E’
proprio vero: “Non si può mai dire in quale direzione il treno stia andando
guardando le rotaie”. Così decantava in perfetto italiano una voce
femminile all’inizio di Laughter In The Dark, monumentale brano di
apertura di Darkness At Noon, secondo album del 2005 di A Hawk And A
Hacksaw, duo che più atipico non si potrebbe, composto dal fisarmonicista e
multistrumentista Jeremy Barnes e dalla violinista Heather Trost. Le atipicità
della coppia sono ben due: la prima sta nel fatto che ascoltando gli A Hawk And
A Hacksaw ci accorgiamo che il treno sta puntando decisamente ad est e a sud.
Con est sono intesi Balcani, Carpazi, Danubio, Ucraina e ancora più in là fino
alla Persia antica, mentre con sud ci riferiamo a Turchia, Grecia, Medio
Oriente, Israele e paesi della sponda meridionale del mar Mediterraneo. E’ un
viaggio che travalica confini geografici, storici e politici, volto a
evidenziare un sincretismo che ricerca desueti legami mediterranei tra Asia,
Europa e Nord Africa, ripercorrendo nel senso inverso i tragitti della diaspora
degli ebrei ortodossi e degli eserciti conquistatori dei sultani ottomani. La
seconda atipicità è che un siffatto progetto sonoro di studi e prove sul
terreno della world music non arriva da Budapest, Belgrado, Istanbul o Gerusalemme,
bensì da Albuquerque, New Mexico. Così, in luogo di lente ballate desertiche
alla Thin White Rope dove le chitarre regnano sovrane, l’ascoltatore viene
messo al cospetto di canzoni dal polveroso andamento uptempo che aggiornano e danno nuove coordinate
geografiche a quanto già si era definito dai primi tempi della Third Ear Band,
poi dei Dead Can Dance e soprattutto delle Voci Bulgare. La strategia prevede
sketches, aforismi, frammenti di vita musicale, il tutto sostenuto da
un’insolita ma notevole ricchezza strumentale che, oltre a fisarmonica e
violino maneggiati dai due leader, comprende ottoni e fiati in genere, oud (un
cordofono simile al mandolino diffuso dal Caucaso al Medio Oriente al Magreb),
cumbus (simile al banjo), bouzouki (altro cordofono diffuso in Grecia e
Turchia), cimbalom (sorta di dulcimer tipico dell’Europa Centro-orientale) e
percussioni come doumbek e riq. Dopo la breve esperienza di Barnes con i
Neutral Milk Hotel a fine anni ’90, nei quali il ruolo di batterista gli stava
evidentemente assai stretto, tanto che da quando li ha lasciati non si è più
fermato, il nostro inizia nel 2002, con un primo album omonimo di difficile
reperibilità, un lungo viaggio a tappe che dal nativo New Mexico ha finito per
farlo approdare in Europa. Dapprima in Gran Bretagna, dove per sbarcare il
lunario ha fatto anche il postino e per un breve periodo a suonato pure alla
BBC; poi in Francia e quindi nei balcani. A Hawk And A Hacksaw è il nome che si
è scelto per firmare partiture bizzarre in cui la fisarmonica, suo nuovo
strumento d’elezione, la fa da padrona. Ad oggi può vantare un discografia che
consta di sette album che generano un repertorio di un folklore immaginario ma
plausibile, che cita i balcani e l’area mediterranea senza arenarsi nella filologia.
L’ultima uscita è Forest Bathing risalente allo scorso anno, in cui
Barnes e la Trost riprendono con rinnovato entusiasmo il filo di un discorso
creativo straordinario e di stranita bellezza inopinatamente interrotto cinque
anni prima. Il mood e la mission dell’album divergono sensibilmente da quelle
del predecessore: laddove You Have Already Gone To The Other World del
2013 era totalmente votato alla ri-sonorizzazione di Shadows Of Forgotten
Ancestors del regista russo Sergei Parajanow, una vecchia pellicola del
1964 che raccontava delle brutali rivalità tra le famiglie ucraine che il
regista pagherà con l’inserimento da parte delle autorità sovietiche nella
black list delle persone indesiderabili, Forest Bathing sceglie nuovamente
come campo d’azione quel singolare crossover che aveva caratterizzato il
progetto sin dagli inizi. Anzi, lo sguardo viene maggiormente ampliato, dando
vita ad un sincretismo etno-musicale vieppiù accentuato, comprendendo anche la
Turchia e altri paesi affacciati sul Mediterraneo orientale. Ne vien fuori così
un’opera che scivola attraverso il tempo e lo spazio, caricandosi di aromi e
colori che sono vita. Ma altre ancora sono le novità che il lavoro disvela. Una
è che il disco è totalmente strumentale, fregiandosi di un impianto sonoro che
va a toccare territori fino ad allora inesplorati: la Persia antica,
innanzitutto, un fascinoso riferimento culturale che trova rappresentazione nel
santur (un particolare tipo di dulcimer che viene percosso da un martelletto).
In braccio al nuovo suono, Barnes e la Trost sono più tranqilli, sereni,
rilasciano la trama ritmica mettendo un freno alla proverbiale baldanza del
loro sound e riempiono di forti suggestioni ecologiste i vari spazi colorati in
folk. Avviene così il tangibile
ridimensionamento di quelle fanfare balcaniche da sempre cifra stilistica del
duo, con gli ottoni che da elemento fortemente caratterizzante si fanno
presenza discreta. Si tratta di un piccolo, benefico shock; gli esuberanti
esecutori di Cerbantine e Delivrance (rispettivamente 5° e 4°
album della coppia) hanno deposto gli strilli e procedono ad uno sviluppo più
meditato della materia riprendendo certe lezioni dei già citati Dead Can Dance e di più avveduti world musicians come
il libanese Rabih Abou Khalil, o il maliano Ali Farka Toure. L’impiego di vere
e proprie eminenze grigie in materia come il clarinettista Cuneyt Sepetci o il
cimbalom nelle mani di Unger Balasz e una serie di altri gradevoli “trucchi”
spiegano il nuovo corso degli artisti impegnati a contaminare folk, suoni di
mille colori e istanze naturaliste, esplicitate in modo più o meno evidente
lungo tutto il percorso dell’opera. Non estranea a tutto questo, infatti, la
filosofia che sottende l’intero disco: Forest Bathing (letteralmente
bagno nella foresta) è la traduzione in inglese di shinrin-yoku,
esercizio che praticamente consiste nell’addentrarsi all’interno di boschi e
foreste per assorbirne tutti gli influssi positivi allo scopo di combattere
ogni forma di stress. Talvolta tali istanze le troviamo riflesse nei titoli dei
brani come lapalissianamente avviene in The Sky Is Blue, The Desert Is
Yellow, che con linguaggio sinuoso e carico di potenza evocativa rende
omaggio alla musica del deserto; oppure in The Magic Spring, uno
struggente adagio che potrebbe essere uscito dalla penna di un Ennio Morricone
in vena di esotismi; in A Broken Road Lined With Poplar Trees, in cui
viene messa in scena un raffinato quadro di “folk da camera” che trasuda
serenità agreste da ogni nota; o anche in The Washing Bear, l’unico
episodio ad alto tasso di esuberanza, in cui protagonista è la tromba virtuosa
di Sam Johnson. A volte invece vengono disvelate dalle fascinose trame degli
arrangiamenti: è quanto avviene nell’ipnotica Alexandria che omaggia,
attingendo dal grande paiolo della tradizione musicale maghrebina, la metropoli
portuale dei faraoni affacciata sul mar Mediterraneo; in Babayaga, breve
filastrocca infantile dedicata a quella che nella tradizione slava è la strega
cattiva dei boschi; nella triste melopea tzigana di A Song For Old People/A
Song For Young People, in cui il violino virtuoso della Trost si strugge in
passionali suggestioni magiare; nella breve, sincopata Night Sneaker,
evocativa e duttile rosa del deserto, giocata su di un tempo contratto e su sinuosità
arabe; le stesse che informano di sé gli oltre 5 sofferti minuti di Byati
Maqam, ove vengono indagate in profondità le mescolanze tra stilemi griot,
musiche beduine e venature subsahariane. La festa del disco si completa con la
melodiosa The Shepherd Dogs Are Calling, oggetto della presente analisi.
La ballata è una vaporosa, dolce sbandata dove gli strumenti si fanno schiuma
di sogno. Qui Barnes e la Trost danno vita ad una macchia di suono ove una
nuvola di violino e strumenti a fiato abbelliscono il dettato di una sezione
ritmica appena accennata. Balladeers in crescita esponenziale, i due si
fanno vincere dal tormento melodico e sognano di nuovi mondi romantici, capaci
di durare oltre l’effimera stagione della moda. E’ musica senza tempo e senza
confini geografici. Musica che ha segnaletica non definita e che da linfa a
verniciature che sanno di Grecia (affiorano echi di gente che mai ti
aspetteresti, come gli Aphrodite’s Child di ellenica memoria o il Demis Roussos
solista). Ma potrebbero essere anche armonie che si aprono al gesto familiare
della musica del meridione italiano, dove prevalgono un’ispirazione calma ed
una visione serena delle cose. Tutti luoghi, quelli citati, ove pecore e cani
pastori – “shepherd dogs”, appunto – son presenze parte di un’iconografia
tradizionale e consolidata… come nelle highland scozzesi, dove i pascoli
sempreverdi sono sferzati dalla fredda pioggia del nord e dalle onde schiumose
di un mare scuro e perennemente agitato.
Citazione non casuale, la presente, visto che la terza coordinata musicale su
cui poggia il brano è costituita dai fogli scozzesi di Alasdair Fraser da
Clackmannan, Scozia, immenso violinista dal grande cuore romantico, dalla
tecnica prodigiosa e dalla visione panoramica della musica che lo porta a
strizzare l’occhio anche alla classica.
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