mercoledì 31 luglio 2019

Black Light - Calexico (1998) IN PREPARAZIONE




C’erano una volta gli anni ’80. Anni generalmente piuttosto invisi al popolo del rock, in quanto dominati da fenomeni musicali non precisamente edificanti. Onestamente, chi mai si è infiammato di fronte ad un disco di tecno-pop? Chi mai ha versato lacrime di fronte al declino di gente come i Duran Duran? Fortunatamente, rovistando con cura fra tanta plastica, anche negli anni ’80 qualcosa di appagante poteva essere trovato. Magari era necessario volgere lo sguardo verso terre sperdute, desertiche come quelle che costituiscono il sud-ovest degli States. Lì, tra cactus e pietraie potevi trovare gemme preziose come i Thin White Rope o i Giant Sand, gente forgiata da un ambiente duro che trovava rifugio in musiche meravigliose. Proprio dagli ultimi fuoriescono  Joey Burns e Joe Convertino, per dare vita nel 1996, a Tucson, Arizona, ai Calexico. Dopo un esordio nel 1995 che di nome faceva Spoke, nel 1998 i nostri giungono già al capolavoro. Perchè tale è Black Light, concept album evocativo affogato in un’ atmosfera messicana, scaldato dalla sabbia desertica e che possiede quella carica giusta di malinconia cui è facile abbandonarsi. Tra una manciata di introverse ballate acustiche, spiccano le sinuose movenze dello strumentale esoterico Gypsy’s Course che in apertura di disco ci investe, stordendoci, con un ubriacante fraseggio di fisarmonica e violoncello. Una bellissima orchidea sbocciata sul terreno di una soave tetraggine post-moderna che va ad arricchire un’opera irrinuciabile.

Screamedelica - Primal Scream (1991) IN PREPARAZIONE



Beautiful losers della scena indie inglese, gli scozzesi Primal Scream danno alle stampe i primi due album nella seconda metà degli anno ’80. Se ne accorgono in pochi, anche se Bobby Gillespie e soci non difettano certo di tanta passione, una notevole visione e una fragilità che li rende umani e allo stesso tempo unici. Deve arrivare però un certo Andrew Weatherall a spiegare bene ai ragazzi l’uso dei colori della loro tavolozza musicale. Incontrandosi la band ed il DJ ne esce che la tradizione rock e i ritmi acid-house possono avolgersi un un nuovo percorso. Screamedelica è una pulsazione estatica che riformula Stones, Beach Boys, PIL, Roky Erikson, il gospel, la disco e gli spazi cosmici in un inedito caleidoscopio sonoro. Sono gli anni ’90 che si manifestano abbaglianti e incantatori, marchiati a fuoco da una droga come l’ecstasy. Uno dei quadri più eccitanti del disco è Sleep Inside This House, presa a prestito dal repertorio dei 13th Floor Elevator di Roky Erickson che nel 1967 la piazzarono come brano apripista del loro secondo stralunato album Easter Everywhere. L’omaggio è amorevole e rispettoso ma il quarto di secolo trascorso si sente tutto: laddove gli Elevator costruivano 8 minuti di ordinaria follia psichedelica, i Primal Scream cucinano un piatto dall’incedere sensuale ma deciso dove il dub regna sovrano, le chitarre emettono fiotti sonori dalla natura aliena e le voci vomitano alienazione e paranoia. Troppo eccitante!

Hitsville U.K. - Clash (1980) IN PREPARAZIONE



Un disco unico ed inarrivabile. Un disco che definisce lo stato dell’arte del secondo gruppo punk per importanza dopo i Sex Pistols. Un disco perfetto che indica la strada al rock che dovrà venire per tutti gli anni ’80 da poco iniziati. Sandinista! è un eccitante patchwork che ci racconta la devozione dei Clash per funk, rhythm’n’blues, rap, folk, reggae, dub, calypso, rockabilly oltre all’intuizione di lavorare sulle possibilità offerte dallo studio di registrazione. Opera monumentale pubblicata nel dicembre del 1980 sotto forma di triplo album, Sandinista! si sviluppa sulla distanza di ben 36 pezzi, rendendo oltremodo ardua la scelta del vostro affezionato recensore di un brano cui dare le stimmate di più rappresentativo. Alla fine l’ha spuntata Hitsville U.K., chiaro riferimento nel titolo al marchio Hitsville U.S.A. con cui negli anni '60 la Motown di Detroit occupava stabilmente le prime posizioni di tutte le classifiche di vendita. Non è di meno la musica con quello spleen tutto zucchero e miele e ritmi ruffiani che avevano fatto la fortuna dell’etichetta di Berry Gordy. La canzone è squisita e sofisticata: se il testo è un peana che si riferisce all'emergente scena indie inglese, con le varie Creation, Rough Trade e Factory che lanciavano il guanto di sfida alle majors, l'arrangiamento raffinato e scintillante pare uscito da un disco delle Vandellas o delle Supremes. Un'introduzione con un hammond intimista di stampo gospel e poi una felice cavalcata sul dorso del basso di Joe Simonon che sostiene le voci di Mike Jones ed Ellen Foley (la sua ragazza del tempo) a sostituire quelle di Diana Ross e Martha Reeves.

martedì 30 luglio 2019

Today I Started Loving You Again - Merle Haggard (1968)



E così anche il cattivo ragazzo del country ci ha lasciato tre anni fa. E per lui “cattivo” non è solo un modo di dire: figlio della Grande Depressione finisce al riformatorio in giovane età e passa la gran parte degli anni ’50 dietro le sbarre, compresi tre anni a San Quentin per una rapina a mano armata. Viene definitivamente rilasciato nel 1960. Quello sarà per lui l’anno zero. Gli salva la vita Johnny Cash che nelle carceri americane spesso si è esibito. Da quel momento giura che sarebbe diventato una stella del country e così è stato. Titolare di una discografia sterminata, nel 1968 incide The Legend Of Bonnie & Clyde, album dalla bellezza adamantina che contiene al suo interno quello che resta il suo brano più famoso e struggente, tutto costruito sull’allure classica del miglior country: sezione ritmica, due chitarre acustiche, angeliche voci di sottofondo di stampo gospel e la voce maliosa di Merle che va a snidare i segreti del cuore.   Il titolo ci ricorda che in amore non è mai detta l’ultima parola e che a volte un vecchio amore ritorna disteso sul tappeto volante dei più dolci ricordi.
Non si contano le versioni di Today I Started Loving You Again, ma per noi di Noize On The Bayou quella di John Fogerty del 1973, sotto le mentite spoglie dei Blue Ridge Rangers, resta la rendition definitiva.

domenica 28 luglio 2019

Sitting In The Rain - John Mayall (1967) IN PREPARAZIONE



Se Alexis Korner fu il patriarca del british blues negli anni sessanta e settanta, John Mayall ne fu il pontefice massimo. Mayall fece dei suoi Bluesbreakers la fucina di incredibili musicisti e talenti (Eric Clapton, Mick Taylor, Peter Green, Andy Fraser, Jon Mark, Johnny Almond, Don "Sugarcane" Harris, Larry Taylor solo per citare i più significativi), diventando un'autentica istituzione, oltre a dettare le regole del genere e spesso infrangendole per crearne di proprie. Chitarrista, tastierista, armonicista, arrangiatore, compositore: un genio del blues ed un alchimista che il più delle volte spiazzava i puristi con ardite combinazioni strumentali, in cui i ruoli degli strumenti venivano sorprendentemente messi in discussione. Come quando, a cavallo tra i sessanta ed i settanta, decise di poter fare bellamente a meno di uno strumento cardine come la batteria. Pubblicata esclusivamente su singolo nel ’67, anticipando di un mese A Hard Road (ma oggi opportunamente acclusa alla Deluxe Edition dell'album), disco tanto bello quanto seminale, Sitting In The Rain introduceva al pubblico la chitarra di Peter Green che qui inebria arabescando un mesmerico fraseggio country-blues. A sorreggerlo una sezione ritmica stellare che verga la canzone in uno stile sobrio e rilassato (il fido bassista John McVie e il celebre batterista Aynsley Dunbar). Bella e genuina come solo i capolavori sanno essere, Sitting In The Rain consegna ai posteri, nelle persone di Green e McVie, il primissimo vagito dei Fleetwood Mac.  

Peggy Suicide - Julian Cope (1991) IN PREPARAZIONE



Un talento per la melodia sghemba tanto sviluppato da non contare epigoni. Nessuno può stare al passo di Julian Cope quando si tratta di mettere in scena la rappresentazione più completa della follia in ambito pop. Album intriso di psichedelia panteista ed ecologismo militante, Peggy Suicide è forse il vertice assoluto di una carriera che più arzigogolata non si potrebbe. Un disco troppo bello per essere vero, che può permettersi il lusso di esibire una varietà di stili che nemmeno Frank Zappa: si va da divagazioni lisergico-spaziali a ballate crepuscolari, da psichedelia barrettiana a veementi e acidi rock blues. Quanto a culto di devianza pop, dunque, Peggy Suicide è un’apoteosi emozionale che dopo 30 anni ancora ammalia e stordisce, scandita dai fiotti di uno strumentario eclettico e raffinato che si eleva da terra e fluttua in totale libertà espressiva ad irradiare beatitudine.



Mauro Rollin' On The River Uliana

King Progress - Jackson Heights (1970) IN PREPARAZIONE




All’epoca non se li è filati nessuno. Né in patria, né tantomeno fuori. Oggi non sono stati nemmno sfiorati dall’industria della nostalgia. E per quanto riguarda il futuro… beh, credo che  lo sconsolante trend verrà confermato. E’ proprio per questo che ne parliamo. Eppure avevano tutte le carte in regola per sfondare i Jackson Heights: un’etichetta rampante come la Charisma alle spalle per il viaggio incantato di King Progress, loro debutto adulto, una surreale copertina ideata dallo studio Hypgnosis e un pedigree che nella persona del loro leader, Lee Jackson, tirava in ballo i Nice di Keith Emerson. La musica poi era una tela su cui Jackson dipingeva la sua visione del pentagramma che prevedeva trame sottili ora diafane ora più movimentate. Basta ascoltare Cry Of Eugene, già nel repertorio dei Nice, una meraviglia di canzone che rimane enigmatica e avvincente come al primo ascolto.

Sound Affects - Jam (1980) IN PREPARAZIONE




Basta guardare la copertina di In The City, loro esordio adulto del 1977, per capire quale gradevole contraddizione all’interno della scena londinese settantasettina furono i Jam: tre tipi che sembrano usciti dal set di Quadrophenia e capitati quasi per caso nel turbinio del del primo punk, genere cui aderirono con energia e impeto senza però sposarne fino in fondo il credo. Del resto, se così non fosse stato, mai avrebbe potuto scaturire dalla mente di Paul Weller (autore del 90% del materiale della band) un ballata come That’s Entertainment, acustica quasi in toto e vagamente psichedelica, piazzata in bella mostra al centro di un album, Sound Affects, del quale riesce ad illuminare i solchi, unitamente ai cieli spesso musicalmente plumbei dei sibillini anni ’80.

St. Louis To Liverpool - Chuck Berry (1964) IN PREPARAZIONE




Un suono e uno stile imprescindibili, la quintessenza ultima del rock in immagine e musica. Di questo linguaggio Chuck Berry ha inventato alfabeto e grammatica, forgiato l’espressione e la tecnica definitive sullo strumento che ne è il simbolo per eccellenza: la chitarra. St. Louis To Liverpool, come facilmente si evince dal titolo, è l’album che fa il punto della situazione sullo stato di salute degli eroi del rock ‘n’ roll dei cinquanta in un anno cruciale, quello della british invasion capeggata da John, Paul, George e Ringo, ed un guanto di sfida gettato in faccia ai nuovi agguerriti concorrenti. Il risultato è un entusaismante ricettacolo di riff e assoli micidiali e di turgide scale blues trasfigurate nel passo veloce e sincopato del ritmo boogie. Su tutto You Never Can Tell, che si conquista sul campo lo status di standard rock e che colpisce a morte il cuore di Quentin Tarantino che ne farà uno dei temi più memorabili di Pulp Fiction

Born To Run - Bruce Springsteen (1975) IN PREPARAZIONE




Nei piani di Springsteen, Born To Run, il suo terzo album, doveva essere un capolavoro. E tale fù. Il suono del disco compendiava la dinamite dei suoi concerti, la grandeur wagneriana di Phil Spector, il melodramma straziante dei singoli di Roy Orbison. Qui sta l’inizio della sua reputazione di perfezionista. Lo dimostra plasticamente il contagioso errebi di 10th Avenue Freeze Out, la cui regale esplosione di fiati le da struttura e unicità. E’ tutto così bello, non c’è un particolare fuori posto: dalla contagiosa chitarra ritmica “schiaffeggiata” in perfetto stile Steve Cropper, all’insistente pianoforte di Roy Bittan che ha l’immane responsabilità di fornire alla struttura uno scheletro sufficiente, fino ad arrivare ad una delle più fantastiche linee di fiati che memoria d’uomo possa ricordare. E’ Steve Van Zandt il responsabile della “prodezza”: un giorno arriva in studio e trova i musicisti bloccati ad un punto morto non sapendo come rivestire la canzone. E lui, così, come niente fosse, sciorina tutto l’arrangiamento dei fiati cantandolo davanti a tutti. Corsi e ricorsi storici, allo stesso modo Steve Cropper e Otis Redding arrangiarono dieci anni prima i fiati di Mr. Pitiful all’interno dell’auto mentre si stavano recando in studio. E’ così che il chitarrista si è guadagnato un posto fisso sul libro paga del “Boss”, facendo di 10th Avenue Freeze Out uno dei più solidi monumenti alla musica a stelle e strisce mai costruiti. 

Some Velvet Morning - Vanilla Fudge (1969)




Credo non siano poi molti a ricordarsi di loro: giusto qualche sparuto nostalgico e poco più. Sicuramente nessuno tra i più giovani li porta più appesi al cuore. Eppure c’è stato un momento, breve ma intenso, in cui i Vanilla Fudge furono veramente grandissimi e la loro Some Velvet Morning era saldamente piazzata in cima anche alla nostra top ten. Giunsero da noi come degli extraterrestri, e come degli extraterrestri vennero presto reinghiottiti dallo spazio interstellare. Lo scorso anno ricorreva il cinquantenario del loro esordio su vinile e ci sembrava giusto spendere qualche parola su un gruppo che ha scritto alcune pagine che meriterebbero un posto speciale nella storia del rock. Sono comunque ancora in attività e stanno ancora incidendo dischi vivi e trascinanti. A buon intenditor…





Se andate su You Tube e ricercate Some Velvet Morning dei Vanilla Fudge, verrete catapultati di botto in quegli anni ’60 (ormai morenti nel caso in esame) tanto favoleggiati e mitizzati, ma concretamente molto meno frequentati (a posteriori, è ovvio) e di conseguenza conosciuti. Troppo amore e troppa nostalgia dietro questo video. Riprese d’altri tempi dove l’ingenuità è d’obbligo, il bianco e nero nitidamente naif è scontato e falde di musica già ascoltata affiorano dalle radici di un epoca aurea. Salgono così in superfice, con voce ancora attuale e stile che non perde un grammo dell’antica potenza, pruriti da psycho rock e squarci e tratteggi di una musica che viaggia lungo fantastiche traiettorie. Si, lo so: oggi nessuno si impressiona più davanti a reperti come questo. Ad ogni modo fu qualcosa di molto simile a questo video (ma con un impatto che va moltiplicato per 10 almeno) ciò che videro le mie fosche pupille da quasi quindicenne quando, nel settembre del 1969, le telecamere di "Mamma RAI", mandate in missione alla Gondola d'Oro di Venezia, trasmisero in diretta a tutta l'Italia la performance dei Vanilla Fudge. Dato che pretesero di suonare “veramente” dal vivo (e l'evento mal si conciliava coi tempi televisivi ed il playback del resto della compagnia cantante), venne allestita apposta per loro (così ci spiegò il buon vecchio Mike Bongiorno) una sala a parte, dove la band newyorkese avrebbe potuto esprimere tutto il suo potenziale rock… Ebbene, si espressero!!! Madonna mia!!! Mai vista prima una cosa del genere. Intanto, una canzone (canzone????) di oltre 9 minuti (1)!! E poi dal vivo!! Quindi sudore, smorfie, contorcimenti!! Carmine Appice (il paisà) che si avventava sulla batteria con braccia, bacchette e capelli che parevano volare da tutte le parti. Il bassista Tim Bogert, impassibile, con quell’aria da studente di college e con i suoi occhialetti dalle lenti rosa (del colore avremmo appreso solo più avanti, vista la tivù ancora tristemente in bianco e nero) per avere una visione del mondo più… rosea (2). Non meno importanti, anche se visivamente meno appariscenti, gli altri due pards: Mark Stein, voce setosa e tocco all’hammond dalla stringatezza quasi aforistica e Vince Martell, l’altro italo americano (al secolo Vincenzo Martellucci), dalla cui sei corde colante acidi dei più lisergici venivano sparati dei bruschi stacchi che arrivavano come vibro fendenti a schiaffeggiare le orecchie dell’ascoltatore. Quanto ammaliava quel sound: prima liquido, paradisiaco, psichedelico (che allora nemmeno sapevo cosa significasse), con l’ipnotismo di un coro lisergico, misticheggiante e madido di armonici, che pareva una serenata alle stelle; poi esplosivo, devastante, che riversava nelle orecchie d'Italia tonnellate di piombo fuso. Uno shock culturale! Una vera iniziazione! Per noi, che il massimo del live erano i Dik Dik a Sanremo o i Camaleonti al Cantagiro, ciò che stava avvenendo davanti ai nostri occhi sagranati ed increduli fù una messa pagana, un rito sciamanico dopo cui niente più sarebbe stato lo stesso. Risultato? La settimana successiva, dopo aver strameritatamente vinto la Gondola d’Oro, i Vanilla Fudge con la loro Some Velvet Morning potevano guardare dalla cima della Top Ten italiana (e parlo di quando nel Belpaese i dischi si vendevano) tutti quei canzonettari gaglioffi e popparoli (o pipparoli? Fate voi) che fino a quel momento avevano ammorbato l’etere e ferito le nostre orecchie. Per quanto riguarda il vostro affezionato scriba, una settimana di attesa era assolutamente fuori discussione, per cui il mattino successivo al sabbah veneziano mi fiondai dal mio abituale spacciatore di vinile dove mi sputtanai un mese di paghetta (come minimo!), faticosamente messa da parte per le grandi occasioni. E quale occasione più grande poteva esistere dell’acquisto di un libidinosissimo doppio album in edizione de luxe che la casa discografica, battendo il ferro mentre era ancora caldo, aveva allestito in esclusiva assoluta per il mercato italiano? Il feticcio si chiamava The Fantastic (titolo che più azzeccato non si sarebbe potuto e che io ribattezzai all’istante Il Vaniglione) ed al suo interno erano custoditi due autentici oggetti del desiderio: il primo era una compilation che conteneva alcune delle pagine più importanti della discografia della band (Some Velvet Morning compresa, ca va sans dire), mentre l’altro “padellone” altro non era che Rock & Roll, l’ultimissimo album dei quattro newyorchesi (il 5°) fresco di stampa (mese di settembre, anno domini 1969) e pubblicato (fatto per l’epoca più unico che raro) in contemporanea col mercato americano.
Pietra miliare di Near The Beginning (4° album metà in studio metà dal vivo, sempre anno domini 1969, però mese di febbraio), Some Velvet Morning è una cover che fluttua sciccosa tra i bagliori dello spazio interstellare. Accanto ad essa, in un disco che è tutto un fremito di rock evoluto e aromi lisergici, fa bella mostra di sé un’adrenalinica Shotgun dal repertorio di Junior Walker & the All Stars, a conferma di come i brani altrui, rivoltati come calzini e risputati col sorriso malsano di chi non ha paura di confrontarsi con la storia, fossero da sempre la compagnia preferita dei Fudge. Il resto del programma prevedeva un original come Where is Happiness, angosciante e acidissima chanson noire madida di umori psych e pulsioni dark ed una devastante Break Song, una jam di oltre 23 ubriacanti  minuti (ah, i sixties!) in cui la band allestiva on stage una copula tra blues (rock-blues) e sperimentalismo, vergata dai quattro collettivamente ed in cui ognuno aveva modo di sciorinare i tratti salienti del proprio solismo (inarrivabile, a tal proposito, uno stratosferico Tim Bogert che col suo rivoluzionario approccio al Fender Bass riesce a trarre sonorità che definire inusitate è un eufemismo). L’industria benemerita delle ristampe in CD e delle conseguenti bonus tracks ha recentemente rimpinguato il menù di Near The Beginning con la versione editata per il mercato dei singoli di Shutgun, altri due originals quali People, ipnotica melopea già lato B di Some Velvet Morning, la concitata Good Good Livin’, rockeggiante retro di Shutgun e, a seconda delle edizioni,  una stravolta The Look Of Love dal repertorio di Burt Bacharach.
Ed è proprio l’attitudine a travestire le canzoni della concorrenza intervenendo come uno stilista farebbe per trasformare in dark lady una sciantosa da belle epoque, il genius loci su cui intendo soffermarmi un attimo prima di affrontare la vera e propria disamina di Some Velvet Morning, non dimenticando che quest’ultima resta alla base di questo saggio. Il gusto della rivisitazione si palesa fin dal 1° album del ’67, permeando di sé tutti i cinque dischi incisi tra il ’67 ed il ’69 ed estendendosi anche a tutta la produzione successiva al primo silenzio forzato del gruppo iniziato nel marzo del 1970: una traversata del deserto, quella, lunga ben 14 anni in cui la gloriosa sigla fu costretta a sparire dalle luci della ribalta rischiando l’oblio. Il primo segnale di ritorno alla vita fu l’elettronico-danzereccio Mistery del 1984 (ultima uscita per una major, la Atco, sussidiaria dell’Atlantic) che pure di cover ne conteneva un paio, ma che rivelava un tratto sonoro perfettamente in linea col decennio più irritante della storia del rock. Fu comunque una ripartenza alquanto effimera. Da quel momento in poi sarebbe stato un cammino relegato ai circuiti minori del rock ed una carriera vissuta a sighiozzo: solo compilations e dischi live licenziati da improbabili etichette di sottobosco (in prevalenza tedesche) nel tentativo di riazzannare il mercato, senza però molte speranze e - ed è quel che più conta - senza un minimo di progettualità. Per un ulteriore disco veramente nuovo bisognerà attendere altri 17 anni da Mistery, con le file degli aficionados che nel frattempo si erano andate inesorabilmente assottigliando vieppiù ogni giorno. Non si va più in limousine, naturalmente, ma in autobus (sperando che non salga il controllore), restando svincolati (per sempre?) dal grande baraccone del rock che conta. Anche The Return, infatti, album del 2001, esce sotto l’egida di una microetichetta che fin dal nome, Hyperspace Records, mette in chiaro senza fraintendimenti quali siano le sue coordinate sonore. Al suo interno, accanto a nuove cover come Do You Think I’m Sexy di Rod Stewart (3), i Fudge non si limitano a coverizzare se stessi, come accade in una Need Love dal sound aggiornato per le orecchie del nuovo millenio, ma addirittura ricoverizzano quelle che già a suo tempo erano state canzoni coverizzate da loro stessi negli anni ’60 (aaargh!!!!).  Ma non finisce qui: risale al 2007 Out Through The In Door dove, come lascia intendere il titolo, sono i Led Zeppelin lo spettro grifagno sul muro di casa a suggerire il repertorio. Tutte cover di Page e compagni, infatti, quelle contenute nell’album, un repertorio arcinoto che subisce un processo di tornitura e molatura che gli dona i crismi dell’indispensabilità. Se però non ne avete avuto abbastanza di tutto questo riprendere, trasformare, riciclare, stravolgere, che ne dite di Spirit Of ’67, nono album in studio risalente giusto a tre anni fa e costituito, manco a dirlo, quasi esclusivamente da cover? Si va da Ruby Tuesday degli Stones ad I Can See For Miles degli Who. Da Break On Through dei Doors a Gimme Some Lovin’ dello Spencer Davis Group e via sessanteggiando. Il tutto fornito di una grinta e di un drive che non era affatto scontato aspettarsi da quattro “nonnetti” come loro. Geronto-rock? Non ditelo nemmeno per scherzo, cari miei! Chiamatela piuttosto libidine pura! (4)
Ma sto correndo troppo. Riannodiamo dunque i fili e torniamo agli anni ’60, rovistando in quei dischi che costituiscono il primo nucleo in cui si formò il Fudge-pensiero. Cominciando dalla loro prima volta su album nel 1967, ciò che tra i solchi del disco si offre alla nostra percezione uditiva è un intrigantissimo pastiche psyco-pop totalmente composto da brani altrui ed in cui il trattamento psichedelico viene applicato alla musica con il probabile aiuto di magiche pozioni che erano il Gatto con gli Stivali per scoprire l’ignoto: una twilight zone per sensi eccitati dove i santini di Timothy Leary (5) contavano più del volto rugoso di Lyndon Johnson (6). Pezzi da novanta come Ticket To Ride ed Eleanor Rigby di John, Paul, George e Ringo, She’s Not There degli Zombies di Rod Argent, People Get Ready degli Impressions di Curtis Mayfield, Bang Bang di Cher, You Keep Me Hangin’ On delle Supremes di Diana Ross e Take Me For A Little While di Trade Martin, esponente del cosiddetto blue eyed soul, genere in voga negli anni ’60, si trasformano in una danza multicolore che si nutre delle allucinate vibrazioni del rock e che scappa ad ogni rete. Si sbrigliano così suoni, idee e vivaci suggestioni, a mezzo di arrangiamenti dalla flessibilità tagliente e ad un pugno di canzoni che avverano il miracolo a più colori di un suono che consegna questo esordio alla storia.
Ancor più spinta l’operazione messa in cantiere in The Beat Goes On, 2° album del 1968 che ha il solo torto di eccedere in frammentarietà (si capisce però che la scelta è voluta), ma in compenso è ricco di pathos. Musicalmente è un volo ad ali spiegate e cuore in mano su tutti i mondi frequentati dagli eclettici quattro, il tutto filtrato attraverso una genuina ottica psichedelica che esce prepotentemente dal casellario della prevedibilità. Così, accanto a Sonny & Cher (7), di cui riprendono la celeberrima song che da il titolo all’album, dividendola in quattro fasi, troviamo frammenti dei soliti Beatles, di Elvis ed altri classici come Glenn Miller e Cole Porter, fino a scomodare nientemeno che Ludwig Van Beethoven di cui vengono riprese Fur Elise e Moonlight Sonata, abbracciate in un medley dal clima magico.
Lo zenith comunque i Fudge lo raggiungono nel successivo Renaissance, un visionario interstellar space di note futuribili e di poesia colta e maudit che di cover ne contiene un paio soltanto, ma una è talmente clamorosa da togliere letteralmente il fiato. Trattasi della rendition di Season Of The Witch di Donovan, che da nuovo standard rock frequentato praticamente da tutti viene riletta radicalmente con esiti sorprendenti e trasformata nella  mise en scene di un ideale soundtrack per un allucinato incubo da psycho-movie. Ciò che si ascolta è infatti un sofferente viaggio agli inferi fatto di alienazione e paura, un canto di disperazione che ben si muove nello spaventevole cosmo delle loro ossessioni. I Vanilla Fudge sono stati la più fastosa congiunzione astrale fra i Nice di The Toughts Of Emerlistdavjack ed i primi Deep Purple, quelli pre Gillan e Glover, mai uscita dalla fiammeggiante scena art rock di fine sixties. Andatevi ad ascoltare il corrusco panorama sonoro di River Deep Mountain High del gruppo di Lord e Blackmore (a proposito: è una cover di Ike & Tina Turner) o la sinistra ed inquietante Dawn di Emerson e compagni e scoprirete come lo stesso umore corrosivo scorra tra le note di tutti e tre i gruppi. “Easy listening before the end of the world” potrebbe essere il suo slogan perfetto: come immergere il braccio fino al gomito nelle chiare, fresche acque di una vasca… infestata dai piranas.
A questo punto, avendo già relazionato su ciò che era accaduto in Near The Beginning, resta ancora da raccontare cos’ha da dire sull’argomento cover il già citato Rock & Roll, lavoro forte oltreché di Need Love, original dal suono aguzzo e compatto, anche di tre renditions formidabili che girano sul mio stereo da quasi cinquant’anni. E che al sottoscritto piacciono ancora da pazzi tutte e tre. I Can’t Make It Alone è una delizia di torch song da mettere su alla sera per illanguidirsi fumando l’ultima cicca della giornata; arriva direttamente dal Brill Building (8), nei cui androni ancora aleggiano le gesta di Carole King e Jerry Goffin che ne furono gli autori. The Windmills Of Your Mind sono sei minuti di languori e di angosciosi fondali d’organo con la voce di Mark Stein che profuma di romanticherie e cadenze esauste. Cantata in origine dall’inglese Noel Harrison (1934 – 2013), era l’highlight dalla colonna sonora di The Thomas Crown Affair, film del 1968 con Faye Dunaway e Steve Mc Queen. Infine If You Gotta Make A Fool Of Somebody, standard R&B del 1962, portato nei piani alti delle classifiche di vendita dagli inglesi Freddie & the Dreamers e che qualcuno ricorderà nella versione italica cantata dal “Molleggiato” nazionale con il titolo di Il Problema Più Importante. Inutile precisare che i Fudge la trasformano da par loro incentrandola su un intersecarsi di linee di hammond e chitarra e su di un botta e risposta vocale psycho-soul tra Mark Stein e Carmine Appice (il massimo della goduria per chi scrive).
Trattamento altrettanto spettacolare – e qui torniamo a bomba - quello riservato pochi mesi prima al “mattino vellutato” che tra lentezze psichedeliche e aggressioni elettriche diventa un’altra rappresentazione della loro personale piece teatrale “Stravolgi La Canzone”. A sorridere compiaciuti dietro le quinte per la scelta ci sono gli originari titolari del brano: Lee Hazlewood (1929 – 2007) e Nancy Sinatra (sì, sì, proprio la figlia primogenita di “quel” Sinatra… devo precisare il nome di battesimo?). Lee Hazlewood - cantante, compositore e produttore - è un nome che non dirà molto al pubblico meno avvertito. L’uomo e la sua opera possiamo ormai considerarli persi nei meandri più oscuri della storia del rock. Nonostante la sua carriera affondi le radici fin negli anni ’50, periodo a cui risale la collaborazione col chitarrista Duane Eddy, e la sua sia una discografia lunga quanto un elenco del telefono, qui in Italia non se l’è mai filato nessuno. Eppure fu lo stralunato inventore di un sound che la stampa dell’epoca definì "cowboy psychedelia” o "saccharine underground", fino a legare il suo destino a Nancy Sinatra nei mid sixties. Il sodalizio sarà baciato in fronte dal successo per il mega hit These Boots Are Made For Walking del 1966, irresistibile e folgorante istantanea guizzante di soul e birbante di beat che dominerà le classifiche su entrambe le sponde dell’Atlantico (c’è da segnalare anche un onorevole 3° posto nella Hit Parade italica). In tempi recenti la canzone è stata (ri)scoperta (seppure in un’altra versione) dai creativi della pubblicità, al punto che non troppo tempo fa diventò un quasi tormentone.
Da Nancy & Lee, album a quattro mani del 1968, arriva invece (finalmente ci siamo) Some Velvet Morning, il cui arrangiamento dai toni alquanto drammatici è la migliore ambientazione per il solenne tenore di Hazlewood e la flautata voce di Nancy. I quattro Fudge la triturano e ce la risputano con voce totalmente nuova e stile potenziato: intonata col lauro sulla fronte, la canzone diventa portatrice di un sound dove la dolcezza di chitarre e tastiere trattate con una levità di tocco davvero pregiata si alterna a tellurici bridge. Vengono così tratteggiati paesaggi sonori rugiadosi e intensissimi, con la band che arabesca fili d’oro e corre nella brezza di velluti melodici straordinariamente coinvolgenti. Così, sull’irrefrenabile srotolarsi di continue e rinfrescanti magie viene costruita con genio una struttura compositiva tutta giocata sulla convivenza e sull’alternanza senza attriti di momenti mesmerici dall’estro dionisiaco e dall’afflato favolistico e romantico, con improvvisi fiotti di un impetuoso fiume che fa bere all’ascoltatore fino all’ultima goccia il liquido fortissimo di un impasto che freme e sconquassa. Una chanson di classe e magnetismo impareggiabili, a testimonianza di uno stile e di una scrittura il cui impatto è tuttora incommensurabile.
Arrivati a questo punto, come concludere la suggestiva ed incredibile storia di questo intrigante rimaneggiamento? Forse riflettendo sul fatto che spesso la realtà è più fantasiosa della fantasia stessa: quante probabilità esistevano, infatti, che una canzone di uno strano space cowboy che nessuno aveva mai sentito nominare, cantata in coppia con la figlia di Frank Sinatra e rifatta (ma sarebbe meglio dire stravolta) da quattro cavalieri erranti newyorkesi che avevano fatto dell’immaginazione che mozza in due il respiro la loro cifra stilistica, sarebbe arrivata, nel ’69, prima nella classifica italiana dei dischi più venduti? Di sicuro poche. Eppure, incredibile ma vero, è avvenuto. C’est la vie. Finalmente al potere c’era la fantasia. Fù così che il destino volle assegnare il ruolo di balia incaricata di svezzare gli italici kids, aprendo le loro menti, a quattro facce da fandango venute dalla Big Apple che trasformavano le altrui canzoni in psichedelici viaggi al neon. Cuore e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ‘70. 

(1) E già, perché il video di cui sopra ha come soundtrack la versione di studio, mentre a Venezia fu una questione di fuoco rock al cardiopalma, col minutaggio che si dilatò di conseguenza. Su You Tube potete bearvi al sound di quella tellurica esibizione, ma ciò che riuscirete a vedere sarà solo un’immagine fissa che vi costrigerà a lavorare di fantasia per indovinare ciò che accadde in quella serata da tregenda. Signori di You Tube, perche non bussate agli archivi di Mamma RAI e non salvate quel filmato dall’oblio prima che se lo mangino i topi? Scommetto che se ci saprete fare ve lo potrete portare via per un pugno di dollari. Al massimo, ma proprio a farla grande, per qualche dollaro in più.

(2) Due partners in crime, Bogert e Appice, che formavano una rhythm section che carica dell’ebbrezza dell’immaginazione andava spesso a prendersi il ritmo all’inferno e destinata ad una storia protrattasi per buona parte degli anni ’70: prima con i Cactus poi con il breve ma fortunato sodalizio transatlantico con Jeff Beck. Beck, Bogert & Appice (per i più pigri BB&A) vi dice niente? Era il 1973, l’epoca dei supergruppi. Ancora nebbia? Eppure la loro prompente versione di Superstition di Stevie Wonder da qualche parte dovreste averla pur sentita. O no?

(3) Sembra una stravaganza, ma se date un’occhiata alle note di copertina di Blondes Have More Fun, album di Rod The Mod targato 1978, scoprirete come Appice sia il co-autore della canzone. Senza contare che (e qui tutto torna) l’anno precedente, per l’album Foot Loose And Fancy Free, Appice (batterista in entrambi i dischi) portò in dote al cantante scozzese, dal repertorio dei Fudge, You Keep Me Hangin On, di cui vennero sostanzialmente tenuti inalterati sia l’arrangiamento che l’impianto ritmico: un roccioso mid-tempo che ritroviamo anche nella versione italiana dei Ribelli dal titolo di Chi Mi Aiuterà, differenziando così le tre renditions dall’originale delle Supremes che viceversa viaggiava al ritmo di un Motown R&B eccitato e nervoso.

(4) Ma come - non ve l’avevo detto? – questi quattro vecchietti - Dio li abbia in gloria – dopo più di 50 anni sono ancora in giro in formazione (quasi) originale, nonostante una sequela ininterrota di scioglimenti e successivi ricongiungimenti.

(5) Thinothy Leary: intellettuale, psicologo, scrittore e libero pensatore statunitense, noto per la sua posizione favorevole all’uso delle droghe psichedelche.

(6) Lyndon B. Johnson: 36° presidente degli U.S.A., successore di J. F. Kennedy, in carica in quel 1967.

(7) Non un eccentrico pallino il loro: il duo Sonny Bono & Cher (la Bona) all’epoca era la coppia più stilosa dell’american beat; haircut, make-up, immagine e tutto il resto… dove per resto si intendono canzoni che hanno fatto la storia. Volete qualche titolo? But You’re Mine che altro non è che la versione originale di Ragazzo Triste di Patty Pravo. Little Man che cantata da Milva (la pantera di Goro, vostro nonno dovrebbe ricordarsela per benino) resta Little Man ma perde per knock out al primo round il confronto con l’originale di quella che oggi è diventata la donna più rifatta del sistema solare.

(8) Il Brill Building non è solamente un edificio del 1931 situato a Manhattan, ma è anche luogo del cuore, favoleggiato e mitico. Una di quelle istituzioni che solo negli USA possono venire alla luce e che qui in Italia non ci è nemmeno concesso di sognare. Un tempio della musica e della creatività al cui interno erano ospitati uffici di case discografiche, studi di registrazione e litri di inchiostro usato per scrivere un numero inimmaginabile di canzoni che hanno cambiato il corso della musica. Tra coloro che registrarono, scrissero, stipularono contratti, pubblicarono e financo si accasarono nel Brill Building, stabilendo colà il loro quartier generale, possono essere annoverati musicisti e autori dal nome altisonante come Benny Goodman, Glenn Miller, Tommy Dorsey, Burt Bacharach, Neil Diamond, Neil Sedaka, Elvis Presley, Sonny Bono, Liza Minnelli, Phil Spector, Paul Simon, Laura Nyro e millanta altri che non cito per non indurre chi legge ad aspettarmi sotto casa con una pistola carica. Tra di essi anche i coniugi Carole King e Jerry Goffin, autori di tanti e tali successi (anche in proprio, vedi la pluridecennale carriera di Carole King come cantautrice) che il titolo di padri nobili della canzone americana è ampiamente giustificato.

Mauro Rollin' On The River Uliana





Psychocandy - Jesus And Mary Chain (1985)IN PREPARAZIONE





Avevano le idee chiare i Jesus And Mary Chain. Anzi una sola idea ma efficace: prendere delle accattivanti canzoni pop, riconducibili principalmente a certe melodie bubblegum o ai Velvet Underground del terzo album, e ricoprirle col rumore del feedback delle chitarre impiegato in dosi industriali. Oppure, come avviene in Just Like Honey dal loro primo album manifesto Psychocandy, unire le due cose assieme e sottoporre al medesimo trattamento un nume tutelare del pop come Phil Spector. Come? Semplicissimo: basta prendere l’incipit di batteria di Be My Baby e piazzarci sopra una narrazione sonora lenta e funeraria come solo Lou Reed potrebbe cantare, tanto da far sembrare le Ronettes delle muse malate dei bassifondi, e avrete così rispetto per il passato e luce per il futuro.

In Philadelphia - Wilson Pickett (1970) IN PREPARAZIONE





Orgogliosamente nero e funky. Voce abrasiva come la carta vetrata e sangre caliente. Nel 1970 il ragazzo cattivo del rhythm ‘n’ blues approda a Philadelphia, presso la corte di Gamble & Huff, per incidere In Philadelphia, il decimo album di una carriera gloriosa. Ma tra i suoi solchi non ci troverete i ruffiani ritmi danzerecci che tanta fama diedero ai due produttori nella prima metà degli anni ’70, bensì un’equa divisione tra soul evoluto, grezza funkiness e quei ritmi sudati che tanto picciono ai fratelli neri più cazzuti del ghetto. E per capire quanto sia in sintonia coi suoi tempi e odori di funk questo disco – questo grande disco – basta sbattere il grugno contro l’immenso iceberg dei quasi sei minuti e mezzo di Get Me Back On Time, Engine Number 9, un brano che dimostra come si possa essere duri, sporchi e cattivi anche muovendo il culo. Get up and boogie!

Born To Be Wild - Steppenwolf (1968)





Se provate a gettare la rete nelle turbolente acque della produzione rock di un anno fatidico quale il 1968 con l’intento di catturare i “pesci” più duri e cazzuti, vi renderete conto che in fatto di martellamenti e ustioni in salsa hard rock quel mare, per altri versi turbinoso e sincretico all’ennesima potenza, non è poi così pescoso come viceversa si sarebbe portati a pensare; e quando isserete a bordo il pescato vi troverete di fronte ad un bottino tutt’altro che pingue e ridondante, anzi. E’ comunque più che sufficiente un brano killer e fucking loud come Born To Be Wild per iscrivere gli Steppenwolf targati 1968 come gruppo fondamentale tra quelli maggiormente incazzati e dall’approccio più fisico. E non avessero fatto altro all’infuori di cotanto possente anthem, non avessero inventato che quel riff selvaggio e ottundente, ciò sarebbe più che sufficiente ad assicurare loro un’arruolamento definitivo tra le truppe d’assalto del rock più puntuto e muscolare, conferendo loro lo status di gruppo imprescindibile.



Epica e selvaggia. Bruciante come un tizzone ardente. La mitica Born To Be Wild, pubblicata il 15 luglio 1968 anticipando di almeno un semestre il fuoco ledzeppeliniano ed altri ganci al calor bianco, è musica di nervi e visceri, nonché la più probante delle dimostrazioni di quantocanadesi (trapiantati in California) Steppenwolf fossero ampiamente forniti di sangre, corazon y cojones. Già, perché non si capisce di cosa dovrebbe essere dotato se non  di attributi un gruppo che in pieno flower power licenzia un brano come questo, fatto di chitarre squassanti che sfarfallano al di sopra dei campi fioriti della sognata California come le valvole di un motore in fuori giri.
La storia della band ha radici profonde, profondissime anzi, visto che le prime incerte polle d’acqua sorgiva che sarebbero in seguito diventati gli Steppenwolf iniziano a sgorgare nel 1964, allorquando tali Sparrows da Oshawa, Ontario, Canada, complice la British Invasion di Beatles, Rolling Stones, Kinks e compagnia “beatlica” che fulminò il Nord America in quell’anno fatale, intravedono in fondo al viale la possibilità di agguantare la tanto agognata celebrità, emulando i nuovi eroi britannici. Caso vuole che li capitanasse proprio un suddito d’Albione emigrato in quelle contrade: tale Jack London (al secolo Dave Marden). Questo particolare viene abilmente sfruttato dalla band che, nell’intento di battere il ferro mentre è caldo dandosi una connotazione esotica, pensa bene di spacciarsi per un gruppo britannico arrivato in Canada a diffondere il nuovo verbo nato tra Mersey e Tamigi. Il resto della truppa era composto da Bruce Palmer, futuro bassista dei Buffalo Springfield e titolare nel 1970 di The Cycle Is Complete, uno dei frutti più succulenti che l’euforia creativa westcoastiana avrebbe regalato al mondo, C. J. Feeney alle tastiere, Jerry Edmonton (al secolo Gerald McCrohan) alla batteria (posto che avrebbe continuato a conservare anche dopo la trasformazione degli Sparrows in Steppenwolf) ed il fratello Dennis Edmonton (al secolo Dennis Eugene McCrohan), conosciuto anche con lo stage name di Mars Bonfire. Dennis lascierà il gruppo nel 1967 per abbracciare una carriera solista che avrebbe fruttato un paio di album (Mars Bonfire del 1968 e Faster Than The Speed Of Life del 1969) e continuando a collaborare con gli stessi Steppenwolf fino al 1975 (è proprio lui, tra l’altro, l’autore di Born To Be Wild). Contemporaneamente approda alla corte di una delle teste più matte e creativamente incontinenti mai partorite oltreatlantico: Kim Fowley, genio e sregolatezza, il bad boy del rock, nonché gioiello umano talmente raro, e per questo ancor più prezioso, che così in quei giorni ebbe a definire sé stesso: “Io sono le mente di un mostro nel corpo di un ragazzo”. Il frutto più diretto di tale collaborazione è contenuto in Born To Be Wild, album del 1968, dove la fatidica canzone che da il titolo all’album stesso è posta in bella evidenza come opening track e restituita in una sensuale e cadenzata versione strumentale dominata dall’Hammond di Fowley e punteggiata da una sezione fiati à la Mar-Keys. Altri walzer e calembours rimarchevoli sono una Hello I Love You dei Doors abilmente giocata sull’interazione tra chitarra fuzz e piano elettrico, una Soul Limbo di Booker T. & The M.G.’s che rende sentito omaggio al suono Stax, un’astuta e ammiccante Pictures Of Matchstick Men dal repertorio dei primi Status Quo (tutto a dimostrare come Fowley sia un convinto fautore della disorganizzazione fantastica della musica) ed una sorprendente Sunshine Of Your Love dei Cream, sottoposta anch’essa al trattamento di anarchisme fowleyano che suona sempre lascivo, repellente e ad altissimo potenziale d’intrattenimento.
Tornando agli Sparrows, tra il 1964 ed il 1965 la band dà alle stampe le sue prime testimonianze musicali che si sostanziano in una manciata di singoli ed un album dal titolo di Jack London And The Sparrows. Tutti vinili, questi, che scontano un’ovvia immaturità attraverso canzoni dall’abito semplice che pagano un inevitabile e pesante pegno al beat albionico. Il fatto saliente, però, sta negli avvicendamenti a livello di formazione: oltre a sostituire al basso Bruce Palmer con Nick St. Nicholas, e passare le tastiere dalle mani di J. C. Feeney a quelle di Art Ayre prima e Goldy McJohn poi, il line up registra l’ingresso in formazione di John Kay (vero nome Joachim Fritz Krauledat), passo fondamentale verso la più smagliante edizione del gruppo. Il giovane, allora ventunenne, era nato nell’aprile del 1944 a Tilsit in Germania: Prussia Orientale per la precisione, martoriata regione che alla fine del secondo conflitto mondiale venne occupata delle truppe sovietiche e conglobata parte nella Polonia e parte nel U.R.S.S. Oggi rimane una delle ultime vestigia degli accordi di Yalta come enclave di Kaliningrad (ex Konigsberg), chiusa tra Polonia e Lituania e completamente staccata territorialmente dal resto della Russia. All’incolpevole Joachim non venne risparmiata nessuna delle afflizioni che purtroppo la storia ci ha costretto a registrare in momenti di tale drammatica portata. Per prima cosa nacque orfano del padre Fritz, ucciso dai russi un mese prima che lui nascesse, poi, nel gelido inverno del 1945 (a nemmeno un anno di età, quindi), di fronte all’avanzata inesorabile delle truppe sovietiche che provvedevano all’evacuazione sistematica della Prussia, mettendo in atto una drammatica operazione di pulizia etnica, iniziò con la madre la fuga verso ovest giungendo ad Arnstadt, inizialmente sotto il controllo americano. Ben presto però la città verrà fagocitata dalla Repubblica Democratica Tedesca divenendone parte integrante e subendo l’occupazione delle truppe di Stalin. Nel 1949 madre e figlio riescono ad attraversare la cortina di ferro e raggiungono Hannover, come racconterà il nostro più avanti, nel 1970, nella toccante Renegade, commovente e drammatico grumo di vita messo in musica in Steppenwolf 7. Ad Hannover il giovane Joachim scruterà il divenire quotidiano apprendendo le notizie della rivolta in Germania Est del 1953 e di quella ungherese del 1956, represse entrambe da carri armati sovietici, fino a che, nel 1958, la famiglia riesce finalmente ad organizzare la propria vita trasferendosi definitivamente in Canada.
Il giovanotto, cui evidentemente non mancavano né personalità né tempra del guerriero, lui così forgiato e segnato nell’anima dalla complessa trama delle drammatiche vicende che il fato ingrato gli aveva riservato, non tarda ad agitare il bastone del comando detronizzando, tra il ’66 e il ’67, il vecchio leader della band, Jack London. Il quintetto si accasa quindi con la CBS nel corso del 1966, si trasferisce a New York e per la major registra i brani di John Kay & The Sparrows, viva e godibile raccolta rock blues che gli scaltri executive della casa discografica acconsentiranno a pubblicare nel 1968, solo dopo il successo arriso agli Steppenwolf con la loro Born To be Wild. Nel 2001 l’album verrà riportato alla luce (con l’aggiunta di una discreta messe - ben otto - di carteggi inediti) dai solerti “archeologi” della mai troppo lodata Repertoire che, incaricati di fornire i pani e i pesci per lo schizoide banchetto delle ristampe, allestiranno una gustosa istantanea che, saggiata oggi, ha l’aspetto del reperto proveniente da epoche lontane, tanto potrebbe suonare bizzarro e datato alle orecchie del nuovo millennio oggi al potere. Attenzione, però: ciò non significa che l’abito sonoro della band si risolva in un che di stanco e scipito. Certo, il tempo rock-blues che lo ha generato e cui la musica giovanile pose mano nella sua migliore stagione, è trascorso da un pezzo: i principali capostipiti del genere han sciolto la lega da anni e la maggior parte di loro son passati a miglior vita. Pure, questo suono scarno e nervoso sa ancora dire la sua nel concitato dibattito intorno alla musica ai giorni di Hendrix, suscitando anche oggi non pochi consensi.
John Kay & The Sparrows fa raccolta di piccoli pezzi d’artigianato, luminosi nella loro tremenda forza qualitativa, in cui i nostri fanno puntuale raccolta di molte indicazioni di Chicago Blues sparse sui libri dell'epoca: come nell'iniziale Twisted, che può vantare bella forza chitarristica e diabolico istinto rock-blues, nella classica Baby Please Don’t Go, ripresa con un senso del blues filologicamente ineccepibile, nella gustosa Bright Lights Big City, sintonizzata sulla stessa frequenza della Butterfield Blues Band, nell’iper-classica Good Morning Little Schoolgirl, restituita con la devozione dei discepoli e nell’accattivante King Pin che altro non è se non I’m Your King Pin, sgorgata dalla penna di un Manfred Mann in stato di grazia e contenuta in The Five Faces Of Manfred Mann, album di debutto degli inglesi datato 1964. Altri rivoli blues sono la concitata Square Headed People, portata in gloria da un ottimo lavoro di slide, la profetica Goin’ To California, scritta da John Kay himself e qui presente in due versioni, una delle quali prende le mosse dal canone blues per arrischiati “voli” sul territorio della nuova cultura. Ci sono inoltre l’immancabile Hoochie Coochie Man, devoto omaggio a Muddy Waters e Willie Dixon che le conferirono lo status di standard immortale e un’orgogliosa Goin’ Upstairs di John Lee Hooker, ove la band allenta le briglie del suono farcendolo con un’aromatica punta di rock. Non è questo l’unico episodio in cui la band si scatena in dichiarazioni di potenza e liberazione energetica in nome del rock: accade in Down Goes Your Love Life, fiero strillo sostenuto dalla scioltezza dei ritmi e punteggiato da un’eloquente chitarra fuzz, oppure nell’accorata raccomandazione sessuale di Can’t Make Love By Yourself, stigmatizzazione della masturbazione scritta da Dennis Edmonton e banco di prova per la Born To Be Wild che verrà. Astuta e ammiccante anche Too Late, siglata dal bassista  Nick St. Nicholas, che scivola senza affanno al ritmo sciolto di uno scafo sulla superficie di un mare in bonaccia, mentre l’interessantissima Tighten Up Your Wig miscela gli inchiostri di rock e blues mettendo in mostra un magistero strumentale che evidenzia la forza di un collettivo che non teme di competere con i migliori strumentisti dell’epoca.
Non mancano, ovviamente, escursioni nel “paese di Alice” o, se preferite, passeggiate sui marciapiedi di Haight Asbury: le forme son piene e i colori accesi nella muscolosa Green Bottle Lover, che nel segno dei Jefferson Airplane più acidi consegna agli strumenti le suggestioni di Woodstock e Big Sur, mentre la lenta e solenne Tomorrow’s A Ship rende deferente omaggio ai Mamas & Papas con tanto di pausa à la Monday Monday. L’ala cherubina del west coast sound si sostanzia in una Chasing Shadow con la band che maneggia piccole magie come le tubular bells a far da sfondo, mentre la stralunata melopea di Isn’t It Strange si immerge in allucinate atmosfere psicotiche che sembrano proporsi come una sintesi tra i più stralunati e visionari starsailors e i Velvet Underground più malati. Lascio intenzionalmente in chiusura una scarnificata The Pusher che può a buon diritto essere considerata la prima pietra dell’edificio musicale Steppenwolf. La troveremo infatti nel loro primo album, mentre l’autore, Hoyt Axton, celerà pudicamente la propria personale versione fino al 1971, allorché la includerà nel suo album Joy To The World.
E’ da quest’ultima premessa che raggiunge inevitabilmente le nostre narici l’acre odore di selvatico del “lupo della steppa”, ché grandi novità e rivoluzioni copernicane si profilano all’orizzonte degli Sparrow: infatti, dopo l’ennesimo cambio di formazione, Michael Monarch al posto di Dennis Edmonton e Rushton Moreve al posto di Nick St. Nicholas, il gruppo si assesta nella formazione definitiva, cambiano nome in Steppenwolf e decide di muovere alla volta dei più dolci climi di California. E’ la fine del ’67 e nel sacco della band vanno già materializzandosi gli eclatanti clangori metallici di Born To Be Wild.
La canzone infatti scorrerà tumultuosamente, contenuta nel primo omonimo album della band che era un patchwork di pugnalate alla schiena e di morsi all’intestino della West Coast. Band apocrifa, gli Steppenwolf, non c’è dubbio, nel loro primo disco non si genuflettono davanti al verbo psichedelico o al Frisco sound dalle inflessioni più elettriche. In fondo, gli rendono omaggio (e pure di straforo) nella sola The Ostrich, quasi sei minuti di elettricità che si muovono con gusto e potenza sui tracciati che saranno seguiti di lì a non molto anche dai Quicksilver di Who Do You Love, per poi spegnersi in una cacofonia free-form paracadutata da chissà dove. Il resto del programma è un blend sonoro che aggiorna le vecchie ricette come i grandi cataloghi di blues, soul e rock’n’roll cucendo insieme un vecchio slow di loro conoscenza come Hoochie Coochie Man, già nel repertorio degli Sparrow, ma qui riproposta in un idioma elettrico che muove con gusto sui tracciati strumentali di John Kay e dell’ineffabile tastierista Goldy McJohn. Gli fa da contraltare Your Wall’s Too High, cadenzato rock blues che sa filtrare l’esuberanza propria del genere attraverso appropriati schemi e arrangiamenti, grazie anche al puntiglioso lavoro di produzione di Gabriel Mekler. Il produttore contribuisce, a quattro mani con John Kay, anche alla stesura di Everybody’s Next One e Take What You Need, due brani onestamente dispensabili, allestiti senza che mai salga il tono del discorso o si prospettino soluzioni intriganti. Il tono invece sale quando i nostri evocano, omaggiandolo, un fior di sacerdote del rock‘n’roll come Chuck Berry, cui dedicano la loro Berry Rides Again, scanzonato jive in cui sciacquano tutti, ma proprio tutti, i trucchi e i temi del vecchio Chuck. Come mestieranti ormai consumati, nonostante Steppenwolf sia l’album di esordio, san “coprirsi” attentamente anche sul versante rhythm ‘n’ blues esponendo in vetrina una Sookie Sookie forte e accigliata, cover dal sangue ribollente che interpreta il mondo con la chiave dell’eccitazione e che sta a testimoniare l’entusiasmo e la grinta di un Don Covay targato 1966. Non volendo però rinunciare a fare estesa cronaca mi sta a cuore informare di come il gioco degli omaggi incrociati via Steppenwolf tra mondo rock, jazz e errebi ci apra più larghi orizzonti: ecco allora Grant Green, chitarrista tra i più belli della storia del jazz che tra i fini tratteggi ed i piacevoli abiti strumentali del suo album Alive! del 1970, allungherà a dismisura gli spazi edificando una Sookie Sookie scorrevole e legata al grande “dizionario del soul” per il cordone del ritmo. Undici minuti aggiustati in chiave acid jazz quando tale definizione non era nemmeno nel regno delle ipotesi. Gli tien bordone Wilson Pickett, il wicked guy della black music, che scopre la violenza del rock nella sua forma elementare e che chiuderà il cerchio da par suo aggredendo e annichilendo chi ascolta con un’adrenalinica e selvaggia rendition di Born To Be Wild sul suo album Hey Jude del 1969. Non manca comunque il lato soft della band che si sostanzia in una A Girl I Knew tenera e suadente che illustra con fine tratteggio le virtù di una lei per poi colpire di scioltezza con feedback e lame di chitarra fino a sciogliersi in un anticlimax finale che ha proprio l’aspetto di un’esalazione.
Last but not least, i nostri arrivano al nocciolo della questione e si dimostrano anche capaci di parteggiare senza mezzi termini per il suono duro e spietato. Non sembri una contraddizione, ma a questa categoria si iscrive anche la lenta Desperation, ballatona hard da accendini accesi nel buio, una Knocking On Heaven’s Door dei Guns‘n’Roses ante-litteram, che sparge manciate di benefico conforto e good vibrations per gli astanti e trova la band à son aise con quelli che nel giro di pochi anni diventeranno i più vieti trucchi della musica hard. Ancora stile elettrico ma diversamente formulato per The Pusher, sulla quale la band ritorna dopo un anno per meglio definire il suono Steppenwolf. Il nuovo trattamento cui viene sottoposta la song di Hoyt Axton ci rivela il passo in avanti compiuto dalla band che rimixa la complessa materia della carne nuda e del disagio esistenziale affinché i segni della perversione e della finitudine abbiano il sopravvento. E’ una ballata perversa di velvettiana memoria, una poesia malata che pone l’assurdo distinguo tra uno spacciatore che ti procura dell’erba ed un figlio di puttana che ti vende l’eroina strafottendosene della possibilità che l’indomani mattina potresti essere morto. Per l’operazione i nostri impiegano tempere cupe, ogni sorta di connessione luciferina, procedendo per spigoli e John Kay (un Jagger in acido o se preferite un Lou Reed morso d’inquietudine) si macera invano sporcando voce e strumenti di quell’infelice materia.
E’ però con Born To Be Wild che gli Steppenwolf oltrepassano le “porte della percezione” sonica combinando fuochi e sangue. In essa, infatti, optano per uno stile più crudo, brutale, animato dal sacro fuoco del rock e tramutando certi grumi rock blues in solidi blocchi di suono. Inserita l’anno successivo nella colonna sonora di Easy Rider, il road movie definitivo della storia del cinema con Peter Fonda e Dennis Hopper, questa song elettrica e dura di accordi scheggiati diventerà l’inno di ogni biker ed il perfetto  soundtrack per i chilometri  macinati su una freeway californiana da un renagade che cavalca la sua Harley Davidson. Una great ball of fire che poi è la stessa di certe incisioni dei Sonics, dei coevi Amboy Dukes di Ted Nugent o di certi clangori con cui gruppi come i Deep Purple o fratellini minori come i Gun stavano mettendo a ferro e fuoco le rive del Tamigi. Per non parlare di Mr. James Marshall Hendrix che già da un paio di anni, come un lungo joint di marijuana, volava con la sua musica dentro il cervello del popolo rock scavando una lunga strada lastricata di riff infiammati e stoccate chitarristiche infide e taglienti. Tutta roba tosta, insomma. Roba capace di far voltare la critica, un rock maschio che osava tirare i peli al maestro Elvis Aaron e prendere per il bavero un pubblico intento a confezionare ghirlande di fiori psichedelici raccolti dai bucolici prati di Laurel Canyon. Come si vede, riferimenti più che qualificanti quelli di cui sopra, che stanno a dimostrare come nulla si inventi e tutto si trasformi. Così sui bagliori sonici dei signori appena citati e dopo averne metabolizzato il drive in calore, sublimato lo spirito e reinventato la lettera, il gruppo canadese ci ha costruito sopra uno sferragliante  sabbah di elettricità e devastazione amplificata, in un frenetico ripercorrere le hot roads dei favolosi sixties. Loro non lo sapevano, ma così facendo l’heavy metal era stato inventato. “I like smoke and lightning. Heavy metal thunder” declama ad un certo punto del brano John Kay, senza poter nemmeno lontanamente immaginare che di lì ad una manciata di mesi il destino di quella felice intuizione lessicale sarebbe stato quello di contraddistinguere per tutti gli anni a venire un intero genere musicale.
Piace ed elettrizza la cadenza selvatica del pezzo, da ballo sciamanico in qualche juke joint oscuro from dusk till dawn: chitarra, basso e batteria che battono un tempo frenetico con l’organo ad allargare la prospettiva e a dilatare la sfera delle emozioni, fino a diventare una tempesta sonora tremendamente incalzante, fatta di lapilli musicali che mirano verso l’alto e rendono adrenalinica ogni nota. Sopra questo inferno di rock blues volteggia, con la ruvidezza di maniere degna di un incubo metallurgico, la voce rozza e sporca quanto basta di John Kay, una delle più abbacinanti ugole della West Coast, una sulfurea e ruvida vocalità dall’eloquenza virile che scuote e sconquassa fin nel midollo: un bel grido rock, insomma.
La farfalla esce così dal bozzolo, John Kay è il nuovo “Lucignolo” del rock californiano, cattivo e malizioso quanto possono consentire le bisogne del consumo, e d’un sol botto guadagna posizioni su posizioni nella gerarchia ufficiale del rock che conta. Anche l’iconografia certifica la nuova situazione. Basta guardare le foto della band, dove Kay, torvo ed inquietante, sembra affrontare il mondo a muso duro, con punte di spavalda asprezza e col cipiglio di un tipaccio poco raccomandabile che nel nome del bad‘n’roll nessuno vedrà mai senza occhiali da sole. Ma è solo un gioco, un artificio che deve dar fastidio e affascinare in misura eguale, giacché il nostro è in realtà affetto sin dalla nascita da acromatopsia, rarissima patologia genetica che affligge soltanto 40.000 persone in tutto il mondo ed i cui sintomi, acuiti dalla piena luce del sole o di intense fonti luminose artificiali, sono l’impossibilità di distinguere i colori. Solo bianco, nero e alcune sfumature di grigio. Altro che vezzo del bel tenebroso con leggera smorfia di cattiveria all’angolo del labbro: a causa delle sue condizioni di salute, John è stato dichiarato legalmente cieco. Certo una beffarda ironia della sorte per uno che vive tra i fioriti colori della California.
Ecco, tutto questo è Born To Be Wild (e dintorni): niente di più, niente di meno. E se quanto letto in codeste righe è riuscito a solleticare i vostri istinti più animaleschi, compratelo, registratelo, scaricatelo e questo anthemico rock motociclistico vi perseguiterà senza darvi pace. A buon intenditor abbiamo già offerto sin troppe parole. Steppenwolf,  il “lupo della steppa”: nato per essere selvaggio e che il diavolo se lo porti.



Mauro Rollin On The River Uliana






(1) Lo stesso trattamento di molatura e dilatazione viene riservato da Grant Green anche a Let The Music Take Your Mind dal primo omonimo album del ’69 di Kool & The Gang, Hey, Western Union Man di William Bell e It’s Your Thing degli Isley Brothers

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