lunedì 19 agosto 2019

The Shepherd Dogs Are Calling - A Hawk And A Hacksaw (2018)




E’ proprio vero: “Non si può mai dire in quale direzione il treno stia andando guardando le rotaie”. Così decantava in perfetto italiano una voce femminile all’inizio di Laughter In The Dark, monumentale brano di apertura di Darkness At Noon, secondo album del 2005 di A Hawk And A Hacksaw, duo che più atipico non si potrebbe, composto dal fisarmonicista e multistrumentista Jeremy Barnes e dalla violinista Heather Trost. Le atipicità della coppia sono ben due: la prima sta nel fatto che ascoltando gli A Hawk And A Hacksaw ci accorgiamo che il treno sta puntando decisamente ad est e a sud. Con est sono intesi Balcani, Carpazi, Danubio, Ucraina e ancora più in là fino alla Persia antica, mentre con sud ci riferiamo a Turchia, Grecia, Medio Oriente, Israele e paesi della sponda meridionale del mar Mediterraneo. E’ un viaggio che travalica confini geografici, storici e politici, volto a evidenziare un sincretismo che ricerca desueti legami mediterranei tra Asia, Europa e Nord Africa, ripercorrendo nel senso inverso i tragitti della diaspora degli ebrei ortodossi e degli eserciti conquistatori dei sultani ottomani. La seconda atipicità è che un siffatto progetto sonoro di studi e prove sul terreno della world music non arriva da Budapest, Belgrado, Istanbul o Gerusalemme, bensì da Albuquerque, New Mexico. Così, in luogo di lente ballate desertiche alla Thin White Rope dove le chitarre regnano sovrane, l’ascoltatore viene messo al cospetto di canzoni dal polveroso andamento uptempo che  aggiornano e danno nuove coordinate geografiche a quanto già si era definito dai primi tempi della Third Ear Band, poi dei Dead Can Dance e soprattutto delle Voci Bulgare. La strategia prevede sketches, aforismi, frammenti di vita musicale, il tutto sostenuto da un’insolita ma notevole ricchezza strumentale che, oltre a fisarmonica e violino maneggiati dai due leader, comprende ottoni e fiati in genere, oud (un cordofono simile al mandolino diffuso dal Caucaso al Medio Oriente al Magreb), cumbus (simile al banjo), bouzouki (altro cordofono diffuso in Grecia e Turchia), cimbalom (sorta di dulcimer tipico dell’Europa Centro-orientale) e percussioni come doumbek e riq. Dopo la breve esperienza di Barnes con i Neutral Milk Hotel a fine anni ’90, nei quali il ruolo di batterista gli stava evidentemente assai stretto, tanto che da quando li ha lasciati non si è più fermato, il nostro inizia nel 2002, con un primo album omonimo di difficile reperibilità, un lungo viaggio a tappe che dal nativo New Mexico ha finito per farlo approdare in Europa. Dapprima in Gran Bretagna, dove per sbarcare il lunario ha fatto anche il postino e per un breve periodo a suonato pure alla BBC; poi in Francia e quindi nei balcani. A Hawk And A Hacksaw è il nome che si è scelto per firmare partiture bizzarre in cui la fisarmonica, suo nuovo strumento d’elezione, la fa da padrona. Ad oggi può vantare un discografia che consta di sette album che generano un repertorio di un folklore immaginario ma plausibile, che cita i balcani e l’area mediterranea senza arenarsi nella filologia. L’ultima uscita è Forest Bathing risalente allo scorso anno, in cui Barnes e la Trost riprendono con rinnovato entusiasmo il filo di un discorso creativo straordinario e di stranita bellezza inopinatamente interrotto cinque anni prima. Il mood e la mission dell’album divergono sensibilmente da quelle del predecessore: laddove You Have Already Gone To The Other World del 2013 era totalmente votato alla ri-sonorizzazione di Shadows Of Forgotten Ancestors del regista russo Sergei Parajanow, una vecchia pellicola del 1964 che raccontava delle brutali rivalità tra le famiglie ucraine che il regista pagherà con l’inserimento da parte delle autorità sovietiche nella black list delle persone indesiderabili, Forest Bathing sceglie nuovamente come campo d’azione quel singolare crossover che aveva caratterizzato il progetto sin dagli inizi. Anzi, lo sguardo viene maggiormente ampliato, dando vita ad un sincretismo etno-musicale vieppiù accentuato, comprendendo anche la Turchia e altri paesi affacciati sul Mediterraneo orientale. Ne vien fuori così un’opera che scivola attraverso il tempo e lo spazio, caricandosi di aromi e colori che sono vita. Ma altre ancora sono le novità che il lavoro disvela. Una è che il disco è totalmente strumentale, fregiandosi di un impianto sonoro che va a toccare territori fino ad allora inesplorati: la Persia antica, innanzitutto, un fascinoso riferimento culturale che trova rappresentazione nel santur (un particolare tipo di dulcimer che viene percosso da un martelletto). In braccio al nuovo suono, Barnes e la Trost sono più tranqilli, sereni, rilasciano la trama ritmica mettendo un freno alla proverbiale baldanza del loro sound e riempiono di forti suggestioni ecologiste i vari spazi colorati in folk. Avviene così il  tangibile ridimensionamento di quelle fanfare balcaniche da sempre cifra stilistica del duo, con gli ottoni che da elemento fortemente caratterizzante si fanno presenza discreta. Si tratta di un piccolo, benefico shock; gli esuberanti esecutori di Cerbantine e Delivrance (rispettivamente 5° e 4° album della coppia) hanno deposto gli strilli e procedono ad uno sviluppo più meditato della materia riprendendo certe lezioni dei  già citati Dead Can Dance e di più avveduti world musicians come il libanese Rabih Abou Khalil, o il maliano Ali Farka Toure. L’impiego di vere e proprie eminenze grigie in materia come il clarinettista Cuneyt Sepetci o il cimbalom nelle mani di Unger Balasz e una serie di altri gradevoli “trucchi” spiegano il nuovo corso degli artisti impegnati a contaminare folk, suoni di mille colori e istanze naturaliste, esplicitate in modo più o meno evidente lungo tutto il percorso dell’opera. Non estranea a tutto questo, infatti, la filosofia che sottende l’intero disco: Forest Bathing (letteralmente bagno nella foresta) è la traduzione in inglese di shinrin-yoku, esercizio che praticamente consiste nell’addentrarsi all’interno di boschi e foreste per assorbirne tutti gli influssi positivi allo scopo di combattere ogni forma di stress. Talvolta tali istanze le troviamo riflesse nei titoli dei brani come lapalissianamente avviene in The Sky Is Blue, The Desert Is Yellow, che con linguaggio sinuoso e carico di potenza evocativa rende omaggio alla musica del deserto; oppure in The Magic Spring, uno struggente adagio che potrebbe essere uscito dalla penna di un Ennio Morricone in vena di esotismi; in A Broken Road Lined With Poplar Trees, in cui viene messa in scena un raffinato quadro di “folk da camera” che trasuda serenità agreste da ogni nota; o anche in The Washing Bear, l’unico episodio ad alto tasso di esuberanza, in cui protagonista è la tromba virtuosa di Sam Johnson. A volte invece vengono disvelate dalle fascinose trame degli arrangiamenti: è quanto avviene nell’ipnotica Alexandria che omaggia, attingendo dal grande paiolo della tradizione musicale maghrebina, la metropoli portuale dei faraoni affacciata sul mar Mediterraneo; in Babayaga, breve filastrocca infantile dedicata a quella che nella tradizione slava è la strega cattiva dei boschi; nella triste melopea tzigana di A Song For Old People/A Song For Young People, in cui il violino virtuoso della Trost si strugge in passionali suggestioni magiare; nella breve, sincopata Night Sneaker, evocativa e duttile rosa del deserto, giocata su di un tempo contratto e su sinuosità arabe; le stesse che informano di sé gli oltre 5 sofferti minuti di Byati Maqam, ove vengono indagate in profondità le mescolanze tra stilemi griot, musiche beduine e venature subsahariane. La festa del disco si completa con la melodiosa The Shepherd Dogs Are Calling, oggetto della presente analisi. La ballata è una vaporosa, dolce sbandata dove gli strumenti si fanno schiuma di sogno. Qui Barnes e la Trost danno vita ad una macchia di suono ove una nuvola di violino e strumenti a fiato abbelliscono il dettato di una sezione ritmica appena accennata. Balladeers in crescita esponenziale, i due si fanno vincere dal tormento melodico e sognano di nuovi mondi romantici, capaci di durare oltre l’effimera stagione della moda. E’ musica senza tempo e senza confini geografici. Musica che ha segnaletica non definita e che da linfa a verniciature che sanno di Grecia (affiorano echi di gente che mai ti aspetteresti, come gli Aphrodite’s Child di ellenica memoria o il Demis Roussos solista). Ma potrebbero essere anche armonie che si aprono al gesto familiare della musica del meridione italiano, dove prevalgono un’ispirazione calma ed una visione serena delle cose. Tutti luoghi, quelli citati, ove pecore e cani pastori – “shepherd dogs”, appunto – son presenze parte di un’iconografia tradizionale e consolidata… come nelle highland scozzesi, dove i pascoli sempreverdi sono sferzati dalla fredda pioggia del nord e dalle onde schiumose di un mare scuro e  perennemente agitato. Citazione non casuale, la presente, visto che la terza coordinata musicale su cui poggia il brano è costituita dai fogli scozzesi di Alasdair Fraser da Clackmannan, Scozia, immenso violinista dal grande cuore romantico, dalla tecnica prodigiosa e dalla visione panoramica della musica che lo porta a strizzare l’occhio anche alla classica.


Mauro  Rollin' On The River Uliana



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