Dopo Pablo
Honey del 1993 e The Bends del 1995, due album onesti e frizzantini
ma che, pur non potendoli definire un inizio stentato, di certo non fornivano
particolari indicazioni sulla radiosità del loro futuro, i Radiohead con O.K.
Computer del 1997 approdano alla prima pietra miliare del loro affascinante
e celebratissimo percorso musicale che
sancirà la loro appartenenza in pianta stabile al gotha dei più significativi
gruppi rock a livello planetario. La bibbia Rolling Stone ha inserito ben
cinque loro albums nella lista dei migliori 500 album rock di tutti i tempi
(onore condiviso soltanto con i Beatles), oltreché in quella dei 1001 album da
ascoltare prima di morire, mentre la stessa rivista ha incluso i Radiohead
nella classifica dei migliori 100 artisti. Se tutto ciò non bastasse, nel 2015
una meritoria istituzione come la prestigiosa
Library Of Congress americana ha definito O.K. Computer album “culturalmente,
storicamente ed esteticamente significativo”. Non è un album di presa
immediata O.K. Computer, anzi, è un disco anticonvenzionale che veicola
uno spleen introspettivo, spesso e volentieri decisamente introverso, com’era
nelle lune del loro cantante e leader Thom Yorke, trasformando il brit pop dal
quale erano partiti in un “altrove” intenso e bellissimo. Se volessimo fare un
paragone comprensibile anche per il pubblico meno avvertito e facendo i dovuti
distinguo, potremmo dire che O.K. Computer sta ai Radiohead come Ummagumma
sta ai Pink Floyd, un gruppo al quale i cinque dell’Oxfordshire sono stati
spesso accostati. Brani come la chitarristica Airbag che riesce
nell’impresa di rendere intimista e umorale uno strumento perlopiù associato a
climi molto più fisici e concitati come la chitarra elettrica; come il
gioiellino liquido e uterino di Subterranean Homesick Alien; come la
dolcissima Let Down che fa della melodia e della regale alterità i suoi
punti di forza; come la ultra-famosa Karma Police (anche su singolo) in
cui la band costruisce un perfetto brano pop senza scendere in melensaggini e
stucchevoli zuccherosità; come la vivace Electioneering dove il rock
struggente della band viene filtrato da un wall of sound chitarristico ipnotico
e post-umano; come l’inquietante e sofferta Climbing Up The Walls che
cerca redenzione e brividi di umanità terminale sulle corde di una chitarra che
più lirica non si potrebbe; come la ninna nanna di No Surprises che pare
costruita da grumi di puro spirito; o come la lentissima e sofferta The
Tourist, i cui la band si macera in più di cinque minuti drammatici e ansiogeni.
Queste le vette più alte di un album prezioso come una reliquia, dove rock,
pop, elettronica si fondono in un canto nuovo e assoluto. Poi, naturalmente,
c’è Paranoid Android, amatissima dal pubblico ed apprezzata dalla
critica, una volta tanto concordi nella valutazione. Descritta dalla band come
un improbabile connubio tra DJ Shadow ed i Beatles, Paranoid Android è
una di quelle canzoni che, come si usa dire, restano. Anche secondo Thom Yorke
nel brano è presente un indiretto riferimento ai quattro di Liverpool: “Iniziò
che erano tre canzoni separate e non sapevamo che farne. Poi pensammo a Happiness
Is A Warm Gun (dal doppio bianco del 1968 n.d.a.) che erano
tre piccole canzoni che John Lennon mise assieme, e ci dicemmo, perché non ci
proviamo?”. Il risultato è semplicemente strepitoso: il primo tassello del
mosaico è un inebriante impasto di chitarra acustica e voce, con il resto degli
strumenti suonati con grazia e levità come solo i Feelies sapevano fare e con
il canto malato di Yorke capace di dare ancora identità, o meglio, prospettiva
a una cosa come il rock. Una breve, improvvisa impennata della 6 corde
elettrica ad animare lo spazio ed il tempo e poi una solennità chiesastica si
impossessa del brano restituendo visioni psichedeliche e ondeggianti ricami di
voci. Infine un’accelerazione repentina e quella vertiginosa coda di una
chitarra acidissima che geme e si contorce negli ultimi spasmi prima
dell’improvvisa fine di tutto.
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