Una grandissima “rockeuse”! Sheryl Crow è stata
definita dai “chierici” rock degli anni ‘90 la Springsteen in gonnella e il
paragone non è né azzardato né irrispettoso. Rampolla di buona famiglia, solida
middle-class americana, padre avvocato e trombettista a tempo perso, madre
insegnante di pianoforte, Sheryl cresce in un ambiente famigliare stimolante e
sembra vivere la sorte dei cadetti nelle famiglie nobili. Narrano le cronache
che l’albero genealogico dei Crow può vantare addirittura un bisnonno di Sheryl
membro del congresso. La ragazza è iper-attiva e ricca di straordinaria
energia. Sorretta da una fede incrollabile in se stessa, non manca nessuna
delle tappe fondamentali e formative della vita: studia, si laurea, eccelle
nell’atletica, fa la majorette, si impegna nel sociale, vince un concorso di
bellezza, riceve attestati di merito come compositrice, performer ed educatrice
musicale e trova pure il tempo di cantare in una band amatoriale, tali
Cashmere. Dopo la laurea insegna musica durante la settimana e canta nei club
durante i weekend. Tra la fine degli anni ’80 ed i primi dei ’90, getta le basi
per la futura carriera: decisa ad accettare qualsiasi esperienza atta a placare
la sua ansia di crescere, inizia a frequentare i primi nomi importanti nel rock
che conta. A quel fine tendono le prime esperienze musicali professionali che
la vedono come cantante in alcuni jingles pubblicitari, tra cui quelli per Mc
Donald e Toyota. Viene poi inserita nel libro paga di Michael Jackson che la
vuole come corista durante il Bad tour, e forte di tale esperienza e
fidando che i tempi siano cambiati e dunque riesca un qual successo, finisce in
studio con Stevie Wonder, Don Henley, Belinda Carlisle, Kenny Loggins e Neal
Schon, per dirne alcuni. Avvenente e sexy (rivolgersi ad Eric Clapton e
all’attore Owen Wilson per le referenze), anche gli studi televisivi ed il
cinema la reclamano accolgliendola a braccia aperte, e dando il via ad una carriera parallela che continua a tutt’oggi.
Ma è dal rock che Sheryl ambisce ad essere “magnetizzata”, comunque accada.
Così, nel 1993 approda al debutto discografico, Tuesday Night Music Club,
album dal corretto approccio alla materia rock, con più di una esaltante fuga
in avanti, che, grazie al successo che arride al singolo All I Wanna Do,
si piazza al terzo posto della classifica di Billboard. E’ uno di quegli album
definiti in gergo sleepers (dormienti), dato che raggiungerà i 4,5
milioni di copie negli USA ed il secondo platino in Gran Bretagna solo dopo
quindici anni dalla pubblicazione, nel gennaio 2008. Comunque, al momento della
sua uscita, miss Crow si prende l’enorme soddisfazione di sentirsi dire da Bob
Dylan, suo idolo da sempre che l’aveva invitata al Madison Square Garden nel
1993 per celebrere il suo compleanno: “Sono trenta anni che canto in giro,
abbastanza da potermi rendere conto del talento altrui. Tu possiedi veramente
qualcosa”. Con viatici di tale portata, la carriera veleggia dunque sicura,
anche se ci vogliono tre anni per avere tra le mani il nuovo album di Sheryl
Crow. Il suo secondo exploit solistico data infatti 1996 e corrisponde
ad un disco intitolato semplicemente con il suo nome. Basta ascoltare il brano
d’apertura Maybe Angel, con le sue sonorità in perfetta sintonia con i
tempi, per capire senza troppi fraintendimenti di che pasta era fatta l’allora
34enne del Missouri. Ma tutto l’album è vivo e godibile, pieno zeppo di brani
classic rock che ben figurerebbero nel canzoniere d’America. Niente dunque che
già non si sappia, a ben sentire. Sheryl Crow non ha disperazione da spendere,
non oltraggia, non maledice; con piglio deciso e modi educati dimostra come il
rock possa venir letto altrimenti che non in chave de-evolutiva, restaurando il
clima, i suoni, le cadenze dello stile canonico. I riferimenti ci sono tutti: i
Rolling Stones, tanto per cominciare. Sweet Rosalyn starebbe benissimo
in bocca a Mick "Grandi Labbra" Jagger; l’accorato mid-tempo di Hard To
Make A Stand vale quanto una Honky Tonk Women o una Tumblig Dice
e altri compiti sul quaderno di bella dei Glimmer Twins; il nodo ritmico di
tablas che apre Everyday Is A Winding Road tende l’orecchio alla Sympathy
For The Devil di sessantottina memoria; mentre A Change Would You Do
Good e la bonus track Free Man sono due treni in corsa che alzano la
pressione come già Lies, Shattered e When The Whips Comes Down,
le pagine più concitate di un album artigliato dal “mal di rock” come Some
Girls, anno di grazia 1978. Ma il puntiglioso tourbillon di idee e
linguaggi classici li troviamo anche in due tocchi di classe in blue(s) che
rispondono rispettivamente ai nomi di Redemption Day e Love Is A Good
Thing, songs dal clima elusivo che, arricchite entrambe da un bouquet di
chitarra con vibrato, ammiccano quanto basta al vecchio Pop Staples, con o senza
i suoi Staples Singers. All’operazione di orgogliosa allusione al programma di
american music fornisce adeguato contributo anche una canzone come Oh Marie,
singalong di stampo tipicamente creedenciano e dal diligente tessuto
strumentale che “accomoda” piacevolmente classici come Lodi, Proud
Mary o Who’ll Stop The Rain. E’ ovvio che in un siffatto panorama
sonoro non poteva mancare un brano sintonizzato sulla frequenza del soul più
sudato e ritmico. Provvede alla bisogna Superstar, un’ipnotico e
trascinante R&B dall’appeal irresistibile che elabora uno stile fiammante e
si affida alla fisicità di un blue eyed soul tosto e incazzato. Ma il
quadro non sarebbe completo se non dessimo conto delle morbide atmosfere
sentimentali delle tre sinuose ballate che completano l’album: Home è uno spumoso sogno appena venato di country, The Book è un’onda vaporosa che
avanza lentissima e che si accolla gloriose memorie dei Led Zeppelin più
sognanti e amniotici: quelli di Houses Of The Holy e segnatamente di un
brano che è autentica amfetamina sonora come The Rain Song. Ordinary Morning è invece una
sofferta torch song che illustra con mano felice i sentieri sospesi in un limbo
di pura bellezza già di Aretha Franklin e Janis Joplin.
Questo finora descritto il contorno che avvolge If
It Makes You Happy, il mega hit che ha alzato drasticamente le quotazioni
di Sheryl Crow, spedendola sulla vetta delle classifiche di mezzo mondo e
facendone, assieme ad Alanis Morissette, la regina incontrastata del rock al
femminile anni ‘90. Ci sono canzoni che hanno quel non so che, che quando le
senti capisci subito che saranno un piacere condiviso da milioni di persone.
Canzoni un po’ ruffiane, se volete, ma così disarmanti nella loro bellezza e
comunicatività che portano le stimmate del successo impresse nella carne viva.
Se poi ci aggiungete un video che passa in heavy rotation in tutti i canali
televisivi, magari dove la protagonista non esita ad esibire tutta la sua
bellezza ed irresistibile sex appeal, allora non avrete più scampo. If It
Makes You Happy è una di queste canzoni. La potevate sentire alla radio,
alla TV, al supermercato, dal vostro dentista, sparata a tutto volume dai
finestrini di più di un auto, a qualche festa di paese suonata da qualche
improbabile cover band che cercava di fare del proprio meglio per non stuprarla
troppo. E se esistessero ancora quelle meravigliose macchine della gioia
chiamate juke box (ma che fine hanno fatto?), potete stare certi che If It Makes You Happy sarebbe stata una
della più gettonate e vi avrebbe accompagnato anche durante la passeggiata in
centro città al sabato pomeriggio. E dire che, a ben ascoltare, è una canzone
fatta di niente, solo di quella materia con cui son fatti i sogni: un inizio
semplice semplice, lineare e senza fronzoli. Sezione ritmica, chitarra
accompagnamento e la voce febbricitante (un pò alla Stevie Nicks) di Sheryl
che, laconico sbadiglio amplificato fino all’orizzonte di chi ascolta, si
adatta indolente al clima elusivo creato per l’occasione. Poi improvvisamente
arriva il momento topico che ti si conficca nel cervello per non abbandonarlo
mai più: la voce che fa un balzo di qualche ottava dispiegandosi roca e
aggressiva, le vene del collo che si ingrossano, le corde vocali che si tendono
nello sforzo e l’ascoltatore che abbandona qualsiasi cosa stesse facendo fino a
quel momento per farsi rapire da questa strega del rock e dal suo risolutivo
canto di gioia. La canzone è tutta qui. Certo, potremmo di dirvi dei ricami di
steel guitar, dell’efficace stop a metà brano con quel magico intervento di
chitarra con tremulo, o del solletico alla pancia causato dal breve ma intenso
assolo finale. Ma sarebbero tutti fiocchettini di contorno, tutte decorazioni
di complemento, attento maquillage. Quello che conta è la veduta
d’insieme, il tocco magico proprio della canzoni di razza. Già, perché non
l’avevo ancora scritto, ma If It
Makes You Happy proprio questo è: un brano di razza. Ma una volta brani
così non si chiamavano capolavori?
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