drifters, Coasters, Elvis Presley devono tutti loro qualcosa), Stand By Me non impiegò troppo tempo ad assurgere allo status di standard iniziando a fuoriuscire da ogni giradischi, radio, juke-box, dance hall tra Cape Code ed il Golden Gate. Un successo travolgente, al punto che lo stesso King, nell'evidente tentativo di non inflazionare il mercato, non la incluse in Spanish Harlem, il suo primo album solista licenziato a tamburo battente nel mese di maggio dello stesso anno, ma attese l'agosto del 1962 per inserirla nel suo terzo album intitolato Don't Play That Song, "Non Suonare Quella Canzone", evidente interpretazione di una supplica da parte del pubblico a riprova di quale genere di tormentone Stand By Me fosse diventata. Ciò chiaramente non impedì alla canzone di collezionare l'esorbitante numero di renditions di cui sopra (c'è anche quella di Celentano dal titolo Pregherò), un mare magnum dai mille colori in cui,  se vi prendete la briga di rovistarci dentro, potrete pure trovare un discreto numero di capolavori: i primi tre che mi vengono in mente sono la versione in salsa southern soul di Otis Redding dal suo primo album Pain In My Heart del 1964, quella tanto sublime quanto ruffiana di John Lennon (mi sento di dire la più riuscita) del 1975 dall'album Rock 'n' Roll e quella virata tex-mex che nel 1976 Ry Cooder includerà nel sapido e appagante Chicken Skin Music. Accanto a queste, penso di non peccare di blasfemia se colloco anche la versione di Sonny & Cher. La pratica viene affrontata nella maniera probabilmente più logica, visti sia il fertile luogo dove vengono effettuate le registrazioni, la squadra di professionisti a loro disposizione ed il bagaglio di esperienze fino ad allora maturate. 
Lo si capisce fin dai primissimi secondi della canzone da che parte tirerà il vento: un insistente riff di basso ad inscenare un groove tribale, batteria e tablas che aggrediscono gli spazi, chitarra e piano che accentuano il ritmo e tanto, tantissimo eco. Una quantità industriale di eco. E' un incipit forte e splendido nel segno del wall of sound spectoriano  che ricorda i dischi delle Crystals e che poi si porta dietro il resto della canzone. Resto della canzone che in sostanza è un raddoppio esaltato da quella irrinunciabile modalità d'ascolto chiamata stereo. Perché mentre su un canale continua ad libitum, ruggente e costante, l'incipit iniziale col suo ritmo massacrante, sull'altro aumenta lo spessore del contrappunto e tutto riparte sovrapponendosi a ritmo dimezzato. E con tutto intendo una seconda batteria, un secondo basso, una seconda chitarra ritmica e un organo Farfisa, dando così vita ad un wall of sound ancor più frastornante. 
Quando verso la fine interviene un violino a doppiare il riff è l'apoteosi, il compimento di una cattedrale sonora dedicata al genio di Sonny Bono e per la proprietà transitiva al più geniale e visionario produttore della storia, quel Phil Spector il cui spirito aleggia in ogni riga di questo saggio. Quel Phil Spector che concepì il wall of sound, una delle più belle invenzioni degli anni '60, un marchio di fabbrica che prevedeva un suono di sottofondo saturato e incalzante in modo che l'ascoltatore rimanesse circondato da un enorme e costante massa sonora che non concedeva spazio per pensare. Dove l'orchestra (quasi una costante nel pop dell'era pre-Beatles) veniva doppiata da una pletora di strumenti, tutti mattoni votati alla costruzione di quel "muro" solido, indistruttibile. Quel Phil Spector che per raggiungere il suo scopo non esitava a registrare (come nel caso in esame) due batterie (anche tre se era necessario), due bassi, due pianoforti, su cui sovrapponeva campanelli, triangoli, tamburelli, timpani, congas, piroette vocali, battiti di mani e le fitte lancinanti di mille saxofoni. Quel Phil Spector che aveva svezzato Sonny Bono, il quale omaggia il suo mentore erigendo una sfarzosa cappella votiva dedicandola al suo tocco magico e alla sua epopea.

Living For You

Il perfetto brano pop? Non saprei. Di certo Living For You è un brano pop, ma è quel "perfetto" che non so se sia corretto usarlo. Forse un "apocrifo brano pop" suonerebbe più adatto. "Pop", come sanno anche i bambini dell'asilo, è l'abbreviazione di popular e tutto si può dire di Living For You tranne che sia popolare. Infatti non la conosce nessuno. "Pop" è anche un termine onomatopeico nel senso di una musica che esplode come i pop-corn (pop!!!). Una musica - pardon, una muzik - che presuppone leggerezza (infatti, musica leggera, secondo la formula storicamente più utilizzata), disimpegno, ritornelli canticchiabili, usa-e-getta come modalità di consumo (musica di consumo, appunto), secondo il concetto di pop avverso alla musica alta che ha condannato il genere ad un apartheid sonoro con tante scuse al genio di compositori come Burt Bacharach o la coppia Lennon-McCartney (ma l'elenco dei nomi che potrebbero essere fatti è infinito). 
Ecco, secondo le accezioni testé elencate, la domanda posta all'inizio non è affatto peregrina in quanto Living For You non risponde pienamente alle specifiche di cui sopra. Voglio dire, Phil Spector è pop, ed in Living For You di Phil Spector ce n'è a bizzeffe. L'introduzione con eco ed archi, elaborata e straordinariamente evocativa, è l'epitome perfetta del wall of sound.  Ma come la mettiamo col disimpegno? Sì, è vero, Living For You è una canzone d'amore, ma questo non significa necessariamente disimpegno. Romanticismo, quello sì. Insomma, non è Bob Dylan ma le liriche sono talmente sentite nella loro semplicità che non meritano il marchio infamante della superficialità. Riguardo i ritornelli canticchiabili, beh, ci sono, invero, dei cori che rimandano ai Turtles di Happy Together e quelli sono pop di sicuro, ma la strofa non è di quelle che memorizzi e che poi ti si conficca nel cervello costringendoti a cantarla sotto la doccia. Senza contare che quando entra in scena un violino country suonato a velocità supersonica il concetto di pop inteso come grammatica ben consolidata va a farsi benedire. Riguardo infine l'assioma che vorrebbe il pop filosoficamente condannato ad essere una musica usa-e-getta, una puntualizzazione è d'obbligo: trattasi a parere di chi scrive di tesi preconcetta e, mi sia concesso, risibile, la cui labilità deriva dal fatto che la questione è squisitamente personale, strettamente personale, chè solo all'ascoltatore spetta la decisione di come fruire la musica: come viverla, come usarla ed eventualmente gettarla. Per non parlare del fatto che fino a quando esisteranno etichette (la già nominata Sundaze ma non è la sola) votate a ripescare per strada nomi che fino a qualche anno fa sarebbero stati improponibili in un negozio di dischi e fino a quando esisteranno pagine come quelle che state leggendo che hanno come missione il parlarne (un esaltante impegno per un vecchio rocker come il vostro affezionato, un rifugio culturale, spero, per frotte di lettori che mi auguro sempre più numerosi), canzoni come Living For You continueranno ad essere "usate" senza essere mai più "gettate", dimenticate in fretta perché sorpassate in corsa dal succedersi delle uscite di un mercato frenetico. Insomma, perle di pop 'n' roll croccante da scoprire (o riscoprire) a distanza di anni. Un'eredità che nessuno dovrà più permettersi di sottovalutare e per la quale non dovremmo mai smettere di ringraziare il santo protettore del pop.

Cheryl's Goin' Home

"La notte cade su di noi, la pioggia cade su di noi, la gente non sorride più, vediamo un mondo vecchio che ci sta crollando addosso ormai, ma che colpa abbiamo noi". Così nel 1966 cantava Shel Shapiro che con i suoi Rokes aveva interpretato la versione italiana di Cheryl's Goin' Home di Bob Lind (cui sarebbe seguita a ruota quella di Remember The Rain dello stesso autore, ribattezzata E La Pioggia Che Va), trasformando in banale e modaiolo inno di protesta di quattro "capelloni", vago e indistinto nonché infarcito di luoghi comuni (è evidente che Mogol non aveva ancora raggiunto lo status di gigante cui sarebbe assurto con Battisti), quello che invece nella versione originale era un privatissimo e struggente canto di disperazione e di abbandono del protagonista rivolto alla propria donna. 
Cheryl's Goin' Home era il brano manifesto di Don't Be Concernedprimo album di Lind pubblicato nel '66, nonché una delle quattro tracce in cui il nostro si avvalse dell'apporto di un'autentica leggenda degli studi di registrazione come Jack Nitzsche nel ruolo di produttore esecutivo. Nitzsche era l'inseparabile braccio destro di Phil Spector con cui condivideva alcuni inquietanti tratti caratteriali e col quale aveva iniziato a lavorare fin dai primi anni '60. Ma Jack era anche una vecchia conoscenza dello stesso Sonny Bono: fu infatti proprio Sonny ad assumerlo ai tempi della Specialty quando lui era un dirigente di A&R e fu proprio allora, nel 1963, che i due scrissero a quattro mani Needles And Pins, destinata a Jackie DeShannon ma portata al successo dagli inglesi Searchers (come avrete certamente intuito è tutta una grande famiglia quella che ruota intorno al patron del Gold Star Studio). 
Con un bagaglio tenacemente nutrito e costantemente messo alla prova, le innumerevoli collaborazioni di Nitzsche riusciranno a produrre una fiamma tanto luminosa da essere visibile per decenni: basta infatti citare nomi come Rolling Stones, Buffalo Springfield, Neil Young, Ike & Tina Turner, Ry Cooder, Mink De Ville, Graham Parker fino ad arrivare ai Mercury Rev per valutarne la statura. Fu di Nitzsche la moral suasion che indusse Lind a pubblicare Cheryl's Goin' Home sul lato A del singolo che lo lanciò nella stratosfera e allo stesso modo immaginiamo che il suo consiglio non sia stato estraneo alla decisione di Sonny e di Cher di cimentarsi in una cover del  brano. Soprattutto alla luce della cruciale rendition della canzone che i Blues Project di Al Kooper avevano allestito l'anno precedente per Projections, loro primo album in studio e secondo in carriera dopo il fulminante debutto dal vivo di Live At The Cafe Au Go Go. "Delle mie oltre 200 cover, Cheryl's Goin' Home è la mia seconda più registrata - ricorda Lind - La cosa interessante è che non era destinata al lato B; in realtà era destinata ad essere il successo. La World Pacific mi aveva affiancato Jack Nitzsche, che era già una leggenda per il suo lavoro con Phil Spector e con me ha inciso quattro brani. Quando fu tutto pronto i dirigenti della casa discografica mi chiesero quale canzone pensavo avremmo dovuto pubblicare come singolo. Ho detto loro: 'Qualsiasi cosa tranne Elusive Butterfly'. I dirigenti e Jack concordarono. Non c'era proprio niente di simile nelle classifiche all'epoca e non aveva il profumo del successo per nessuno di noi. Quindi Jack ha scelto Cheryl's Goin' Home come lato A ed Elusive Butterfly come lato B. Il singolo uscì nel 1966 fece subito un tuffo nell'oscurità. Il disco ha avuto pochissima riproduzione e nessuna attenzione, tranne che da un DJ in Florida che, per Dio solo sa per quale motivo, lo ha girato ed ha iniziato a suonare il lato B. Elusive Butterfly è salita al N° 5 e ho pensato che Cheryl's Goin' Home sarebbe stata presto dimenticata. Mesi dopo, un gruppo potente chiamato Blues Project l'ha inserita nel loro fantastico album di debutto, che ha conferito alla melodia lo status di culto. In pochi mesi Sonny & Cher, i Cascades, Noel Harrison e gli Hondells avevano inciso la canzone". 
Ed è proprio con la versione dei Blues Project piuttosto che con l'originale di Bob Lind che va confrontata la Cheryl's Goin' Home di Sonny & Cher: laddove la prima si sciacqua in acque garage rock modellandosi in un impasto assolutamente perfetto tra la chitarra dal tocco deciso di Steve Katz (Blood Sweat & Tears, Lou Reed, American Flyer, Elliott Murphy) ed l'organo Farfisa dell'incontenibile Al Kooper, prezzemolino del rock tra '60 e '70, la seconda (cantata in splendida solitudine da Sonny che coglie immediatamente la grandezza della canzone) vira verso territori soul grazie ad una fragorosa sezione fiati che, appiccicosa e martellante, marca il riff senza dare tregua. Una rendition che le mappe musicali segnalano come densa e carica di scintille col suo sfarzoso danzare nell'empireo di un pop-jazz ante litteram (appena un anno dopo gente come i Blood, Sweat & Tears - anch'essi sotto l'egida dell'irrequieto e incontinente Al Kooper - sugli stessi stilemi edificherà un'intera carriera). 
Cheryl's Goin' Home alla maniera di Sonny Bono è dunque una cover dannatamente buona che racchiude in sé, assieme all'ansia di Sonny di non fossilizzarsi in una formula predefinita, una magia elastica e potente che riversa in generose dosi nelle orecchie e nell'anima di chi ascolta.



Bonus Tracks


Beautiful Story

Per Sonny Bono il non rimanere incapsulato, costantemente vittima del contagio da parte dell'immarcescibile germe del pop era esigenza insopprimibile. Intendiamoci, Sonny & Cher erano la coppia pop più in vista dell'America "sessantesca" e mai avrebbero preso la decisione autolesionista di gettare alle ortiche quel linguaggio in cui sguazzavano come rane nello stagno. Ma il Sonny autore e produttore non sapeva resistere a certe vivificanti "scappatelle" che gli rendevano la vita più frizzantina. Era, quel cercare spazi artistici alternativi entrando in altre dimensioni per poi uscirne rigenerato, questione di vita o di morte. Era in questi momenti che il suo dialetto fatto di libere associazioni stilistiche si sposava ad un concetto di canzone ove l'ecclettismo era valvola di sfogo salvavita che attingeva a diverse declinazioni della popular music: il dixieland, le marching bands, l'operetta, il vaudeville. Si spiegano così le irrituali disgressioni che sfociano in brani come Beautiful Story, gustosissimo walzerino che, pubblicato in origine su singolo, verrà poi dirottato all'interno di The Best Of Sonny & Cher del '67, primissima compilation del duo zeppa di altre reliquie musicali, dove rimarrà per anni fuori catalogo. 
Quel che affascina in Beautiful Story è come sia invecchiata benissimo e come suoni tutt'ora fresca col suo impareggiabile climax emotivo. Più che la melodia, su cui svetta concupiscente il malioso contralto di Cher, la salvano dall'obsolescenza suono e arrangiamento. Il primo eccezionalmente definito e rifinito, dettagliato e dinamico (mi sto concentrando mentre scrivo queste righe sul puntiglioso scandire del basso di Carol Kaye rimanendone completamente soggiogato). Il secondo perfetto nell'emulare popolaresche suggestioni in 3/4 nel mentre disvela a mezzo di un'ambientazione lounge raffinati impasti proto art rock; prodigioso nell'impastare piano e Farfisa, archi e trombone (e già questo dovrebbe aver già acceso più di un campanello d'allarme) più nell'accezione neo tradizionalista che non in quella jazz del termine. E così facendo a trasformare un brano tutto sommato orecchiabile in sapida danza old fashioned ognora in grado di risvegliare, come un disco del Tom Waits anni '70, il romantico buongustaio che è in noi. C'è un attimo preciso che conferma l'appartenenza di Bono al club degli arrangiatori di qualità superiore: è quando, a circa metà del brano, sopraggiunge un netto calo di tensione e tutto si ferma tranne il basso di Carol Kaye; su quel semplice scandire che non può nemmeno essere definito un riff, il trombone, che fino a quel momento era stato un felice contrappunto a riempimento degli spazi, e gli archi aprono un siparietto all'insegna di un dialogo che è uno dei momenti più gustosi dell'intero album. Inaudita bizzarria e non particolarmente commerciale in un disco pop, sia pure frammentario fino all'incoerenza. Ma sono proprio sdilinquenti e discretamente incongrui episodi come quello testé descritto a tenere costantemente accesa in noi l'ustionante fiamma della passione, che poi, a voler ben guardare, è il vero sale della nostra alienante vita.

Good Combination

Avete una disperata voglia di spensieratezza? Volete far esplodere dal vostro petto tutta la gioia di vivere che non riuscite più a trattenere? Vi piace sfrecciare a bordo di una decapottabile lungo la costa californiana col vento tra i capelli, la vostra musica preferita suonata a palla, cantando fino a mangiarvi la gola per la felicità (e chi siede al vostro fianco dipende dalla fortuna)? La vostra musica preferita è quel R&B ultra ruffiano e spudoratamente orecchiabile che la Motown sfornava a getto continuo al tempo del suo zenit? Se la risposta a tutte queste domande è sì, Good Combination col suo fenomenale impatto danzereccio e il suo black touch a rotta di collo è la vostra canzone. Scritta da Mark Barkan, inquilino fisso del Brill Buildind e autore, fra le altre, di Pretty Flamingo dei Manfred Mann, è una canzone da vivere assolutamente di pancia. Mandate una volta tanto il cervello in vacanza e battete il tempo con il piede. Lasciatevi andare alla sua scansione di mostruosa ballabilità e al suo ritornello parimenti trascinante e non fatevi troppe seghe mentali. Soprattutto non perdetevi in minuziose analisi estetiche come quelle di certi scribacchini che so io. E se qualcuno vi dicesse che, sì va bene, è un discreto R&B ma vuoi mettere The Beat Goes On? Non dateci troppo peso e continuate a battere il tempo con il piede. Se qualcun altro rilevasse che sarà pure modellata con un impasto strumentale perfetto, ma canzoni così alla Motown ne hanno sfornate qualche migliaio, voi fategli una sonora pernacchia e al movimento del piede aggiungete pure quello della vostra zona pelvica. Se poi ci fosse qualche sapientone che vi fa notare che sembra proprio di sentire una canzone di Martha Reeves & The Vandellas, non dategli retta e continuate a cantare a squarciagola. 
Di sicuro ad un certo punto arriverà uno di quei barbosi analisti musicali che vi spiegherà come un sax baritono così in evidenza, capace di sfoggiare un assolo breve ma travolgente come quello che si materializza ad un minuto dalla fine, non è cosa da passare sotto silenzio. Come non è da passare sotto silenzio il contrappunto della sezione fiati che stordisce chi ascolta "souleggiando" con un surplus di adrenalina che innerva degli unisono presi su tempi impossibili e degni di un Wilson Pickett tarantolato terminale. Ecco, a questo punto, pur continuando a cantare e ballare, potreste pure tirare un po' le orecchie e se fino a quel momento stavate godendo come scimmie potrebbe succedervi di andare in orgasmo come un mandrillo in calore dopo un anno di astinenza. La stessa attenzione potreste prestarla qualora un amante del particolare dall'orecchio fino ponesse l'accento sull'attacco iniziale dominato da un vibrafono tanto sbarazzino quando tachicardico. Certo, non vi risolverà il problema del mutuo e nemmeno quello della rata dell'auto, ma almeno un sorriso, quello sì, ve lo strapperà sicuramente. 
Quanto fin qui enunciato mi costringe a chiosare su come Sonny Bono, quel brevilineo votato all'easy listening, secondo alcuni - assieme alla bella mogliettina - un abietto e spudorato fenomeno commerciale, sia stato viceversa uno dei produttori più cool della scena, quando alla stessa il concetto di coolness se non era ancora estraneo poco ci mancava. 
Mentre ai protagonisti della sua stessa stagione venivano elevati sacrosanti peana per i loro inni cosmici, per il loro viaggio che varcava le porte della percezione alla ricerca di un sound painting affidato a strumenti sempre più inusitati, quando non per le loro dichiarazioni di guerra all'armonia occidentale, lui, senza roboanti proclami, si concedeva il lusso di aprire un'allegra canzoncina affidandosi a sax baritono, vibrafono, basso e batteria. Un incipit di certo non scontato. Il che dimostra quanto una semplice pop-song possa volare oltre il proprio recinto, pur rimanendo fedele al suo ruolo. Dietro l'angolo già spuntavano le preoccupazioni per la carriera ed il disfacimento del matrimonio con le sue amarezze e le parcelle degli avvocati. Ma qui è ancora gioia ed estasi.

Plastic Man

E' evidente che Sonny Bono sia un artista dal DNA assolutamente particolare e che i suoi geni irrorino positivamente, come benefica pioggia, il portfolio del sodalizio con Cher. Lui compone, arrangia, duetta con la moglie in canzoni bagnate da tutti i fiumi della musica americana, lei sfodera il suo contralto lasciando l'animo dell'ascoltatore in balia di sensazioni memorabili. 
Plastic Man coglie un altro dei diversi frammenti della sua personalità sfoggiando un arrangiamento da marching band con tanto di basso tuba a scandire il tempo. Di primo acchito, ad un ascolto distratto e superficiale, Plastic Man potrebbe apparire come un episodio marginale, dispensabile nel suo proporre una musica popolare (ma meglio sarebbe dire popolaresca) stancamente mandata a memoria e per definizione statica nella sua fissità in quanto prigioniera dei propri stilemi triti e ritriti ed ancorata ad una sua tradizione e ad una sua grammatica diventata accademia, quando viceversa, sgombrato il campo dai luoghi comuni del genere, ci si potrà accorgere come al suo interno ci siano diverse perle da scoprire che non mancheranno di far emergere motivi di particolare interesse. La doppia anima di Sonny Bono dovrebbe essere oggetto di studio di un pool di scienziati musicologi. Da una parte il pop, dall'altra tutto il resto senza limiti né confini. Che il nostro fosse un compositore dalla creatività più che fertile è cosa nota, e a testimoniarlo c'è anche una canzone come Plastic Man, tanto per la linea melodica che pare la cugina street-corner di Rainy Day Women Nos. 12 & 35 cantata da una Cher incazzata quasi più di Dylan - bestemmia? macché: ascoltate ascoltate - quanto per l'alchimia irripetibile dell'arrangiamento con gli ottoni a zonzo sulla ritmica meccanica del basso tuba e quella irritualmente moderna della batteria (quale marching band potrebbe vantare un fraseggio percussivo tanto vario e articolato?). Se per sovrappiù aggiungiamo che la pozione sonora contiene come ingredienti anche un organo Farfisa che fa tanto Country Joe & The Fish (non dimenticate che della partita fa parte anche quel David Cohen che dei Fish era il tastierista e chitarrista) ed un'armonica che non fa molto marching band ma fa tantissimo Dylan (e due!), dobbiamo concludere che l'approccio di Sonny alla materia è tanto spurio quanto meravigliosamente interessante. 
In questa lieve - sia chiaro - scompaginazione sta il senso di una canzone che divulga precarietà e incertezza con una classe sublime. La stessa incertezza che ci assale affrontando il tema delle liriche. Dovendo redigere questo saggio mi sono scrupolosamente documentato: ho letto un numero impressionante di reports (tutta farina del sacco della stampa straniera ché sull'argomento quella italiana risulta sconsolatamente non pervenuta), ho scandagliato Internet in ogni più recondito anfratto e, ovviamente, ho letto i testi delle canzoni. Ebbene, leggendo quello di Plastic Man, fatta pure salva l'imprecisione del Google Translation System, è davvero impossibile scovare traccia della controversa presa di posizione anti-droga di Sonny Bono. Probabilmente è un mio limite e nel caso di questo chiedo venia. Cionondimeno Plastic Man, tanto per rifarmi al marasma di sproloqui con cui vi ho finora afflitto, resta un congedo intrigante per un disco con la forza dei classici assolutamente da (ri)scoprire.       

Mauro Rollin 'On The River Uliana








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